17. La di lei cineseria

Ruben non fa altro che fissarmi. Non mi ha scollato gli occhi di dosso dal momento in cui sono entrato in cucina, alla disperata ricerca di una tazza di caffè forte, nero e senza neanche l'ombra di zucchero. Sa che è un ottimo modo di irritarmi e sfrutta la cosa a suo favore.

È infastidito perché ieri sera sono rientrato a casa piuttosto tardi e non gli ho dato modo di spettegolare su tutto quello che avevo fatto, ma questo non vuol dire che ora lui abbia diritto di torturarmi alla sua maniera. Tento di ignorarlo mentre riempio la mia tazza con la magica bevanda degli dei lavoratori. Prima di essere costretto a sedermi davanti a lui e subire le sue occhiate insistenti, rimango in piedi fissando il nostro ripiano dei dolci, facendo finta di voler anche solo considerare l'idea di prendere un biscotto. La dannata pizza ai gamberetti non mi ha fatto chiudere occhio, figuriamoci se ho fame. 

Alla fine, volente o nolente, il momento tanto temuto arriva. 

"Quindi..." Inizia Ruben, senza celare il principio di un sorrisetto. "Che mi dici?"

"Che dovresti imparare a farti gli affari tuoi."

"Non penso che ormai sia più in tempo, Raviolino al vapore. Sono vecchio per imparare."

"In effetti assomigli alle vecchie signore della casa di riposo, in quanto a curiosità."

"Ah-Ah, spiritoso." Appoggia entrambe le braccia sul tavolo, circondando la sua tazza. Vedo solo le fessure luminose degli occhi di Iron Man squadrarmi inquisitorie. "Allora? La ragazza? Il primo appuntamento? Vi siete già baciati?"

Io non pretendo che Ruben non si comporti da Ruben. Diciamo che mi piacerebbe che, conoscendomi, aspettasse quantomeno il tempo della buona educazione prima di tartassarmi con domande personali. Sospiro, perché so che comunque ripeterglielo non servirebbe a molto e rispondo: "Non so te, ma io non bacio le ragazze dopo esserci uscito una sera."

"Sono loro che baciano me, non il contrario."

"È uguale."

"Va bene, non l'hai baciata, ma è stato comunque bello?"

"Sì. Davvero tanto."

"Siete usciti a cena e basta?"

"L'ho portata anche a Central Park per un gelato. Non ci era mai stata."

"Addirittura? Ma allora è una cosa seria."

"Tra una settimana torna a casa, Bub."

È questo a cui non ho fatto altro che pensare dal momento in cui ci siamo salutati sulla porta del suo palazzo a Park Avenue. Nemmeno il bacio sulla guancia che mi ha regalato prima di scomparire nell'edificio è riuscito a distogliermi, se non per cinque mirabili minuti, dalla preoccupazione che tutto quello che sto vivendo sia un fuoco d'artificio, pronto a svanire nella notte in fumo e cenere.

"E allora?" Mi chiede lui, aggrottando le sopracciglia dietro gli occhiali. Ha deciso che non indosserà le lenti a contatto per un bel po', dato che gli occhi gli hanno fatto male per più di cinque giorni al ritorno dalla festa.

"Come e allora?"

"Dove sta il problema?"

"Che non abita esattamente a New York!"

"E dove abita? In Inghilterra?"

"No, in New Jersey."

"Ma vaffanculo, Jess. E poi sarei io il drammatico, vero? Abita a due ore di auto da qui e tu ti comporti come se fossimo nell'Ottocento e dovessi partire per la guerra! Non la puoi nemmeno considerare relazione a distanza!"

"C'è anche un altro problema." Aggiungo subito, decidendo all'improvviso che se non ne parlo con qualcuno, impazzirò. "Lei non lo sa."

"Che cosa?" Ribatte Ruben stizzito. Lo fisso ed eloquentemente alzo un braccio e punto l'indice verso il basso, a indicare ciò che non si vede - e ciò che non c'è. Il mio migliore amico ci mette un istante a capire. Il fatto che non si ricordi sempre e comunque che non sono sempre stato così mi genera uno strano e perverso piacere. Mi fa sentire infantile, ma anche piuttosto realizzato.

"Ah." Ribatte, molto meno infervorato di prima "Non lo sa?"

"No."

"E, di preciso, quando hai intenzione di dirglielo? Quando sarete sposati?"

Scuoto la testa, poi mi stringo nelle spalle. È stato un chiodo fisso per tutta la serata, ma allo stesso tempo tanto come udire in lontananza rombi di temporale: un'idea troppo distante per curarsene davvero.

Anche Ruben scuote la testa, ma sospira anche esasperato.

"Non ne hai idea?"

"In realtà non pensavo che la serata sarebbe andata tanto bene. Non mi aspettavo di voler rivederla. Capisci? È diventato ora un problema."

"Perché, vi vedete presto?"

"Domani." Confesso. Proprio così: quando ho preso coraggio e le chiesto quando - e se - avrebbe avuto intenzione di uscire di nuovo con me, ho ricevuto un Dopodomani sera sei libero? E non potevo certo dirle di no.

Ruben sgrana gli occhi, non riuscendo a sopprimere la sorpresa. Si ricompone subito e cerca di non dare a vedere lo stupore dicendo: "Ah, però... Alla faccia di quello che si è fatto tanti problemi a uscirci anche solo una volta."

"Sto bene con lei."

"E ora come ora ti stai anche cagando sotto al pensiero che anche lei sta bene con un lui che sotto è una lei."

Potrebbe sembrare offensivo il modo in cui Bub si esprime riguardo la mia condizione, ma di fatto ha ragione. Io mi sono sempre sentito e mi sento uomo; io sono un uomo. Ma ciò non cambia che da occhi esterni la mia convinzione possa non essere affatto percepita.

La gente non abita nella tua testa, mi ha sempre detto il mio psicologo davanti alla frustrazione nel non essere riconosciuto come maschio. E nemmeno Anthea ci vive. Perciò Ruben ha ragione: come potrebbe reagire davanti a un corpo che ha base femminile? 

"Dovresti sottolineare il fatto che non potrai essere padre." 

Okay, questa poteva anche evitarla. 

"Ruben. Cazzo."

Alza le mani per difendersi come se non avesse detto alcunché. "Cosa? È la verità! Semplice e dura verità biologica."

"Non mi sono fidanzato, non mi sposo domani e soprattutto nessuno ha mai parlato di bambini!"

"Io mi porterei avanti, se fossi in te. Noto che la ragazza è rimasta letteralmente affascinata dalla tua cineseria."

"Cineseria." Brontolo, finendo in tre sorsi il mio caffè ormai freddo. Ruben tende inaspettatamente una mano e picchietta sulla mia, con un sorriso strano.

"Dai, Jess." Dice, e sembra particolarmente serio. "È il tuo momento. Per una volta che capita a te qualcosa di bello, non fartelo sfuggire."

"È che... è che non mi sembra vero. Ho la sensazione che sia tutta una mia idea... magari si sente solo sola. No?"

"E quindi esce a caso con un ragazzo conosciuto a una festa? Dai, su, Jess. Ti svelo un segreto: anche le ragazze sono capaci di provare attrazione immediata per qualcuno."

"Grazie tante. Lo sapevo da me."

Ruben mi ignora. "Non c'è bisogno di un corteggiamento di un anno. Io non so cosa avete combinato ieri sera, ma di sicuro la signorina sta tentando di corteggiarti."

"Hai appena detto che non sai cosa è successo."

"Sì,  ma io queste cose me le sento."

"Il medium dei casi amorosi! Signore e signori, un pezzo unico da freak show!" Esplodo, per poi scoppiare a ridere, sinceramente divertito. 

"Sei uno stronzo, ma ti voglio bene." Ribatte lui e so che è profondamente sincero. Giro la mia mano e stringo la sua. 

"Anche io."

Sembra un momento di puro e semplice affetto, vero? 

È questo il problema: sembra. Sembra e basta.

"Comunque sono molto contento che domani sera esci, sai?" Aggiunge velocemente,  crepando il delicato vetro della mia commozione. "Perché temo avrò un'ospite."

"Ah. Sì?"

"Eeeeeh, già..." Ruben si apre in un sorriso furbo, da putto malvagio. "Tanya."

"Tira aria di ritorno di fiamma?"

"Ooooh, yes."

"Chissà quanto durerà questa volta."

"Probabilmente per sempre, stronzo."

Io ho i miei dubbi, ma è stato troppo carino con me per ricordargli che la sua ragazza probabilmente soffre di un disturbo psichiatrico molto simile al bipolarismo, così mi limito a sorridere e ad alzarmi. 

"Già. Hai ragione."

"Su cosa?" Chiede lui, sospettoso.

"Sul fatto che sono uno stronzo." Affermo soddisfatto, prima di abbandonare la tazza e correre via per costringerlo di nuovo a pensare lui a lavare i piatti.

A noi due, stagista. 


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