21. Nonne e anatre
Il Jingyi Place non è esattamente un ristorante cinese che segua lo standard: non si trova in una delle vie più turistiche di Chinatown, ma è nascosto nel cuneo tra due edifici attigui, in una stradina stretta e percorsa solo dalle biciclette dei suoi abitanti. A prima vista non pare nemmeno un posto degno di nota, ma tutto cambia una volta che si sono varcate le sue strette porticine.
È composto da un'unica sala rettangolare, abbastanza grande per contenere una decina di tavoli tondi e una ventina di tavolini da coppia. Non ci sono finestre e i muri sono rivestiti di pannelli di legno sormontati da carta da parati color carta da zucchero con decorazioni dorate di piante e animali. I piccoli paravento che separano i tavoli perimetrali richiamano lo stesso motivo. In generale l'atmosfera è gradevolmente intima, anche se per alcuni può apparire quasi soffocante, visto che le uniche fonti di luce sono delle piccole lampade da parete, gialle e arancioni. Conosco questo posto da quando mi sono trasferito a New York perché ci abbiamo festeggiato ogni compleanno di Tanya. Puntualmente. Ogni anno. E non mi sono mai spiegato il perché, dato che Tanya odia il cibo fritto e, si sa, il cinese è produttore mondiale di cibo ammazza-fegato da sempre. Ma in fondo chi ha mai capito quella ragazza?
Fortunatamente Anthea non le somiglia ed entra con un sorriso splendente stampato in volto.
"Non è molto conosciuto." Le spiego, mentre la proprietaria, una severa signora sulla settantina con una crocchia di capelli ancora nerissimi, dà un silenzioso ordine alla cameriera bionda per farci accomodare in un angolo riparato del locale. "Non è molto turistico. Però fanno ottimi piatti non americanizzati."
"Molto meglio." Risponde lei, optando per la panchetta dietro il paravento. "Non mi aspettavo una sorpresa del genere."
"Spero di non averti deluso."
"No! È fantastico. Mi viene ancora da ridere."
Ed è vero: non riesce a smettere di sorridere ed è così bella che faccio fatica a credere che sia davvero qui con me. In realtà ancora non mi capacito di averla conosciuta, di uscire con lei e di star palesemente innamorandomi di lei. Fino al mese scorso non avevo mai neanche pensato di conoscere una ragazza del genere. Non pensavo nemmeno potesse esistere e soprattutto che io avrei potuto avere un'occasione. Mi odio ancora per averla fatta attendere per il nostro primo appuntamento. Sono proprio un barbaro.
"Allora..." Dico, riprendendo il discorso. "Cosa hai in mente di scegliere?"
"Sei tu l'esperto qui. Dovresti consigliarmi tu."
"Sono cinese di terza generazione, eh. So a malapena parlare un po' di mandarino."
"Di terza?"
Anthea si fa subito curiosa. Mi piace questo lato di lei: qualsiasi cosa dica, diventa uno spunto per una conversazione. E mi pare anche stranissimo che lei si interessi alla mia vita: sono sempre stato io, quello che sta a sentire le avventure degli altri. È bizzarro dover parlare di me e percepire che per qualcuno sia addirittura interessante.
"O meglio, da parte di mio padre. I miei nonni arrivarono in America nel lontano 1954. Da parte di madre è quarta generazione, ormai."
"Chi ti ha insegnato il mandarino?"
"Mia nonna Zhou. Non ha mai saputo altra lingua di quella, eri costretto a impararla se volevi comunicare con lei." Le spiego, poi decido di fare addirittura uno strappo alla regola che mi impone di non sbilanciarmi mai sul mio passato e aggiungo: "Per tutto il periodo dell'università ho vissuto a casa sua e per me divenne abbastanza difficile dover fare gli esami in inglese."
"Viveva vicino alla tua università?"
Veniamo opportunamente - perché qui iniziano le domande scomode - interrotti dalla stessa cameriera che ci ha fatto accomodare. Deve essere una liceale, perché dimostra circa diciassette anni, è in piena fase di acne adolescenziale e porta l'apparecchio per i denti. Però appare convinta, quando saluta e ci lascia i menù.
"Qui fanno cucina pechinese." Spiego alla mia ospite, sentendomi un po' una guida gastronomica. "Quindi i piatti sono tutti tipici della cucina della capitale. Che è anche il luogo da cui vengono i miei nonni."
"Quindi è la cucina tipica di tua nonna?"
"Non c'era festa in casa sua che non venisse onorata da un'anatra ben cotta."
"Anatra."
Anthea apre la sua carta e scorre con gli occhi i piatti, i cui nomi sono scritti sia in inglese sia in cinese. Alla fine punta il dito proprio su quello.
"Allora proviamola."
Non sono molto sicuro che sappia che cosa mangerà, ma non ho il tempo di spiegarglielo, perché la cameriera torna e bisogna ordinare.
"Un'anatra alla pechinese e un Maiale Mu Shu."
La ragazza prende appunto, ringrazia con un sorriso e scompare. Torno a guardare Anthea, che è felice come una bambina. All'improvviso mi chiede: "Come si chiama in cinese?"
"Cosa?"
"Anatra alla pechinese."
"Běijīng kǎo yā. Significa Anatra arrosto di Pechino."
"Quindi tua nonna lo faceva sempre?"
"Sì, ne andava molto orgogliosa. La faceva per mio nonno e poi, quando morì, continuò a farla per il suo unico figlio e per i suoi due nipoti."
"Lo faceva spesso, mentre abitavi con lei?"
E siamo pericolosamente tornati sul discorso di prima. Strano però che non senta il bisogno di divenire nervoso e di sviare, tanto che rispondo: "No, faceva un sacco di riso. Era anche più facile da portare in università."
Anthea mi guarda e per un secondo, come mi era già successo a Central Park, mi sembra che tiri la linguetta della cerniera della mia mente, per scrutare nella mia anima. È seria mentre mi studia, nonostante continui a sorridere. Non sto impazzendo: è uno sguardo ben diverso da quello che normalmente ha. È molto più maturo, più consapevole, meno malinconico. È lo sguardo dell'Anthea che ancora non conosco.
"Ti piaceva vivere con lei?"
"Molto. Era affettuosa come... beh, come una nonna. Le voglio bene."
"Abita ancora a Marquette?"
"Sì, ma ormai in una casa di riposo."
"Io non conosco i miei nonni." Dice con tranquillità, mentre nei suoi occhi evapora quella sfumatura grave che tanto mi preoccupa.
"Morti prima di conoscerti?"
"Quelli di mio padre sì. Quelli di mia madre sono vivi. Vivono in Florida."
"Ah. E non li hai mai incontrati?"
Anthea risponde con un tono impercettibilmente strano, con una nota di apatia o di indifferenza: "Non amavano mia madre."
Non so perché, ma il fatto che parli al passato di sua madre mi fa scattare un campanello d'allarme in testa. È qualcosa a cui sono stato ben educato dalla vita stessa. Prego e spero che Anthea non abbia ricevuto la mia stessa maledizione.
"Anatra e maiale."
La cameriera torna con un grande vassoio circolare e una specie di piccola ruota che appoggia subito al centro del nostro tavolo, su cui posa il portavivande. Anthea osserva ogni cosa con una faccia leggermente confusa e lo sembra ancora di più quando la ragazza va e torna portando una piccola teiera. Subito dopo apparecchia con piatti di porcellana bianchi decorati d'azzurro e pone i maledetti strumenti di tortura: le bacchette. Fortunatamente aggiunge anche una forchetta, avendo visto l'espressione allarmata di Anthea. Aspetto di ringraziarla e di vederla allontanarsi prima di ridere.
"Stupita?"
"Perché ha messo i piatti al centro?" Domanda, guardando la sua anatra sul vassoio.
"Perché in una tavola cinese le portate vengono messe al centro per essere condivise." Spiego. "In un ristorante più grande sarebbe venuto personalmente il cuoco ad affettare l'anatra, ma non penso che qui ci sia lo spazio necessario."
Anthea osserva il vassoio, poi alza una mano e prova a farlo girare. Sorride tra sé quando nota che il meccanismo funziona.
"E mi hanno anche messo dei pancakes." Commenta, notando le piccole paste ancora intonse accanto alla carne.
"Con quelli arrotoli la pelle per mangiarla."
"La pelle?"
Scatta come se avesse ricevuto un pizzicotto sulla coscia. Sapevo che sarebbe andata a finire così. Gli occidentali fanno sempre così quando scoprono il grande segreto dell'anatra alla pechinese.
"Qui seguono l'antica ricetta dell'anatra. Questa è quasi tutta pelle croccante."
"E il resto?"
Alzo le spalle. "Nelle zuppe degli altri clienti."
Anthea si mette a ridere, rispondendo: "Ne saranno contenti." Detto ciò, gira di nuovo il vassoio verso di lei, afferra il largo e curvo cucchiaio di porcellana della portata e si mette nel piatto una generosa palata di carne servita con salsa di fagioli dolci e cipolle.
Non posso che dirmi sorpreso dalla scena a cui assisto.
"La mangi lo stesso? Sapendo che è in buona parte pelle?"
"Sì, perché?" Domanda lei, intenta questa volta nello scegliere il pancake migliore con cui iniziare. Scuoto la testa con un sorriso incredulo e poi rido: "Perché è... strano."
Come tutta risposta afferra la forchetta.
"Va bene, mi sembri molto decisa." Decreto, recuperando il mio maiale. "Anche se dovresti mangiare con le bacchette..."
Anthea alza gli occhi su di me, poi li abbassa sull'astuccio di carta a fianco del suo piatto, da cui spuntano i manici decorati di due bacchette nere. Posa la forchetta e le estrae con scrupolosa angoscia. Torna a guardarmi e sembra più preoccupata di prima.
"Mi fai vedere?"
"Certo."
C'è un unico problema: io uso le bacchette da anni. Le impugno e mostro ad Anthea come fare, ma quando bisogna passare alla parte pratica - ovverosia sollevare il cibo - arrivano le dolenti note. Tutto quello che riesce a fare è schizzare salsa su tutto il piatto. Quando una goccia marrone atterra sulla tovaglia davanti alla sua tazza per il tè, Anthea capisce che è troppo. Posa le bacchette in ordine sul tovagliolo e riprende la posata.
"Scusa, non ci riesco."
"Non ti preoccupare." Rispondo bonariamente. "Avremo tempo di imparare."
L'ho detto davvero?
Anthea ride. "Sì. Dovrai decisamente insegnarmi. Intanto non apprezzi il fatto che non abbia tentato di infilzare la carne con una bacchetta sola?"
"Ovvio che sì. Credimi, ne ho viste di acrobazie con le bacchette in tutti questi anni."
Finalmente libera dall'impedimento, può provare la sua ardita scelta gastronomica. Prima di masticarla si fa pensosa e ragiona sul sapore, ma mi dà un verdetto solo dopo averla deglutita.
"Strana. Ma buona."
"Grande! È andata."
"Il tuo cos'è?"
"Maiale cotto con funghi, uova e emerocallide."
"L'emerocallide è un fiore." Dice. "Dopo posso provare?"
Sono stranamente eccitato dal suo interesse: non capita di certo tutti i giorni. Prima di rendermi conto della ridicolezza del pensiero, provo orgoglio addirittura per come impugno le bacchette.
"Quando andavo in università mi vergognavo a usarle." Dico, alzandole con uno straccetto di maiale tra le punte. "Avrei dovuto far scomparire gli occhi a mandorla, figurati che gioia apparire così cinese anche a pranzo."
"Perché?"
"Ero troppo appariscente."
"Ma non sei appariscente, sei solo... differente."
"Esatto." Rispondo. "È proprio questo il problema. Non volevo essere diverso."
"E ora hai cambiato idea?"
"Sì, da molto tempo. Ma prima ho dovuto imparare ad accettarmi."
"È per quello che abitavi con tua nonna? Per imparare a farlo?"
Chiudo la bocca e abbasso le bacchette, perché potrebbe andarmi di traverso il boccone. Pensavo che il discorso si fosse chiuso, ma a quanto pare per Anthea non è così. Deglutisco a vuoto e poi penso a una cosa: prima o poi, se la cosa va avanti, dovrò cominciare a dire la verità. Anthea non è più una sconosciuta. Non posso permettermi di pensare a lei come a qualcuno a cui nascondere le cose per un motivo lecito. Non tutto, per lo meno.
"Come hai fatto a capirlo?"
"Non ti accettavi. Spesso sono i genitori a non farlo per primi."
"Mia mamma mi accettava." Le rispondo. "Ma quando è morta, a me non è rimasto nessuno che tentasse lo sforzo."
Negli occhi della mia ospite passa una scintilla di dolore e io lo so, lo percepisco, che ha provato il mio stesso dolore. C'è qualcosa negli orfani che permette loro di distinguere i propri simili. È come se io vedessi il riflesso di me stesso attraverso le sue iridi.
Ma, a differenzia mia, il rigetto del lutto in Anthea è ancora vivo e vegeto, perché improvvisamente cambia argomento.
"Allora, sei pronto al mio regalo?"
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