5.Tihi stŭpki

Mosca, aprile 1985

Gli stivali di Maksim calpestavano il sottile strato di nevischio che, ancora per qualche settimana, avrebbe sicuramente ammantato le strade della capitale russa conferendole quell'aura grigio-pallida quasi perenne, contrastata dai caldi lumi dei lampioni. Si percepiva, a spirare assieme a quella leggera brezza che faceva svolazzare la sua redingote blu intenso, l'oppressione e il malcontento che di quei tempi animavano parte della popolazione proprio nel fulcro dell'Unione Sovietica, che rendevano l'Ophliro certo che di lì a pochi anni il regime sarebbe inevitabilmente crollato.

Da una parte stimava l'ordine imposto da quel curioso partito Letargiante che aveva permesso al paese di risollevarsi nel Dopoguerra; durante l'Ophlirinio aveva imparato che l'ordine e la precisione erano indispensabili per ottenere ciò che si desiderava. D'altro canto, era convinto che una maggiore apertura fosse necessaria per raggiungere l'apice del potenziale, e il troppo conservazionismo e la reclusione interna locale stavano difatti portando quel governo al collasso; l'ordine degli Ophliri invece, fin dagli albori, aveva spaziato in ogni angolo del mondo – Maksim in gioventù, prima di tornare in patria, aveva visitato praticamente ogni angolo del globo –, e in ogni anfratto delle menti di ognuno dei suoi componenti, che per questo potevano vantare le inestimabili capacità che li rendevano tanto inespugnabili. Certo, di quei tempi con l'avvento della guerra erano state ugualmente numerose le perdite, perché i loro millenari nemici sembravano animati da una grinta mai vista prima, ma la loro forza non era mai venuta meno e rimanevano saldi e ancorati alla speranza di riuscita.

Chissà, magari anche la fermezza degli Arkonanti, così come la solidità di quell'impero Letargiante, un giorno sarebbe venuta meno, quell'Erede magari non era così invincibile come si credeva; era risaputo che le leggende tendevano a ingigantire anche le cose più banali. Tuttavia, Maksim non se ne crucciava molto, forte del fatto che i Vortici l'avevano tenuto lontano, almeno parzialmente, dalle brutture e dalle tensioni della guerra rispetto a molti suoi compagni Ophliri, sia a lui che al figlio maggiore prediletto, il suo amato Vladimir.

Non che questi fossero meno orribili. Certo, si era proposto lui stesso di occuparsi da vicino della faccenda, a causa di alcuni suoi trascorsi con Milen Grigorov, il padre di quei ragazzini impertinenti, morto durante il primo Vortice, e non aveva intenzione di abbandonare le sue investigazioni. Era tuttavia frustrante il modo in cui quei disastri continuavano a sfuggirgli tra le dita, inevitabilmente, da ormai più di tre anni. Sentiva che la risposta era lì, a portata di mano, nascosta dietro la tremante Yordanka Grigorova, ma l'accesa difesa della sua amica italiana e le scelte sempre fin troppo imparziali del Consiglio gli impedivano di svolgere a dovere il suo compito; se la faccenda fosse stata messa pienamente nelle sue mani avrebbe saputo trovare la soluzione già da molto tempo.

Invece gli toccava ridursi a sotterfugi e tentativi avventati, come quello che lo stava conducendo al limitare di Ulitza Tverskaya¹ per immettersi in quella che ai Letargianti appariva come l'immensa Krasnaya ploshchad², sontuosa per i palazzi quasi interamente rossi che ne davano il nome. Solo gli Ephuri, tuttavia, erano in grado di vedere l'immensa ombra proiettata dalla struttura che, a partire da essa, si innalzava anche per buona parte della zona circostante, con ampi colonnati che rendevano interamente porticata la piazza e le strade circostanti.

Nel corso della sua esperienza da Ophliro, Maksim ne aveva viste molte di Ephie; c'erano quelle più piccole delle residenze minori, quasi tutte erte su edifici abbandonati o caduti in disuso perché più semplici da gestire con le illusioni, e poi c'erano quelle spettacolari e appariscenti, di Pechino o di Londra ad esempio. Tuttavia, la sua preferita, forse perché rappresentava le sue origini, rimaneva quella di Mosca.

Più che in larghezza, la residenza dei Razumov si estendeva in altezza, con vistose colonne dagli stili più variegati, moderni e originali che, come era consuetudine per gli Umanenti, mescolavano al loro interno una vasta varietà di colori, originando una moltitudine di rossi, verdi, gialli e bianchi abbinati tra loro in maniera non eccessivamente caotica ma equilibrata alle rispettive cupole tondeggianti, vaporose come panna montata appena spruzzata ad arte, le quali cime si protendevano al cielo ad accogliere l'abbraccio del firmamento, quella sera velato da lievi nubi caliginose.

Non appena gli Ophliri alle porte del cancello d'ingresso lo riconobbero, queste gli furono subito aperte e Maksim poté procedere lungo le sontuose gradinate, sempre mantenendo quell'andatura silenziosa e calibrata al pari di quella di un cigno che accarezza l'acqua ferma di un lago, acquisita in gioventù durante l'addestramento da Pre-Oph. Gli interni erano prevalentemente caratterizzati di tinte chiare in grado di rilassare la vista e di ampie aperture sulla città per aprire la mente; in nessuno dei luoghi che aveva visitato e abitato nel corso della sua vita si era mai sentito a suo agio come lì dentro. Eppure, la sola idea che presto sarebbe dovuto tornarci stabilmente lo colmava di amarezza e rimpianto per un fallimento che non si decideva ad accettare.

Quando valicò la porta dove lo attendeva sua cugina, si fu prima accertato che dei sottoposti avessero annunciato la sua presenza, di cui lei era ovviamente già stata informata in precedenza. Era alquanto contorta la parentela che lo legava a Vania Razumova, pre-Delphina a comando della prestigiosa famiglia russa e di tutte quelle loro sottoposte, e se condividevano ancora lo stesso cognome era solo perché nella società Umanente si ereditava non per forza il cognome del padre, come per i Letargianti, ma quello della dinastia più rilevante – per quel che riguardava invece le unioni tra le sette famiglie si stabiliva in base al prestigio dei singoli individui o alla residenza in cui si decideva abitare, salvo casi particolari. Chiamarla cugina, dunque, era solo una convenzione per semplificare.

«Vania» salutò con un profondo e riverente inchino del busto nella forma arcuata come era convenzione fare per gli Ophliri innanzi a un superiore, trattenendo impeccabilmente la seccatura che gli provocava doversi prostrare in tal modo al cospetto di quella donna che, a parere suo, non meritava di vantare il prestigio di cui era tanto fiera portatrice. In numerose occasioni aveva dimostrato la sua superiore arguzia, vantava una maggiore esperienza, ed era persino di un paio di anni più grande ma, solo perché tra i loro antenati quello di Vania era parso più favorevole rispetto al suo, al ramo familiare della donna era spettato il potere indiscutibile, mentre quello di Maksim era dovuto decadere in una rovina da cui solo con le sue forze e la sua dedizione lui era riuscito a elevarsi.

«Siamo in guerra Maksim» esordì Vania, i capelli biondi raccolti in una crocchia informale dietro la testa, senza nemmeno guardarlo, mentre sorseggiava una tazza di tè accomodata su un divano a rimirare la città fuori dalla finestra, «cos'è che ti ha portato a venire qui di persona nonostante i tempi difficili e incerti? Non bastava una comunicazione a distanza?»

Lui prese a muoversi mellifluo intorno alla sua postazione, con passi silenziosi. Era una cosa che faceva solitamente con le sue prede, come quell'insolente bimbetta Grigorova, della quale aveva dimenticato la quantità di volte in cui l'aveva gettata in cella nel corso degli ultimi tre anni. Questo, però, Vania non poteva saperlo, e tale consapevolezza lo riempiva di una tale gioia maligna che, inevitabilmente, un piccolo ghigno incurvò le sue labbra. Gli piaceva pensare che Vania non fosse altro che un burattino nelle sue mani quando lui necessitava di qualcosa da lei.

«Non volevo rischiare di venire intercettato da orecchie indiscrete, dato che si tratta di una questione della massima riservatezza e importanza. Mi confermi che questa camera è sufficientemente protetta?»

Con un gesto, la donna fece uscire due Ophliri rimasti all'uscio che chiusero la porta dietro di loro, e Maskim, per sicurezza, aggiunse un paio di protezioni aggiuntive per evitare intrusioni mentali.

«Si tratta dei piccoli Grigorov» esordì dunque, provocando un sospiro stanco nella cugina.

«Allora non ti devi preoccupare delle orecchie indiscrete caro cugino, sai bene che sono ben pochi gli alleati di quei ragazzini e di certo non in questi dintorni. Dopotutto, sono solo dei bambini, mi chiedo se non ci stiamo accanendo troppo, magari davvero non sono a conoscenza della causa-»

«No!» la costrinse a fermarsi lui, terminato il giro intorno al divano, chinandosi innanzi a lei con una mano appoggiata regalmente sullo stesso bracciolo del divano su cui era posato il gomito di lei. A quell'uscita improvvisa, Vania trattenne a stento un lieve sobbalzo, che rallegrò internamente Maksim. Adorava anche la più lieve punta di timore che sapeva provocare nelle sue vittime. In particolare, quando si trattava di qualcuno ingiustamente più importante di lui.

«La più grande, Yordanka, sarà maggiorenne tra meno di un mese» proseguì con tono più soave. «Non sono più dei bambini, e inoltre io sono certo che questa ragazza nasconda la risposta alle nostre domande. È lei la soluzione per porre fine ai Vortici!»

Vania fece uno stizzito gesto con la mano, come per dirgli di spostarsi perché gli copriva la vista, e lui obbedì, per darle un piccolo contentino e una parvenza di servilità. «Più di due anni, Maksim, quasi trenta assemblee, e ancora non ne abbiamo ricavato nulla, i Vortici non fanno che diventare più violenti e le morti, aggiunte a quelle provocate dagli Arkonanti, non fanno che aumentare. Siamo al limite del collasso! Cosa pensi che possa cambiare quella ragazzina?!»

Vania aveva ragione, mai prima di quegli ultimi anni il mondo per gli Umanenti era sembrato tanto vicino alla fine, forse solo ai tempi della strage degli Eleusini, ma si trattava di un'epoca troppo lontana per serbarne memoria, anche per gli Ephuri. Prima erano comparsi i Vortici, devastazioni senza spiegazione mai viste prima e, solo qualche mese dopo, l'Erede di Arkon, considerato nient'altro che leggenda, era tornato minacciando di ribaltare le sorti del conflitto millenario tra le due fazioni Ephure. Inizialmente si era ipotizzato una sorta di collegamento tra le due vicende, e che quindi i Vortici fossero in qualche modo stati causati dai loro nemici, ma era subito stato dimostrato come essi colpissero non solo gli Umanenti, ma anche Arkonanti e Letargianti, indiscriminatamente. No, il problema era un altro, e Maksim aveva deciso di votare la sua vita a fare luce su di esso.

«Potrebbe invece cambiare tutto! La soluzione è muoversi con arguzia; non appena raggiunta la maggiore età, l'amica Cervini di Yordanka la spingerà a cogliere l'opportunità per ottenere l'Ephia e ristabilire il potere dei Grigorov a Sofia e in Bulgaria.»

Vania scrollò le spalle, chinandosi per poggiare sul tavolino vicino al divano la tazza vuota di tè. «E allora? Forse è giusto così, la Bulgaria è stata guidata dai Grigorov per secoli, non vedo perché ora debba cambiare qualcosa!»

Maksim sospirò profondamente per tentare di trattenere la stizza innanzi a quel comportamento tanto disinteressato a una faccenda così importante. Le questioni della Guerra con l'Erede sembravano starla prosciugando della sua stessa anima, rendendola però un perfetto pupazzo di terra da modellare per le sue mani esperte e smaniose.

«Hai completamente ragione» sottoscrisse lui con tono servile, per darle l'impressione di avere un potere che invece albergava unicamente tra le affusolate e nodose dita di Maksim. Si trattava di una subdola tattica assai utile che sfruttava spesso, e non solo con Vania.

Così sedette lentamente di fianco alla futura Delphina e, chinandosi lievemente per far combaciare l'altezza delle sue labbra con l'orecchio di lei, aggiunse, in un sussurro: «Tuttavia, credo che potremo sfruttare a nostro vantaggio questa situazione».

Ottenuta la sua attenzione, le spiegò il piano.

Tihi stŭpki = passi silenziosi

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