16. Aceri al tramonto

Non vado spesso a Central Park, più per motivi di pigrizia che per altre valide cause, ma ogni volta che ci metto piede non posso fare a meno di pensare a quanto poco interessante sarebbe New York se non ci fosse quell'enorme giardino nel centro di Manhattan.

Anthea e io ci entriamo dalla Quinta Strada dopo aver fatto due fermate di metro. Il su entusiasmo è andato crescendo a ogni passo: ora saltella al mio fianco. Mi tiene per mano da quando siamo usciti dalla metropolitana. Ha semplicemente cercato le mie dita e io ho stretto le sue. Non ho provato imbarazzo, non ho sentito il bisogno di allontanarmi e adesso camminiamo assieme, mentre la gente di passaggio ogni tanto ci rifila uno sguardo distratto. 

Il sole sta iniziando a calare, ma la luce sfuma molto lentamente verso il cinabro, toccando prima tutte le tonalità che dall'azzurro conducono al rosso. Non c'è una nuvola a oscurare il tramonto e le chiome degli alberi vengono benedette dai raggi dorati che piovono sulla città. È anche per me una benedizione. Poche volte nella vita mi sono sentito sereno come nel momento in cui mi siedo su una panchina che Anthea ha individuato, tra i piccoli cespugli davanti allo Stagno. Oltre la bassa recinzione l'acqua, di un profondo verde bottiglia, è increspata solo da un gruppetto di anatre e da qualcosa che sfiora la superficie, come se tentasse di pizzicarla delicatamente. 

"Sono idrometre." Dice Anthea.

Abbasso gli occhi su di lei e le rivolgo uno sguardo interrogativo. Lei sorride, con entrambe le mani ripiegate sotto le gambe, per sollevarsi un poco e riuscire a far dondolare le gambe. 

"Idrometre. O gerridi." Ripete.

"Temo di essere ignorante in materia." 

"Sono quegli insetti che pattinano sull'acqua." Tende un braccio e indica un punto vicino alla riva, dove l'acqua sembra singhiozzare ogni pochi istanti. "Rimangono a zampe larghe per non rompere la tensione dell'acqua e ogni tanto si danno un colpetto per non andare alla deriva."

Sorrido, posandomi le mani in grembo. Sono sempre più stupito da Anthea. Quando ci siamo conosciuti, mi ero convinto fosse timida, riservata, romantica, un'innamorata nostalgica del passato. Ora, invece, sto scoprendo che è molto più eclettica di quello che pensavo. Me l'ero immaginata eterea fanciulla di carta e inchiostro ignara di gran parte delle cose del mondo, non piccola ed entusiasta guida naturalistica in giunzione astrale con ogni elemento, umano e non. 

"E tu come sai tutte queste cose?"

Si stringe nelle spalle. "Mi piacciono anche gli insetti."

"Ti piacciono tantissime cose."

"Enciclopedia, ricordi?"

La sua caratteristica voce a sospiro si adegua in modo curioso al sorriso vivace con il quale accompagna le sue parole. Le lentiggini si muovono con il tendersi delle sue labbra, un'onda di puntolini che alla luce gialla del calar del sole hanno assunto un'intensa gradazione color ruggine. Sono colto alla sprovvista da una strana considerazione: perché non si celebra le bellezza delle efelidi? Perché le persone non elevano a modello di beltà un viso come questo? Anthea è molto più che bella: è deliziosamente originale. 

Mi rendo conto di non aver risposto alla sua domanda quando lei si volta verso di me, curiosa. Smetto di fissarla e ribatto un po' troppo in fretta: "Certo." Subito dopo aggiungo: "Hai un giardino a casa?"

Anthea annuisce, senza perdere il sorriso. "Sì. Lo cura mio fratello."

Questa è una notizia interessante. In effetti so tutto della sua carriera scolastica, ma nulla della sua famiglia o dei suoi amici. 

"Come si chiama?"

"Alec."

"È tuo fratello maggiore?"

"Sì. Io sono l'ultima."

Ultima. Non si dice ultimogenita quando si parla di due fratelli. Perciò insisto: "Quindi ne hai altri?"

"Altri tre." Risponde, poi torna a guardare lo Stagno e precisa: "Ma sono fratellastri."

Questo sinceramente non me lo aspettavo. Certo, non avevo pensato molto alla struttura della sua famiglia, ma avevo dato per scontato che venisse da una situazione normale, con madre, padre e qualche fratello o sorella. Non so come mai: forse a causa del suo aspetto o del suo comportamento tranquillo. Non ne azzecco una. 

"Ah." Rispondo, sulle spine. "Capisco."

Non so bene come e se posso procedere con il discorso. Parlare della propria famiglia non è sempre facile e io sono il primo ad ammetterlo. Molti dei miei amici preferiscono tenere il riserbo, quindi ora non so cosa fare. Mi metto anche io a fissare la superficie calma dell'acqua. Cerco le idrometre, ma noto solo un paio di movimenti a singhiozzo. Nel mentre le anatre hanno superato il ponticello di pietra poco distante da noi e sono scomparse alla vista. Che faccio?

"Tu, invece?" Mi domanda lei, dopo più di due minuti di silenzio.

"Ho solo una sorella. Maggiore. Si chiama Leah."

"Vive in Michigan?"

"Sì, sempre a Marquette."

"Vi sentite spesso?"

Sono contento che Anthea sia improvvisamente distratta dall'alzata in volo di un nutrito stormo di passerotti rumoreggianti dall'albero dietro di noi: così non potrà notare il tono di grigio che di sicuro ha assunto la mia faccia. Non è colpa sua. Non può sapere in alcun modo che preferirei dieci volte in più parlare della mia cura ormonale, piuttosto che tirar fuori questo argomento. Cerco di non apparire particolarmente toccato dalla cosa e rispondo semplicemente: "No. Non siamo mai andati molto d'accordo."

Non ho mentito. È vero che tra mia sorella e me non è mai stato rose e fiori. Ho solo omesso qualche particolare. Ma d'altronde non è l'unica cosa che ho trascurato, no? Non mi sono dimenticato di non aver fatto notare alla mia tenera compagna una verità fondamentale sul mio corpo. Com'è che la chiamava lo psicologo? Disforia di genere. 

So che mi verrà un nuovo attacco di ansia se continuo a pensarci, così, con un tono forzatamente disteso, propongo: "Non vuoi più il gelato?"

Volto la testa per guardarla e la sorprendo mentre mi studia con attenzione, una serietà adulta nei suoi occhi, lividi come il cielo d'inverno. Dalla mia nuca parte un brivido che attraversa con la velocità del lampo tutta la colonna vertebrale, facendo formicolare gambe e braccia. Un po' come essere sorpresi mezzi nudi dopo la doccia, solo che in questo momento non mi sento solo nudo, ma addirittura scorticato. L'intensità del suo sguardo mi fa seriamente temere per un secondo che possa leggermi dentro e scoprire tutte le cose che non le ho detto.  

Poi, fortunatamente, Anthea chiude gli occhi sbattendo le palpebre e la sensazione smette subito di sussistere. Accenna un sorriso, torna la ragazza energica di prima e scatta in piedi, trascinando con sé una mia mano. 

"Mi stavo dimenticando! Andiamo!"

Bene. Il momento delle domande delicate è terminato. Tiro un sospiro di sollievo, mentre mi faccio trascinare dal suo entusiasmo. Chissà dove, poi, visto che è la prima volta che entra a Central Park. 

"Di solito il gelataio ambulante sta sul sentiero più grande, Anthea." Le faccio bonariamente notare a un certo punto, quando capisco che non sa più dove andare. Si alza sulle punte dei suoi sandali e lo cerca, ma è troppo piccola anche per sovrastare i piccoli gelsi della strada. 

"Non lo vedo."

Libero la mia mano dalla sua presa, per stringergliela meglio subito dopo. 

"Di qui."

Sui sentieri del parco gli ambulanti hanno quasi sempre un posto fisso. Alcuni fanno un giro giornaliero, ma il più delle volte si tratta ormai di sedentarietà. Fortunatamente mi ricordo che un carretto dei gelati si trova sempre a fianco della Cat Rock, la parete d'arrampicata. 

E infatti. 

"Meglio di una bussola." Dico soddisfatto e Anthea ride. Questa volta ho preparato già una banconota da cinque dollari e la consegno all'uomo subito dopo avergli richiesto due coni. Il tizio mi guarda un po' sorpreso dall'urgenza, ma Anthea capisce e il suo sorriso si fa ancora più divertito. Opta per vaniglia e menta - due gusti che odio con tutto il cuore - mentre io, abitudinario come sono, chiedo solo caffè.  

"Perché solo caffè?" È la domanda che mi aspetto, non appena salutiamo il gelataio e ci incamminiamo sul sentiero che porta al centro visitatori.

"Perché il caffè puro posso berlo solo al mattino. Se lo prendessi la sera, non dormirei, perciò mi accontento del gelato, che ha più o meno lo stesso gusto."

Tutti facciamo dei ragionamenti astrusi. Io più di altri. Anthea prende le mie considerazioni sul serio e dice: "E questo non ti fa stare sveglio?"

"Nah. Ce n'è troppo poco."

Mi tende il suo cono. "Vuoi provare?"

Guardo il gelato, poi guardo lei. Con molta calma commento: "I tuoi sono gusti molto discutibili."

Non è detto con serietà e spero tanto che Anthea non se la prenda, ma capisco di avere una temibile avversaria in materia di botta e risposta quando lei prontamente ribatte: "Non accetto critiche da quello della pizza coi gamberetti."

Ci fissiamo per un lungo istante prima di scoppiare a ridere. È una risata che non ha un senso logico, ma è contagiosa: più lei ride, più lo faccio io. Nessuno dei due probabilmente si aspettava un confronto del genere, ma è stato così improvviso e spontaneo da risultare esilarante. E io ogni volta non posso fare a meno di stupirmi per l'arguzia presente in un corpicino dall'aria così innocua. 

Mangiamo i nostri rispettivi gelati mentre ci teniamo per mano e passeggiamo nel tramonto, aspettando che le lacrime da risata si asciughino da sole. È una bellissima serata, calda ma non afosa. I lampioni iniziano ad accendersi, anche se non serviranno se non tra più di un'ora. 

Sono felice di essere qui. Me lo dico e ripeto, prima con sconcerto, poi con sempre più piacevole sorpresa, sorprendendo me stesso con considerazioni che non tendano alla malinconia. È strano: sono molto abitudinario anche con le mie emozioni. Non sono abituato a questa... armonia. 

Sono preda dei miei pensieri sconvolti e della sensazione della pelle tiepida e asciutta della mano di Anthea nella mia, tanto che non mi accorgo della strada che lei ha preso, se non quando si infila decisa, con me al seguito, nel folto di un gruppo di aceri rossi. Si ferma nel mezzo della stradicciola e si guarda attorno. Seguo il suo sguardo, stordito, e mi rendo conto che le foglie scarlatte degli alberi rilucono nelle ultime fiamme del tramonto. Sembra di stare al centro di un incendio silenzioso e pacifico, un rogo simbolico. Di cosa? In questo momento di tante cose. 

"Volevo vedere questo." Ammette, socchiudendo gli occhi a causa di un sorriso che le illumina il volto, come il sole fa con il parco, con le labbra un po' sporche dell'alone lasciato dal gelato. Ammiro la sua espressione e per la prima volta da molto, molto tempo, provo l'autentico desiderio di baciare una ragazza. Se solo fossi una persona diversa - forse più coraggioso, forse meno prudente, forse semplicemente un uomo nato tale - lo farei. Le prenderei il viso e la bacerei. Come in un film. Come in un libro. Sembra l'occasione d'oro, un escamotage narrativo perfetto per convincere il protagonista a fare il grande passo. 

Ma io non posso farlo. Anche se lo vorrei, anche se lo desidero fervidamente, non posso farlo. Ci sono troppi se e troppi ma, forse è troppo presto, sarei frettoloso, e poi c'è un segreto molto più grande del sogno che sto vivendo. Non riesco nemmeno a pensare a come potrebbe reagire Anthea, se subito dopo un bacio le dicessi la verità. Perché non è né semplice né facile da accettare. Non lo è per me, non lo è per gli altri. Non lo sarebbe nemmeno per questa strana ragazza che si sta arredando una comoda stanza nel mio cuore. 

Per tutti questi motivi chiudo gli occhi e inspiro profondamente l'aria umida della copertura vegetale. 

Goditi il momento, Jess. Goditi ogni singolo, sereno momento della vita. Non sai mai quanti altri ce ne saranno. Non ne sprecare nemmeno uno. Concentrati sul presente. In fondo, è tutto quello che hai. 


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