25.Gorislav Dimitrievno Kropotkin
Mosca, febbraio 1996
Una quiete umida regnava nel maestoso corridoio, scandita dalle cascate mute che la pioggia disegnava sulle ampie finestre dell'Ephia di Mosca. La lunga panca dall'imbottitura damascata percorreva quasi interamente la parete candida, sulla quale era poggiata la schiena del bambino.
I polpastrelli di Georgi accarezzavano lievi la superficie liscia della piccola fotografia formato tascabile che si portava sempre dietro. Il suo nuovo e primissimo Cebrim gli permetteva di percepire, tramite i papillari delle dita, l'esatta temperatura di ciò che toccava, oltre che la presenza di eventuali microrganismi o polveri. Tastando gli oggetti con il tatto amplificato, questi parevano quasi assumere maggiore consistenza, trasmettendogli più consapevolezza del loro essere presenti.
Per questo motivo, continuava a sfiorare quella vecchia fotografia; doveva riuscire ad accettare che si trattava di un banale pezzo di carta, e non una finestra aperta su una dimensione in cui ancora l'ampio sorriso di zia Leta illuminava il suo volto. Gli sembrava quasi di poterne afferrare l'affetto con una mano così da stringerlo al petto come aveva fatto nel momento immortalato davanti ai suoi occhi, al compimento dei suoi nove anni, appena due mesi prima che tutto precipitasse. Ogni volta che avvicinava le dita verso la foto, una parte di lui si accendeva della speranza di poterla riabbracciare, di poter ritornare a quel giorno stupendo in cui ancora aveva tutto. Quasi si convinceva che sarebbe stato sufficiente allungare una mano per tornare a quell'attimo perfetto. Poi però le ditina collidevano con la superficie levigata, materiale e solida, ricordandogli che non si trattava di altro che di un'immagine impressa su un foglio, e che quei tempi erano passati, per non tornare mai più.
Perché non riusciva ad accettarlo? Le situazioni peggiori, e di cui maggiormente si vergognava, erano quelle in cui, forse per la forza dell'abitudine, dimenticava che zia Leta, suo papà, gli zii e i tutori non c'erano più, così gli veniva automatico cercarli con gli occhi o anche solo con il pensiero. Quando però se ne rendeva conto, un vuoto doloroso lo dilaniava dall'interno, quasi estirpando ogni traccia di vita in lui, e riducendolo a un fuscello fragile e insicuro.
Non riusciva più a sorridere, non come prima, nemmeno per far felice sua madre. Inoltre, le pressioni erano diventate troppe e tutto si era fatto mille volte più pesante da sopportare. Era arrabbiato, perché aveva sviluppato quel cebrim inutile e soprattutto comune per tutti gli Ephuri che si potevano considerare tali, e non aveva potuto fare nulla quando ce n'era stato veramente bisogno. Invidiava Kiril per quell'abilità assurda che aveva sviluppato a un'età così precoce; non era giusto che fosse capitata proprio a lui, anche perché finora non aveva fatto altro che metterlo nei guai. Se solo fosse capitato a qualcuno di più maturo, la faccenda sarebbe stata ben diversa. Ma Georgi non era forte abbastanza, o forse non possedeva un Cerebrum all'altezza, e questo era stato il prezzo. Lui non era mai all'altezza di nulla, era inutile che sua mamma continuasse a convincersi del contrario. Non avrebbe mai potuto ereditare il suo posto come Ephiante e, soprattutto, non avrebbe mai potuto guidare gli altri.
Non possedeva nemmeno le facoltà di comprendere appieno e accettare quanto accaduto, tra l'altro. Era successo tutto talmente in fretta che gli sembrava ancora troppo surreale e troppo vero al tempo stesso. Era una sensazione strana da spiegare, che lo faceva sentire disconnesso, frammentato, come se avesse perduto una parte del suo essere.
Quel groviglio di emozioni contrastanti l'aveva spinto ad allontanarsi dai suoi fratelli, al momento accuditi dal signor Mindsmith, quell'uomo simpatico che li riempiva sempre di sorrisi e gianduiotti ogni volta che li vedeva. L'ansia l'aveva poi trascinato a breve distanza dall'ampio portone sigillato oltre il quale stava avendo luogo quel Processo importante che, a quanto diceva la mamma, avrebbe cambiato tutto, avrebbe fatto giustizia. Ma il suo stesso tono incerto, mentre affermava quelle speranze, era stato sufficiente a permettere alla paura di impadronirsi di lui. E se la situazione fosse precipitata di nuovo? Ran, Kiril, Ilia, Ana o la mamma erano forse i prossimi destinati a sopravvivere solo come attimi immortalati dietro le finestre del passato?
Così si era fermato lì ad aspettare, deciso a essere il primo a venire a conoscenza di quanto stava accadendo dietro l'uscio che velava ogni suono dell'interno. Come ogni volta in cui era solo, i pensieri si diramavano in lui, e le emozioni aggrovigliate lo avvinghiavano al passato. Era principalmente proprio per l'uccisione di zia Leta che sua mamma, con l'aiuto di Clara Cervini e altri nuovi alleati, stava accusando Maksim Razumov.
«Ma dov'erano tutti questi alleati, quando... quando è successo tutto?» aveva chiesto giustamente Goran, prima del processo, quando la mamma aveva provato a spiegargli quelle strane faccende politiche.
«È complicato, Ran. Prima che Maksim si sbilanciasse tanto, Clara non aveva modo di convincere suo padre a far aderire i Cervini alla nostra causa. Solo così, grazie sempre a delle sue vecchie amicizie, anche gli Abutres hanno deciso di aiutarci. Quanto ai Long... non ci fidiamo di loro, ma al momento sono una risorsa che non possiamo permetterci di rifiutare. Grazie anche alla presenza di un'assemblea popolare al posto della quasi estinta famiglia dei Detentori del Dono, Maksim è praticamente spacciato. Neanche la corruzione dei Delphini potrà permettergli di passarla liscia. Non questa volta.»
Dopo quel discorso, aveva donato al figlio di Aleksander un sorriso reso triste dagli occhi lucidi e con un gesto distratto si era voltata a ordinare alcune ciocche di Georgi. I capelli della donna erano raccolti ordinatamente indietro con un fermaglio nero, stesso colore che da circa un mese ricopriva come inchiostro incontaminato tutto ciò che indossava. In quel momento aveva pensato che era bellissima e molto forte, aveva imbracciato il dolore che per settimane l'aveva ridotta a uno straccio e l'aveva trasformato in un'arma con cui travolgere i nemici. Dietro a quel vigore, tuttavia, Georgi percepiva anche un vuoto non diverso da quello che colmava il suo petto.
Quello, probabilmente, lo avevano tutti. Nessuno di loro sarebbe mai più tornato esattamente come prima, quelle non erano cicatrici che sbiadivano con gli anni. Forse Kiril, crescendo, avrebbe dimenticato i particolari, dal momento che anche Georgi dei suoi tre anni d'età ricordava ben poco. Ma era sicuro che il corpo morto del suo zio preferito non si sarebbe cancellato facilmente dalla sua mente, e comunque ne avrebbe condizionato l'esistenza – la mamma aveva visionato quanto accaduto tramite i suoi ricordi, dal corpo disteso di zio Petar alla sua trasmutazione in plettro ad opera dello stesso Kiril. Forse l'unico a salvarsi era Ilia, ma qualcosa gli suggeriva che vivere tanto a un solo anno d'età non avrebbe lasciato incolume nessuno.
Erano troppo devastati per riuscire ad andare avanti. Indipendentemente dall'esito di quel processo, la vita non sarebbe mai tornata come prima, era inutile mentire. Era triste arrivare a quella consapevolezza a un'età così giovane; d'altro canto, l'infanzia di Georgi si era già conclusa nel momento in cui gli Ophliri erano arrivati a prendersi le loro vite.
Le sue dita erano tornate ad accarezzare la liscia fotografia da cui sorrideva zia Violeta – ringraziava gli antichi Eph che sua mamma fosse riuscita a salvare almeno l'album di famiglia – mentre uno scalpiccio di passetti attraversava il corridoio, accompagnato da un lieve brusio di voci sconosciute. Incurante, non sollevò nemmeno lo sguardo, non erano certo i primi a passare per quei corridoi; pur avendone scelto uno non molto frequentato, era impossibile trovare un posto totalmente tranquillo nell'affollata Ephia di Mosca.
Nessuno di quelli che erano scivolati nei pressi della sua solitudine si era fermato, con suo immenso sollievo, a parlargli o a osservarlo, quasi fosse invisibile. Menomale, perché ormai Georgi detestava trovarsi al centro dell'attenzione di chiunque, in particolare degli sconosciuti.
Questi passi, invece, si fermarono. Georgi percepì i peli sulla cute rizzarsi indispettiti e lievi brividi attraversarono il suo corpo. Uno sguardo era posato su di lui, non necessitava di sollevare il suo per esserne certo.
Sentirsi osservato, proprio come gli Ophliri per settimane li avevano fissati quasi di continuo, rievocò in lui tutte le sensazioni opprimenti vissute in quel periodo, che si accavallarono tra loro culminando con i singhiozzi della madre innanzi al corpo dissanguato di zia Sisi, mentre la piccola Ana pesava tra le braccia di Georgi tendendo la mano a cercare dei genitori che non c'erano più.
Capovolse immediatamente la foto poggiandola su una coscia come a proteggere quel frammento di zia Violeta da occhi indiscreti, e spostò l'attenzione su chi lo osservava, mentre un fastidioso groppo in gola gli opprimeva la corretta respirazione. A restituirgli lo sguardo aggrottato non fu un Ophliro, ma due iridi d'ebano incorniciate da lunghe ciglia che impreziosivano gli occhi dal taglio allungato di una bambina più o meno della sua età, forse solo un anno più giovane. Lo osservava con le sopracciglia tirate verso l'alto da un filo invisibile, che avevano fatto germogliare sul suo allungato e puntuto visino una sorta di altezzosa espressione sorpresa, resa simpatica dal caratteristico naso alla greca che emergeva in mezzo agli occhi.
"Da dove è uscita questa?" non poté fare a meno di chiedersi. Neanche il tempo di concludere quel pensiero, che da sorpresa l'espressione della bimbetta si fece quasi oltraggiata. Georgi credette seriamente che avrebbe preso a insultarlo, lei invece si volse indietro verso la sua accompagnatrice, una Metephra che la seguiva a pochi passi di distanza, anche lei con gli occhi mandorlati e lisci capelli scuri, che sembrava portarsi sulla schiena un poco ingobbita il peso di un'età che però non dimostrava. La bambina le chiese di proseguire affermando che l'avrebbe raggiunta più tardi, e lei rispose con un cenno prima di allontanarsi in silenzio.
«Tu non sai chi sono io, vero?» cinguettò la bambina con una caparbia confidenza che lo destabilizzò. Perché gli aveva rivolto la parola? E per quale motivo lui avrebbe dovuto sapere chi fosse?
"Ma certo", si rese conto, con un attimo di ritardo, si trattava di qualcuno di importante, che aveva percepito i suoi pensieri insolenti, e per questo si era offesa. Georgi avvampò, imbarazzato. Aveva sempre cercato di non offendere mai nessuno, e soprattutto di dare a chiunque si rivolgeva esattamente ciò che avrebbe voluto, perché la sua più grande paura era quella di deludere le persone. In quel momento, tuttavia, la rievocazione del passato l'aveva scombussolato al punto da far emergere oltre la sua porta, ancora non protetta da alcun Clypeus, pensieri incontrollati.
Si alzò in piedi, in segno di rispetto, il capo chino che si era abituato ad assumere al cospetto degli Ophliri. «Mi scusi» emise con una voce appena percettibile.
Con sua sorpresa, percepì una sorta di disagio provenire dalla ragazzina, emesso con un lieve fiato. Subito dopo, tuttavia, quella scoppiò a ridere: «Ma che pensi? Non devi chiedermi scusa di nulla, sono una tra tanti. A dir la verità, sono... sono per metà Metephra.»
Lui sollevò stupito lo sguardo, guardando la bambina con nuovi occhi. Strano, a vedere dal suo portamento, dal modo in cui si era rivolta a quella donna, e dalla camicetta di seta che indossava, avrebbe quasi detto che si trattasse di una sorta di principessa.
Aggrottò le sopracciglia. «Metà Metephra? Come è possibile?»
«Mio papà è un Metephro e mia mamma un'Ephura della nobile famiglia Hu» rispose lei, mentre con un braccio scioglieva il fermaglio che le raccoglieva le ciocche superiori in un regale kok¹ che spuntava sulla cima del capo.
Un kok?! Sua mamma una volta gli aveva accennato che quella capigliatura era il simbolo che contraddistingueva tutti i Long. Quella bambina, dunque...
«Li Wen. Hu Li Wen! Piacere» continuò lei, tendendogli amichevolmente una mano.
Georgi non aveva idea di come muoversi. Sapeva che lei stava mentendo, e sapeva che dei Long non ci si poteva fidare appieno. Tuttavia, era anche consapevole del fatto che, mentre lei sembrava essere un'Ephura già sviluppata, lui non possedeva ancora nemmeno un Clypeus, dunque se era curiosa almeno la metà di quel che mostrava, in quel momento stava percependo ogni suo singolo dubbio. Perché allora recitare quella parte?
Alla fine, visto che quell'attimo si stava protraendo troppo a lungo, mandò tutto al diavolo e decise di rispondere alla stretta di mano. Il palmo di Li Wen era morbido e caloroso.
«E tu?»
«Io?»
Lei si guardò attorno, mostrando infantile confusione con il mento poggiato su pollice e indice. «Sì, tu. Non mi sembra ci siano altre persone qui in questo momento. Come ti chiami?»
«Ah! Giusto. Io sono G...»
Georgi fu trafitto da un'improvvisa indecisione, provocata da un lampeggio negli occhi della sua interlocutrice. Fu lì che comprese: era tutta una recita, un gioco. Li Wen stava recitando una parte!
Con sua sorpresa, la cosa gli piacque fin da subito. Era da tempo, ormai, che non si dilettava in attività "infantili", che aveva preso a considerare troppo distanti da sé. Giunto alla convinzione che gli aspri eventi l'avessero cambiato in modo irreversibile, aveva creduto di non poter recuperare mai più quella scintilla. Invece, in quel momento si trovò a rispondere, con un improvviso accento arrogante: «Io sono Gorislav Dimitrievno Kropotkin, mio padre è un ricco nobile di Pietroburgo, mi sono recentemente sviluppato come Metephro, prima non sapevo dell'esistenza degli Ephuri».
A quella risposta, un lampo di divertimento attraversò lo sguardo della bambina. Anche lei sicuramente sapeva chi lui fosse in realtà – i Grigorov erano ormai tristemente famosi, quel giorno in particolare e in quel determinato luogo non era difficile intuire la sua identità, anche senza leggergli il pensiero – perciò tutta quella farsa toccava livelli imbarazzanti di inverosimiglianza, ma era proprio ciò che la rendeva più divertente.
Chissà poi se la sua scelta di impersonarsi in una mezza Metephra, come effettivamente si era accorto di essere lui stesso con un attimo di ritardo, fosse una sorta di provocazione.
«Ohh è un vero piacere Gorislav Dimitrievno Kropotkin, non ho mai avuto occasione, prima, di conoscere qualcuno del tuo rango! Dimmi, rivesti una posizione tanto prestigiosa tra la tua gente?» la bambina si accomodò con disinvoltura accanto a dov'era posizionato Georgi prima del suo arrivo, e lui la imitò, pizzicato però da una lieve indecisione quando notò la fotografia al rovescio lasciata poco prima sul suo posto.
«Dire di sì è poco!» esclamò, tuttavia, infilando la foto in una tasca. «Ho uno stuolo di servitori al mio servizio, il cui unico scopo di vita è non farmi mancare mai nulla, mi trattano come un principe. Sia a me che... alle mie sorelle! Sai, ho tantissime sorelle, tutte più grandi di me. Voglio molto bene a tutte loro. Essendo l'unico maschio, sono il fratellino preferito di ognuna... tranne quando, spesso e volentieri, si alleano contro di me... è davvero frustrante.»
«In che modo? Cosa fanno?»
«Beh... dispetti di ogni tipo. Una volta, ad esempio, quando ero più piccolo due di loro presero dei pastelli colorati e pasticciarono il mio viso e il tavolo della sala da pranzo, mentre nostra madre era girata. Appena si fu voltata, loro erano già schizzate via, lasciandomi lì solo con i pastelli e un'aria colpevole stampata in faccia. Sono finito in punizione per una settimana!»
Li Wen scoppiò in una calda e genuina risata che, in qualche modo, sciolse gli ultimi lacci dell'intricato nodo che gli pesava nello stomaco, piegando anche le sue labbra in un sorriso soddisfatto. A dargli l'idea erano stati Ran e Kiro, con la differenza che il loro malefico piano invece era fallito perché la mamma conosceva troppo bene i suoi figli, così a venire puniti erano stati loro due.
«Oh, ma questo non è nulla, a confronto di quella volta che...» Georgi, concitato, prese a raccontare di numerosi altri dispetti sempre più divertenti, quasi tutti ispirati a esperienze reali ma inzaccherati di fiabeschi particolari inverosimili che rendevano più ampie le contagiose risa di quella bambina sprizzante vita da ogni poro. Georgi stesso, a recitare quel gioco con quella quasi sconosciuta, si sentiva più vivo.
Forse ciò di cui aveva avuto bisogno era proprio allontanarsi, almeno solo con l'immaginazione, da quella che era diventata la sua esistenza opprimente. Essere il presuntuoso e viziato Gorislav Dimitrievno Kropotkin era decisamente più piacevole. E più facile.
«Hai una vita così interessante, Gorislav!» esclamò lei, più radiosa di un sole appena spuntato dai monti, «quanto ti invidio! Tutto quel lusso, quei giochi, i leccapiedi e i servitori... noi invece dobbiamo cavarcela sempre da soli. Però, sai... non è così male, almeno sappiamo che tutto quello che abbiamo ce lo siamo guadagnati o meritati.»
Lui assottigliò lo sguardo, incuriosito da quella distorsione del discorso. Se davvero Li Wen era chi credeva che fosse, era altamente probabile che tali lussi fossero per lei all'ordine del giorno. Forse anche lei non desiderava altro che fuggire per un po' dalla sua vita.
La curiosità ebbe la meglio, così decise di azzardare: «Hai ragione. A volte ho la sensazione che l'affetto che i miei amici provano per me sia in realtà falso, solo per convenienza...»
«Esatto!» esclamò lei con molto più entusiasmo di quanto ne avrebbe provato la signorina Hu. Beccata.
«Cioè,» si corresse subito, «immagino sia proprio così. Posso vedere quella foto?»
Quell'uscita improvvisa lo prese in contropiede, rischiando per un attimo di uccidere il sereno Gorislav che si dava arie dentro di lui. Però era giusto così, lei aveva fatto carpire parte della reale sé, ora toccava a lui. La cosa, stranamente, non lo infastidiva; anzi, gli piaceva.
«È la maggiore di tutte le mie sorelle» spiegò senza impegnarsi a celare il sorriso intenerito, mentre tirava fuori la foto dalla tasca e la mostrava a Li Wen, «lei, a differenza delle altre, non mi ha mai fatto nessun dispetto. Con me è sempre dolcissima e gentile, nessuno mi fa divertire quanto lei, ed è così simpatica che...»
Le parole gli morirono in gola, risucchiate da un groppo improvviso.
«Che...?» insistette Li Wen, Georgi percepiva nuovamente il suo sguardo penetrante fisso su di lui.
«... Nessuna parola è sufficiente a descrivere quanto sia fantastica» concluse, sciogliendo finalmente il groppo in un sorriso che permise agli occhi lucidi di appannagli la vista per un attimo.
«Come sta ora?»
Quella domanda piombò in mezzo ai due bambini come un macigno. Georgi ebbe l'impressione che lei stessa si fosse pentita di averla posta. Prima di darle l'opportunità di scusarsi e di rovinare quella chiacchierata così bella, si affrettò a sorridere, ricacciando indietro le lacrime di commozione.
Strano, ma da quando era scomparsa dalla sua vita non si era mai soffermato a ragionare su come stesse ora zia Violeta. «Lei... sta bene, credo. Anzi, togli pure il credo, ne sono certo.»
Sollevò poi lo sguardo sulla piccola Ephura, mentre una nuova consapevolezza gli accendeva lo sguardo. «Prima non era mai stata bene, non del tutto, no. Ora invece, è libera, è leggera. Sì, solo ora è felice per davvero, sono certo che è così.»
Pronunciando quelle parole, si rese conto di quanto effettivamente affondassero nella realtà. Violeta era sempre stata fantastica e all'apparenza gioiosa, ma i suoi reali stati d'animo, velati sotto la superficie, erano altri. Solo in quel momento seppe dare un significato a quegli sguardi a tratti cupi, a quei fremiti che crepavano i suoi sorrisi anche nei momenti di massima gioia, al nome dello zio che aveva perso prima ancora di conoscerlo: Liuben.
«Che bello» commentò lei, malinconica, guardando intensamente la foto che lui continuava a stringere tra le mani. «Pensi che sia felice di dove sei ora?»
Altra domanda interessante. A dirla tutta, lui non stava facendo un bel niente, era la madre a occuparsi di salvare, con i pochi mezzi a disposizione, i cocci sopravvissuti della loro famiglia. Lui... era sopravvissuto. Era questo che contava per zia Leta, dopotutto, che lui vivesse. Era per lui e per i suoi fratelli, forse, che era fuggita nel giorno delle fiamme? Era loro che aveva sperato di salvare? Quando li aveva abbandonati, senza neppure salutare, già sapeva quale sarebbe stata la sua sorte, ma aveva ugualmente agito in quella maniera. Per diverso tempo, Georgi si era scervellato sulle motivazioni del suo comportamento; mentre Li Wen attendeva la risposta alla sua domanda, si rese conto che la stessa era sempre stata racchiusa nelle straziati ultime parole che zia Leta gli aveva rivolto, e che lui percepiva ogni volta che, quando chiudeva gli occhi, le fiamme di quella notte lambivano l'oscurità: Tu sopravvivrai, vivrai, sempre. Mi sono spiegata? Non. Osare. Morire. Non osare.
«Assolutamente sì. È felicissima che io mi sia sviluppato come Ephuro» – che io sia vivo –, «infatti è proprio questo a farla stare così bene ora. Però... stiamo parlando solo di me, signorina Hu. Quale curioso evento ti ha portato qui a Mosca?»
Mentre attendeva risposta, ripose con cura la foto nel taschino. Non sapeva spiegarlo, ma... si sentiva meglio, anche riguardo al dolore del lutto, sia per Violeta che per tutti gli altri cari persi. Con poche piccole e innocenti domande quella bambina era stata in grado di fargli comprendere che non tutto era brutto come sembrava e che, se solo li si cercava, era sempre possibile distinguere gli spiragli di luce che emergevano da dietro i frastagliati monti che solcavano ferite nel cielo.
In compagnia di Li Wen ogni cosa sembrava più... semplice.
Accorgendosi dell'attimo di troppo versato nell'indecisione seguita alla sua domanda, che si rese conto essere stata a dir poco indiscreta, Georgi si trovò ad arrossire lievemente. Che avesse sbagliato di nuovo? Gorislav Dimitrievno Kropotkin vantava la sfrontatezza di chiedere tutto ciò che gli passasse per la testa, ma Georgi no, e quella con cui aveva a che fare era pur sempre una Long! Forse si era offesa del...
«È una lunga storia molto buffa» si affrettò a rispondere lei, come per interrompere il flusso dei suoi pensieri, «che adesso ti racconterò!»
Dopo averci ragionato un altro po', Li Wen riprese il discorso, imperversando in uno speziato racconto che spaziava tra conigli infiocchettati, parenti impiccioni e scampati attentati terroristici, e si concludeva con lei e la sua famiglia che si recavano a Mosca con un'ampia torta multistrato come pegno di scuse.
Dalla sregolatezza del suo racconto, Georgi si trovò a intuire che la sua vita, in realtà, navigasse per lo più in una noiosa monotonia, la stessa che forse l'aveva spinta ad avvicinarlo in quel momento, e che la portava a fantasticare su identità che la allontanavano da chi era per davvero.
Il tempo perse il suo significato e il resto del mondo parve ripiegarsi in una realtà lontana da quella in cui si trovavano i due bambini, concentrati in quella chiacchierata che stava permettendo loro, tramite discorsi in codice, di conoscersi a vicenda. E nessuno dei due sembrava averne mai abbastanza, giocare in modo così apparentemente infantile era diventata per entrambi la massima fonte di divertimento. Georgi non si era mai trovato così bene con nessun altro prima, forse proprio perché tutti coloro con cui di norma interagiva – i suoi parenti –, già li conosceva; Li Wen, invece, era un nuovo libro ancora da leggere, del quale ogni pagina si stava rivelando più entusiasmante della precedente.
Quando la serratura nell'ampio portone intarsiato finalmente schioccò e, lentamente, le sue ante presero a scorrere per aprirsi, avvertendo il sopraggiungere della dirompente fiumana di Ephuri che ne sarebbe stata trascinata fuori, il tempo riprese a scorrere come prima e la realtà si riprese il suo spazio nella vita dei bambini.
Entrambi si alzarono di scatto, poi si guardarono. L'espressione di Li Wen era indecifrabile, spaventosamente seria. Presto avrebbero saputo se le loro famiglie erano amiche, e soprattutto se alla loro amicizia appena germogliata sarebbe stato permesso di sopravvivere.
Georgi e Li Wen furono costretti ad aderire alla parete per non venire trascinati via dalla folla di volti indistinti che fagocitò la precedente serenità del corridoio silenzioso, poi lui concentrò i propri pensieri sulla madre, troppo impaziente per aspettare di vederla arrivare per ricevere risposte.
"È andata bene Gogo!" esclamò soddisfatta la sua voce nella testa di Georgi, "A Maksim è stato imposto di ritirare tutti i suoi Ophliri dalla nostra Ephia ed è stato esiliato a Gamsutl, il Consiglio reagirà severamente a qualunque sua insubordinazione o danno nei nostri confronti!"
Non si curò di nascondere l'ampio sorriso, poi le indicò la sua posizione e si affrettò a porgli la domanda che più gli premeva: "E riguardo ai Long? Sono nostri alleati alla fine? Dici che ci possiamo fidare di loro?"
I diversi secondi di silenzio che si susseguirono alla sua domanda scavarono immediatamente una profonda preoccupazione dentro il suo petto, portandolo a trattenere il respiro. Forse la mamma si era solo distratta nell'atto di uscire dalla sala, o forse qualcuno l'aveva interrotta, potevano esserci un centinaio di spiegazioni possibili, non doveva essere per forza il peggio...
"Per ora sembra di sì" giunse infine la risposta, improvvisa e appagante come l'aria che finalmente colmò i suoi polmoni. "Mu Chen ha assicurato la protezione della nostra Ephia, ed era tra i nostri massimi sostenitori. È stato principalmente grazie ai suoi forbiti discorsi che abbiamo ottenuto l'approvazione del Consiglio alla fine. È un nuovo inizio Georgi, un nuovo inizio. Il peggio è passato, ne sono certa."
Georgi ignorò la lieve nota indecisa che aveva distorto il pensiero della madre e si affrettò invece a rivolgersi verso Li Wen. Il suo sguardo, però, si posò sulla sua semplice ombra inesistente.
Di lei non c'era alcuna traccia.
Ma certo, si rese conto subito, con un moto di sconforto. Era stato uno sciocco a pensare che lei fosse realmente interessata a lui; si trattava di una Long, di sicuro aveva tantissimi amici, lui era stato solo un espediente per passare il tempo in un momento in cui si annoiava. Eppure, aveva ingenuamente creduto che la loro amicizia fosse reale, e che...
«Gorislav, perché quella faccia?» la familiare vocina impertinente gli risollevò in un attimo gli angoli delle labbra. Li Wen era ancora lì, i capelli nuovamente raccolti nel simbolo della sua famiglia, affiancata da un uomo alto e longilineo, dai lineamenti spigolosi ma delicati come i suoi. Insieme sembravano un sasso gettato in mezzo a un fiume, da come la corrente di Ephuri si divaricava per schivarli.
Dato che lui non trovava parole per rispondere, Li Wen lo salutò con la mano, sotto lo sguardo sconvolto del padre, che passava confuso lo sguardo dall'uno all'altra. «Ci si vede presto!» esclamò lei, prima che lui la trascinasse via borbottando forse un: «Io e te dobbiamo parlare, signorina».
Georgi la salutò a sua volta con la mano, con il sorriso a sollevargli lo sguardo e accendergli gli occhi della vita che per troppo tempo gli era mancata.
Sì, la mamma aveva ragione: quello era decisamente un nuovo inizio.
Dai, un capitoletto un po' più tenero e leggero, spero vi sia piaciuto. Personalmente adoro Georgi e Li Wen (sì, la conosceremo meglio eheh).
Detto questo, nel prossimo capitolo facciamo un significativo salto temporale e finiamo nel fantastico 2005 🔝 in cui però soggiorneremo solo per quel capitolo prima di slittare al 2009, quindi un anno prima degli avvenimenti cerebrosi 🧠
Attenti ai Jivonhir genealogici perché compariranno una marea di nuovi nomi, chiedo venia in anticipo... ma è la vita che va avanti ahahah 👶🏻
Vabè, al prossimo capitolo, con la nostra lagnosa - ma amata - Yordanka!
꧁ꟻAᴎTAꙅilɘᴎA꧂
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