19. Questione di tacchi

Avete presente cosa succede quando avete un pensiero fisso in testa che ha la stessa capacità di presenza di una puntina da disegno conficcata nella pelle? Non riuscite a pensare ad altro, nemmeno sforzandovi al massimo: quella sensazione rimarrà ben piantata nel vostro cervello, emettendo lo stesso suono di una porta allarmata aperta per sbaglio: Attenzione! Attenzione! Attenzione!

Per quanto abbia tentato di rimanere concentrato sul mio lavoro, ho dato ben misero spettacolo al mio stagista: più di una volta Silas mi ha fatto notare errori che io avevo bypassato senza degnarli di un'occhiata. Alla fine della mattina ho dovuto dargli atto che senza di lui non avrei combinato molto. 

"Mi sembri preoccupato per qualcosa." Mi dice, mentre facciamo una pausa e andiamo a prenderci l'ennesimo caffè della mattinata al distributore automatico in fondo al corridoio. Mi stringo nelle spalle e ribatto: "Relazioni sociali." 

"Ah... intendi il male del mondo?"

Gli sorrido, perché probabilmente ha capito subito con che persona problematica sta avendo a che fare. 

"Il male del mondo, già."

"Io ho dovuto silenziare il gruppo che ho con i miei amici. Sono diventati insopportabili da quando ho iniziato a lavorare qui."

"Non ho mai permesso ai gruppi WhatsApp di mandarmi notifiche."

Il pensiero di aver offeso Anthea mi ossessiona. Una parte di me scalpita al pensiero di scriverle ancora e sincerarmi che vada tutto bene, l'altra parte vorrebbe aprire una finestra e lanciare il cellulare il più lontano possibile. In entrambi i casi mi paiono idee molto discutibili.

Torniamo al nostro lavoro senza aggiungere altro. L'articolo è lungo e complesso, pieno di note e rimandi bibliografici, ma so che dovremo dividere il lavoro in più giorni: entro l'ora di pranzo riusciamo a controllare solo introduzione e capitolo primo, trovando con soddisfazione qualche piccolo errore, soprattutto nelle citazioni delle fonti critiche. 

"Cosa succede se l'articolo viene pubblicato senza correzioni?" Mi chiede Silas, mentre infila ordinatamente i fogli nella sua cartelletta blu per continuare domani.

"Errata corrige." Ribatto. "Esce una nuova versione con gli errori corretti. Ovviamente nessuno vuole che al proprio articolo sia fatto un update degli errori. Per questo motivo io ho un lavoro e non sono disoccupato."

"Mi hai detto che ti pubblicarono l'articolo della tesi del baccellierato. Su cos'era?"

"Joyce."

Silas sorride. Devo dire che è proprio un bel ragazzo. Miranda aveva ragione su di lui. 

"Domattina ci occuperemo della seconda e terza parte, sperando di terminare. Se facciamo in tempo, rileggeremo tutto per essere sicuri di non aver lasciato indietro nulla."

"Non vedo l'ora!" Risponde lui, allo stesso tempo sarcastico e davvero divertito. Lo lascio fare: è una ben comprensibile reazione. Purtroppo non possiamo sfruttare anche il pomeriggio perché è in fase di esami e deve rifugiarsi in biblioteca a studiare, perciò lo saluto verso l'una e recupero il mio pranzo: due tramezzini al prosciutto. Meglio star leggeri, dopo l'ultima batosta. Recupero automaticamente il cellulare e, con una sensazione di profonda insoddisfazione, scendo al quarto piano per a consueta riunione nella Cibo-Sala e noto che sono già arrivati tutti. Jeb sta chiacchierando con Miranda, Henry è intento ad ascoltare la conversazione di Kirti e Sofia, Shelly ha intavolato una discussione sui pro e i contro dell'ultima immagine di preghiera mandata da Quentin sul gruppo - che dovrebbe essere causa della vittoria di una partita di calcio - mentre Martin sta intrattenendo le uniche due grafiche della redazione, Lakisha e Marie, con uno dei suoi siparietti relativi agli appuntamenti Tinder che puntualmente finiscono in surreali storie di gangster gelosi, cagnetti isterici e donne che si scoprono essere alte un metro e novantacinque senza tacchi. Probabilmente la cosa non farebbe ridere se Martin non fosse un ometto a misura tascabile, che è costretto a guardare Serafina puntando il naso all'insù. 

Mi siedo proprio di fianco a lei, nel posto che mi spetta da tre anni a questa parte. Il mio capo ha stirato le gambe sotto il tavolo e si tiene tre dita puntate contro la tempia, intenta a osservare la zuppa arancione che ha probabilmente acquistato la sera prima. Serafina non è una cuoca appassionata. Vive da sola con Goethe e si nutre prevalentemente di prodotti confezionati o da asporto. Goethe, al contrario, ha le migliori crocchette sul mercato.  

"Mattinata impegnata?" Le chiedo, notando il suo sguardo tendente al cupo. Lei si stringe nelle spalle e si infila in bocca una cucchiaiata di vellutata. 

"Stamattina ha telefonato mia madre."

Mi irrigidisco sulla sedia. Ogni qual volta che i signori Celli chiamano la loro figlia, Serafina entra in uno stato tra il catatonico e lo scorbutico. Si chiude nel suo irato silenzio e più che parlare, ringhia. I motivi sono diversi, probabilmente non li conosco tutti, ma sono certo che ci sia di mezzo la discrepanza tra ciò che sua madre desidera da lei e ciò che Serafina ha ottenuto da se stessa. È una donna realizzata, felice di quello che possiede, ma temo che per la signora Celli sia più vicina al fallimento personale, più che a un vittorioso e radioso futuro. 

"E?" Oso chiedere. Lei abbandona il cucchiaio nella ciotola e questo affonda emettendo un fuggevole sospiro di risucchio.

"Vogliono venire a trovarmi. Tra un po'. Non so quando di preciso e vorrei continuare a vivere in questa condizione di ignoranza."

Abbasso lentamente il tramezzino a cui avevo intenzione di dare un morso. Questa è una novità assoluta: non era mai successo che i suoi decidessero di fare il grande passo.  

"Sei preoccupata?" Le chiedo, inquietato dalla sua poco normale anergia. 

"Fino a ora sono sempre stata contenta dal saperli sani e salvi dall'altra parte degli Stati Uniti. Non capisco questo improvviso desiderio di vedermi di persona. Non bastano le nostre stitiche conversazioni telefoniche? A me sì. Eccome se bastano."

Riprende il cucchiaio prima che anche gli ultimi centimetri affondino nella zuppa e picchietta la punta contro il fondo del contenitore. Se c'è una cosa che odio al mondo è vedere Serafina in uno stato di angoscia che non le si addice. Lei è quella che per definizione tira le orecchie a tutti noi - a me per primo - quando ci facciamo le paranoie. Il fatto che sia concentrata sui suoi crucci è qualcosa di totalmente fuori posto. Come un pezzo del puzzle improvvisamente staccato dagli altri e messo a rovescio.

"Sef." Le metto una mano sulla spalla. "Sono i tuoi genitori. Non è strano che ti vogliano vedere."

"Oh, sì che è strano." Ribatte lei, scocciata come al solito ma al tempo stesso afflitta. È un ringhio basso, infastidito e sofferente. "E vedrai. Si saranno inventati qualcosa. Si sono sempre inventati qualcosa per mettere a soqquadro la mia vita."

"... E alla fine si è presentata con dei tacchi da dieci centimetri e mi ha detto: Beh, ma avevi detto che i tacchi ti piacevano! E io ho dovuto risponderle: Certo, bella, ma ora quelli servono a me!"

Martin conclude il suo racconto alzando la voce all'improvviso, per attirare l'attenzione di tutto l'uditorio, ma la battuta e la risate che ne conseguono non fanno altro che peggiorare la situazione con Serafina. Non so cosa le scatta dentro, ma si alza - come se la protagonista della storiella del mio collega si fosse appena materializzata in carne e ossa nella nostra sala da pranzo - prende la sua zuppa e dopo essersi infilata il cucchiaio in bocca esce a grandi passi. 

È calato il silenzio su tutta la redazione. Rivolgo un'occhiata in giro e noto che tutti si guardano confusi, mentre piano piano gli sguardi vanno a posarsi su Martin. Lui si aggiusta nervosamente gli occhiali, il suo viso si sta chiazzando di larghe macchie bordeaux. 

"È colpa mia?" Domanda spaventato. "L'ho offesa?"

Faccio un cenno di diniego con la testa e rispondo: "Problemi in famiglia."

Tutti sanno che tra Serafina e i suoi non corre buon sangue, così si rilassano, anche se solo in modo superficiale. Il fatto che il nostro capo sia alterato non è un bene per nessuno. Torniamo a mangiare, molto più silenziosi di prima e io torno a chiedermi se ho appena firmato la mia sconfitta con Anthea. Accendo il cellulare e controllo le notifiche: niente. Con il bipolare desiderio di disperarmi e insultarmi da solo, torno al lavoro. Lascio da parte l'articolo su cui lavorerò con Silas e procedo con il resto: non posso di sicuro dire che gli articoli mi mancano.

Nel silenzio del mio ufficio, con solo il gatto portafortuna a tenermi compagnia, il tempo scorre nonostante io non me ne accorga minimamente. Cerco di concentrarmi solo su quello che devo fare. Nient'altro. Chissà quanto tempo dopo la voce di una persona umana mi richiama dal mondo delle lettere e delle citazioni errate. 

"Jess, sono quasi le sei." 

Alzo gli occhi dallo schermo del computer - accorgendomi nello stesso istante che mi bruciano da morire - e noto sulla soglia Kirti, vestita in uno dei suoi sgargianti abiti multicolori. Ha un'espressione serissima. 

"Dovresti andare a casa."

"Sì, sì... ora ci vado. Grazie per avermi fatto notare l'ora, Kirti."

"Distratto come sei, te ne saresti accorto domani mattina." 

Accenno un sorriso. È una ragazzina graffiante, spigliata, dalla battuta pronta. Non mi stupisco che Henry la trovi affascinante: è tutto quello che lui non è. Esco assieme a lei dall'ufficio della redazione. Prima di prendere l'ascensore busso alla porta di Serafina, ma non ricevo risposta. Non so se sia ancora lì o se se ne sia andata a casa. In ogni caso di sicuro non vuole parlare. 

"Henry mi ha detto che il nuovo stagista sembra bravo." Mi dice Kirti, mentre ci avviamo fianco a fianco verso la metro. Lei abita sulla Lexington Avenue, nella zona dell'Upper East Side. Va nella direzione opposta alla mia.

"Sì, lo è."

"È anche un bel ragazzo."

"Vero."

"Sai, temo che sia un po' invidioso."

Le lancio un'occhiata di sguincio e noto sparire un sorrisino dalle sue labbra scure. Mi rivolge subito un'occhiata interrogativa, ma non me la dà a bere.

"Anche io lo sarei... soprattutto se ci fosse una che mi piace nel posto in cui lavoro."

Kirti non risponde. Arriviamo nel punto in cui le nostre strade si separano e alza una mano in segno di saluto.

"A domani. Speriamo che la tigre si calmi." 

Sorrido e inizio a scendere le scale della metro, quando sento trillare il cellulare nella tasca dei pantaloni. Ho un déjà vu o cosa? Questa volta non mi fermo su un gradino: mi precipito a prendere posto nel vagone del mezzo appena arrivatom continuando a ripetermi: fai che sia lei, fai che sia lei. 

Quasi urlo dalla gioia quando mi rendo conto che è davvero lei. Mi ha inviato una foto. La apro in tutta fretta, dimenticando tutte le regole che Ruben ha tentato di spiegarmi nei suoi anni di guerriglia su Whatsapp con Tanya. Mi trovo davanti l'immagine scattata a Central Park del gelataio ambulante della scorsa sera. La osservo senza capire, fino a quando non leggo il messaggio sotto. 

Visto? L'ho trovato da sola questa volta.  

Non mi ha scritto nulla di particolarmente commovente, ma sono così sollevato dal notare che non ce l'ha con me che all'improvviso tutti i miei pensieri negativi sembrano spazzati via da una violenta folata di vento. Mi sento meglio, mi rilasso contro lo schienale del mio sedile e intanto le rispondo:

Bravissima. Sapevo che nel cuore sei una piccola scout. 

Lo sono eccome! 

Hai preso ancora quei gusti orribili? 

E tu hai mangiato altri gamberetti?

Touché di nuovo. 

E sarà così per sempre!

Leggo due o tre volte quelle tre parole cercando di dare loro un senso logico e di calmare il mio cuore improvvisamente in subbuglio. È più forte di me: ogni volta che Anthea accenna a un noi nel futuro, io mi sento subito entrare in una nuova dimensione, magica, sconosciuta ed entusiasmante. Penso proprio di star cominciando a provare qualcosa di serio per lei. E, ovviamente, non ho assolutamente idea di quello che potrebbe accadere nel mio molto interessante piano per il nostro secondo appuntamento. Lo scoprirò solo vivendo, temo. E chissà se ci arrivo vivo, al domani. 

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