22.Točno kato...

...queste mille domande
che si ramificano
non portano, in fondo,
che ebbrezza e follia;

-L'età dell'oro-
(Rimbaud)

Sofia, gennaio 1996

Faceva freddo. Tanto freddo che il bambino era scosso dai tremori. Perché le basse temperature facevano sì che il suo corpo vibrasse in modo incontrollato?

La grande stanza era immersa nell'oscurità, la quale però era stemperata da un fascio di luce proveniente da una piccola finestrella di vetro troppo in alto perché Kiril riuscisse a raggiungerla sia con gli occhi che con la punta delle dita, anche se si allungava verso l'alto con un braccio o se faceva un saltino. Tuttavia, aveva notato che per distinguervi qualcosa del mondo esterno gli era sufficiente retrocedere fino alla parete opposta, anche in posizione accovacciata come quella in cui si trovava al momento, le piccole gambine nodose allacciate dalle braccia esili. Era così affascinante quel meccanismo visivo, che il primo giorno Kiril aveva percorso avanti e poi indietro l'intero locale una quantità spropositata di volte solo per studiarlo meglio – e per scaldarsi un po' al tempo stesso. Anche i giorni seguenti, per la noia, aveva ripetuto lo stesso giochino in un paio di occasioni.

Non vedeva l'ora di raccontarlo a suo papà una volta che lo avessero fatto uscire di lì. Chissà quando gliel'avrebbero permesso? Ci aveva pensato spesso in tutte quelle ore di silenzio trascorse a tremare dal freddo, ed era giunto alla conclusione che si trattava di una conseguenza della valanga di neve con cui aveva voluto spiegare a Maksim il funzionamento di quel concetto che l'uomo pareva non aver compreso appieno. Non sembrava averla presa molto bene infatti, e quando poi l'altro, infuriato, l'aveva colpito, l'impatto era stato tale da piegarlo in due per la sensazione di essere stato trafitto da un macigno. Da quale meccanismo era causato il dolore? Come mai le fitte erano continuate anche per diverso tempo dopo? In quel momento, però, si era sentito soprattutto confuso, perché lo stavano accusando di una sorta di colpa. Non era stato lui a sommergerlo con la neve, era stata... la neve! Kiril non aveva fatto altro che interagire con ciò che lo circondava, allo stesso modo con cui era solito fare con Ran e occasionalmente Gogo, con la differenza che, per la prima volta nella sua vita, quel qualcosa gli aveva risposto!

Kiril si faceva domande continue – principalmente perché, e se...? – sul funzionamento dei meccanismi che muovevano l'ambiente in cui si trovava in ogni attimo della sua vita. Pur non conoscendo ancora il significato della parola algoritmo, si sentiva attratto in modo incontrollato dal desiderio, anzi, la necessità, di scavare nella realtà, estrapolarne tutte le caratteristiche possibili, e immaginare certe circostanze sensate a partire da quella determinata situazione di partenza. La sua mente non smetteva mai di pensare e vagare tra quesiti continui, fino a comporre interi mondi immaginari e confusi tra loro, tutti originati da e se relativi all'ambiente che lo circondava, quasi fosse in grado di distinguere verità alternative a quella comprovata dagli occhi di tutti gli altri. Individuare intorno a lui le leggi che regolavano l'ordine delle cose lo affascinava infinitamente, perché era ciò che gli permetteva di individuare il tortuoso sentiero per la consapevolezza anche nei suoi pensieri sempre affastellati alla rinfusa tra loro.

Quando Maksim aveva iniziato a sgridarli per la fuga di zia Leta, schiacciando quel fiocco di neve, solo e fragile, lui si era trovato a essere molto confuso, perché quell'uomo cattivo aveva sbagliato e lo stesso gli permettevano di perseverare nel suo errore. Quando lui e Goran sbagliavano, la mamma gli tirava sempre le orecchie. Faceva male! Ogni volta Kiril sapeva che era per fargli capire che si trattava di cose che non dovevano fare, ma poi ricadeva lo stesso nei medesimi errori, e si beccava altre orecchie tirate. Maksim però era un adulto, più maturo, perciò era stato convinto che una volta soltanto sarebbe risultata sufficiente! E invece no, ora Kiril era finito in quella cella, e Maksim era libero senza aver nemmeno compreso il suo errore.

Chissà se avrebbe mai capito che, se avesse tentato ancora di schiacciarli tra le mani, avrebbe finito per essere travolto da una valanga di neve?

Qualche ora prima – Kiril sapeva che erano passate delle ore perché teneva sempre conto delle quantità, così in proporzione al tempo passato da quando era giorno era riuscito a intuirlo – c'era stato un grande caos nell'Ephia, di cui lui purtroppo aveva potuto comprendere ben poco. Sapeva solo che era partito tutto dalla sua cella. Un Ophliro aveva chiesto a quello di guardia alla sua porta di far uscire Kiril per trasferirlo, l'altro aveva rifiutato, dopodiché erano intervenuti gli altri.

E poi, Kiril non aveva ancora compreso la necessità di far stare qualcuno davanti alla porta chiusa se, tanto, questa era per l'appunto già chiusa! Ogni azione era determinata da un motivo, quel meccanismo insindacabile lo aveva sempre amato: causa ed effetto. Non si stancava mai di ragionare su tutte le circostanze che avevano o potevano aver condotto ad altre circostanze, soprattutto perché si era accorto che quasi tutte avvenivano in modo simile o, quantomeno, paragonabile. Era proprio trovare le similitudini e le differenze tra i vari fatti, tutti veri e reali, ciò che in assoluto catturava più di ogni altra cosa la sua attenzione.

Lo faceva continuamente. Notava che un piccolo portagioielli custodiva al suo interno un piccolo anello, e che invece un altro un po' più grande, come ad esempio una pancia, conteneva il figlio o la figlia di zio Petar e zia Sisi. Perciò, un anello piccolo stava dentro un contenitore piccolo proprio come un bambino più grande stava in una pancia più grande delle altre. Era bellissimo! Se la pancia fosse stata ancora più grossa allora il bambino, pure, sarebbe stato più grosso! Era tutta una questione di... come si chiamavano? Kiril sapeva solo che quando una delle sue comparazioni continue, quella sulla neve, si era verificata per davvero si era sentito finalmente pieno, dissetato, di quel qualcosa di cui prima aveva sempre sentito la mancanza. Aveva completato qualcosa, individuato un'incognita e placato, almeno per un po', ciò che continuamente lo divorava dall'interno.

Sì, ne era valsa la pena, nonostante tutte le brutte conseguenze che ne erano derivate.

«Cambio» sentì una voce all'esterno, rivolta all'Ophlira al momento di guardia alla sua porta. Da quando aveva sommerso Maksim con la slavina, tutti intorno a lui avevano preso a parlare in bulgaro rendendogli quindi comprensibili le loro parole, chissà perché.

«Oh, finalmente. Come va di là? La ragazza ha partorito?»

Kiril sollevò lo sguardo interessato, distinguendo appena i capelli scuri di uno dei due Ophliri. Che stessero parlando di zia Sisi?

«Eh già... una bambina a quanto pare. Ma la madre è morta.»

Morta. Quella parola aveva sempre intimorito e al contempo affascinato Kiril, anche solo per il rispettoso e cupo ossequio cui tutti gli si rivolgevano. Morto significava che si smetteva di respirare, di muoversi, pensare... di vivere. Il modo in cui questo avveniva non gli era ancora del tutto chiaro, anche perché nessuno aveva mai voluto spiegarglielo per davvero nello specifico, perché? "E se io muoio divento fermo come... come questo sasso?" aveva chiesto a Konstantin una volta, pigliando il primo oggetto inanimato che gli era capitato sottomano. Il tutore era riuscito in qualche modo a deviare il discorso e lo stesso avevano fatto tutti gli altri cui aveva provato a chiederlo, alcuni dei quali avevano reagito talmente male che alla fine aveva rinunciato e il mistero era rimasto. Quindi, in quel momento, non poteva fare a meno di chiedersi che cosa significasse che zia Sisi era morta.

«Cavolo, sul serio?» rispose la donna. «Nessuno di loro possiede un cebrim ostetrico?»

«Eh... no, mi sa che di solito facevano venire qualcuno dall'esterno. Yordanka prima di provare ha implorato me e Lev di chiamare un esperto, noi ovviamente non l'abbiamo fatto... ed ecco qui.»

Kiril non riusciva a comprendere dal suo tono se l'uomo provasse un qualche tipo di rammarico, ma non gli importava nemmeno, voleva solo capire cosa fosse successo mentre lui era lontano. E soprattutto come.

«E gli altri come l'hanno presa?» chiese ancora la donna al collega. Era sicuro che stavano parlando di questioni grosse, importanti, di quelle con le quali la sua mamma o il suo papà assumevano sempre quel tono grave, sussurrato, o agitato, che era sufficiente a metterlo sull'attenti. Invece no, sembrava quasi fossero assenti, distratti, come se stessero parlando di cosa avevano mangiato il giorno prima. "E le uova? Te n'è rimasta qualcuna per la cena di stasera?"

«Non molto bene... il suo compagno per un attimo mi ha dato l'impressione che volesse aggredirmi, poi però ha preferito correre in camera a piangere. Saggia decisione direi, dal momento che sono messi tutti già abbastanza male. Hai saputo di Gamsutl, vero?»

Dal tono, la donna sembrava appena cascata giù dalle nuvole: «No, cosa?» "Cosa?! Manca pure il sìrene¹? E cosa ci metto nella banitza oggi?"

«Eh... siamo messi male pure noi.» Perché quell'uomo incominciava sempre i discorsi con "Eh..."? «A quanto pare, Vladimir Razumov ha fatto fuori sia il marito di Yordanka che i rimanenti Ophliri Long... aggiunti a quelli che ci è stato ordinato di eliminare qui... non ho idea di quali possano essere le conseguenze. Inoltre, Vladimir stesso è morto, Natasha ha detto di non aver mai visto Maksim così sconvolto, e teme che possa agire senza pensare alle conseguenze...» Il che, nella testa di Kiril, si traduceva in: "Niente banitza per oggi mi sa..."

Fatto fuori... cosa intendeva? "Marito di Yordanka" era un modo in cui chiamavano suo papà...

Per quanto fosse interessante paragonare i loro discorsi a dialoghi immaginari, Kiril non li stava già più ascoltando. Gli occhietti scuri danzavano ora incontrollati da un angolo all'altro della cella che ormai conosceva meglio delle sue tasche, mentre la mente viaggiava veloce e incontrollata alla ricerca di una soluzione. Era pervaso dal bisogno viscerale di mettere ordine, trovare la giusta soluzione e la più adatta comparazione. Quella necessità aveva reso il suo respiro affannato per la preoccupazione e il cuoricino batteva talmente rapido e violento che sembrava volesse sfondargli il petto.

Di una cosa sola era certo: doveva uscire di lì. Doveva scoprire con i suoi occhi cosa stava succedendo, perché le parole di quei due Ophliri non avevano senso. E se Kiril non trovava il senso di qualcosa, stava male fino quando non vi aveva fatto luce.

Non resistendo più nemmeno a stare fermo, si alzò e prese a trotterellare a passetti rapidi e tremolanti, tastando le pareti con le mani e ponendovi a volte le orecchie come per ascoltare il silenzio frustrante emesso dal muro. Quelle pareti erano prive di aperture, l'aveva notato fin dal primo giorno. Proprio come... guardandosi intorno notò il piatto con il pranzo rivoltante avanzato dal giorno precedente, che un po' si era comunque costretto a mangiare per contenere i morsi della fame al suo stomaco. Erano stati gentili quella volta, perché, oltre al solito intruglio rivoltante, gli avevano consegnato anche una gran bella mela verde. Peccato che, appena l'aveva afferrata, si era reso conto che questa non era proprio fresca e gustosa come aveva pensato in un primo momento: un buco scuro la trafiggeva.

La fame a quel punto era sparita e tutta la sua attenzione era stata calamitata da quel foro nero; anzi, da quella piccola e precisa galleria, si era reso conto in un secondo momento, che era stata scavata con maestria e cura al suo interno, senza nemmeno farsi notare – oppure sì, e proprio per fargli un torto gli avevano offerto quel dono generoso? ... sì, era di sicuro andata proprio così, aveva Goran per fratello, quindi sapeva riconoscere un dispetto quando ne vedeva uno.

Aveva passato diverso tempo a osservare la mela, completamente catturato, fino a quando non aveva conosciuto il disgustoso ma affamato artefice di quell'opera d'arte, sbucato dalla parte opposta dopo aver superato la polpa e persino la buccia! Era stato in grado di intrufolarsi e di uscire incolume da qualcosa che per un esserino piccolo e fragile come lui poteva sembrare invalicabile, proprio come le pareti e la porta sigillata di quella cella parevano troppo chiuse per trovarvi un passaggio.

"Io sono il verme" si convinse, stringendo con forza i pugnetti, "... e questa parete è la mela..."

Chiuse gli occhi per un attimo e poi li riaprì, visualizzando l'associazione nella sua testa, l'immagine del verme che scavava la galleria nella mela si ripeteva all'infinito dietro i suoi occhietti, i quali correvano agitati da una parte all'altra quasi fossero immersi in un coinvolgente sogno senza palpebre calate.

Appena un attimo dopo, la via si spiegò innanzi a lui e finalmente il vagare del suo sguardo si placò. In un movimento automatico, il viso inespressivo come quello di un automa, la mano sinistra si sollevò, poi il medio e il pollice si incastrarono l'uno sull'altro facendo risuonare un lieve schiocco nel silenzio della cella.

Con una sorta di borbottio sinistro, la parete davanti a Kiril tremò un poco. Sulla sua superficie si disegnò un cerchio imperfetto che subito si squarciò e prese a incidersi dentro al muro, quasi un'entità invisibile ne stesse scavando la forma, divorando la muratura e poi la terra eccedente, con una rapidità sconcertante.

"... quindi questo è il mio buco." concluse con un sorrisino soddisfatto, contemplando la galleria perfetta, su sua misura, che aveva appena finito di formarsi. Si sentiva finalmente appagato, pieno, soddisfatto, consapevole, proprio come quando aveva rovesciato la slavina su Maksim, con l'unica differenza che ora non aveva percepito nessuno schiocco nelle orecchie. Era felice di avercela fatta, ma non c'era tempo da perdere. Senza attendere oltre, si mise a quattro zampe e con totale disinvoltura gattonò al suo interno.

Gli era mancata la sensazione della terra sotto le unghie e le ginocchia, il contatto stretto con il suolo quasi fosse lui stesso una piccola creaturina appartenente a quel determinato ecosistema. Era quasi tentato di prendere a giocare con i sassolini e i piccoli insetti che abitavano quel cunicolo, oppure di togliersi le scarpe e infilare il terriccio sabbioso tra le dita dei piedini puzzolenti, ma non c'era tempo per il gioco in quel momento. Da quando gli Ophliri cattivi si erano insediati nell'Ephia, lui e Goran avevano imparato che dovevano fare attenzione a quello che facevano e come lo facevano; tutti i loro giochi, i dispetti, le creazioni venivano sempre svolti nella massima cautela volta a non farsi beccare mai da nessuno. Kiril, infatti, era ben consapevole che, per non farsi notare, doveva riuscire a tornare prima che la porta della sua cella venisse aperta, dunque prima del pasto seguente.

Il gelo penetrò all'interno della piccola galleria prima di quanto il bambino si fosse aspettato, comprimendogli innanzitutto il cranio con fredde dita soffocanti e infiltrandosi poi tra le insenature dei suoi abiti con spilli acuminati. Ignorando i fiocchi di neve che gli si impigliavano tra le ciglia e scavalcando quella che subito si era accumulata nello sbocco all'esterno della galleria, sbucò fuori issandosi verso l'alto con le braccia. Si strinse nella sua sottile giacchetta, come se ciò avesse potuto fargli provare meno freddo, poi senza attendere oltre si diresse verso la casa poco distante, muovendosi a tratti a gattoni e a tratti con il busto chinato per non farsi notare dagli Ophliri di passaggio, che pure guardavano sempre avanti o erano troppo intenti a parlare preoccupati tra loro degli stessi avvenimenti di cui stavano discutendo fino a poco prima quelli di guardia alla sua cella.

Ignorò le centinaia di domande che subito si incastrarono tra loro nella sua testa in intrichi annodati tra loro e si impegnò a concentrarsi unicamente sul suo obiettivo: arrivare a casa per scoprire cos'era successo a zia Sisi. E soprattutto, ripararsi da quel freddo spacca-ossa il prima possibile. Per fortuna, la galleria era sbucata proprio a pochi passi dall'ingresso del retro, che in quel momento non era nemmeno presidiato, forse per lo stesso motivo che stava sconvolgendo tutti gli altri Ophliri. Si respirava nell'aria un odore di sconfitta, misto a paura e incertezza, molto simile a quello che aveva percepito la notte in cui la mamma aveva radunato tutti per avvertirli della comparsa di quel Vortice a cui era seguito l'arrivo degli Ophliri cattivi. Questo significava che si trattava di un odore che annunciava l'arrivo di profondi cambiamenti, ma questa volta sarebbero stati belli o brutti?

Non gli restava che scoprirlo. Con un salto un po' faticoso per via delle ossa tutte rattrappite dal gelo, raggiunse la maniglia e la fece scattare, spingendo al contempo l'anta in avanti, per poi chiudersela immediatamente alle spalle una volta che ebbe sorpassato l'uscio. Sfregò tra loro le dita congelate, si alitò sui palmi per scaldarli e poi si passò le mani tra le corte ciocche ambrate. Non contento, si scrollò tutto come un gatto bagnato.

Si trovava nel cucinino, al momento disabitato. Quanto tempo era passato dall'ultima volta che era stato in quella casa... quasi non la riconosceva, gli Ophliri l'avevano in un certo senso contaminata. Persino le pentole e gli attrezzi da cucina luccicanti di lavaggio impeccabile non sembravano più quelli che in passato erano stati usati per preparare gli squisiti pasti che avevano coccolato la sua infanzia, l'ordine con cui erano raccolti era quasi rivoltante, anche più del verme che scavava dentro a quella stupenda mela dalla buccia verde.

Attraversato da un nuovo brivido causato forse solo dal disagio, si diresse con passetti incerti verso l'uscita della cucina. Aveva sentito dire che suo papà, Konstantin e Hristo erano andati via, e che intanto il resto della famiglia si era ritirato nella loro vecchia casa, ma se avesse interpretato male le voci? O se invece fosse stato pieno di Ophliri? La possibilità di finire in guai grossi c'era e, aggiungendosi alle basse temperature dell'abitato, continuava a far zampettare sulla sua spina dorsale brividi dispettosi.

"Sono i brividi giusti" rispondeva sempre Ran, ogni volta che lui ne lamentava la presenza quando i due stavano per combinare qualche malefatta. "Se non senti i brividi non c'è gusto a infrangere le regole, perché sono quelli a renderlo divertente!"

Giusto. Valeva la pena di correre il rischio. Scostata di un palmo della mano l'anta da cui si accedeva al disimpegno affacciato al salotto, però, qualcosa lo bloccò. Nel freddo chiarore invernale che penetrava dalle finestre solo parzialmente coperte dalle tende, quasi non riconosceva più l'ampio e sontuoso soggiorno che aveva fatto da sfondo a diversi scenari della sua vita, ora svuotato di una sorta di calore e ridotto a un guscio cavo e privo di carattere. Sul divano, un lenzuolo sporco copriva l'intero corpo, testa compresa, di una donna. Solo due piedi spuntavano dal fondo. Calzavano delle scarpe che conosceva bene, perché vedendo il mondo dal basso a causa della sua statura, i piedi erano sempre la prima cosa che notava di ogni persona. Si trattava delle scarpe di zia Sisi. Aggrottò le sopracciglia, mentre un groviglio gli si attorcigliava nello stomaco. Perché le avevano coperto la testa? E come mai non si muoveva? Se stava dormendo, per quale motivo lo faceva in quella posizione?

Fece per avvicinarsi così da vedere meglio da vicino, quando si accorse della presenza di altre figure velate da un manto d'ombra proiettato dallo spazio di muratura tra due infissi. La mamma era seduta scompostamente a terra e piangeva devastata da singhiozzi rumorosi, abbracciando il piccolo Ilia e carezzando i capelli di Georgi, il quale aveva il visino tutto rosso dal pianto, devastato da una smorfia che lo rendeva quasi irriconoscibile. Non l'aveva mai visto in quello stato. Teneva un fagottino tra le braccia, da cui spuntava una piccola manina avvinghiata a un suo dito. Goran era poco più in là; le lacrime non solcavano il suo viso ma gli occhi parevano quasi vitrei, immersi in chissà quali pensieri.

Kiril deglutì. Non aveva mai visto la sua famiglia ridotta così male, e gli interrogativi che si rincorrevano dentro di lui ormai si erano fatti quasi dolorosi. Non ne poteva più di essere così piccolo e incosciente del mondo, non ne poteva più di avere mille domande e nemmeno una risposta. Voleva correre verso di loro e capire, capire perché tutto sembrasse essere andato completamente a rotoli. Lo voleva davvero, con ogni fibra del suo essere, ma non riusciva.

Perché? Perché? Perché?

Forse ne temeva la reazione. Dopotutto era da un po' che non si vedevano e se gli Ophliri avessero notato qualcosa in loro avrebbero potuto accorgersi che era fuggito; Goran glielo diceva sempre: la massima cautela era la base per non farsi beccare.

O forse era il terrore a bloccarlo. Il terrore che, se solo avesse oltrepassato la soglia di quel luogo grigio e spento, la sua aura cupa gli avrebbe sfondato il petto così come stava facendo con la sua famiglia. Loro avrebbero trasmesso anche a lui il dolore che li stava rendendo così terrificanti e distorti, e Kiril ne sarebbe finito risucchiato.

No, era inutile, non si sarebbe mosso di lì. Però se Sisi era lì distesa sul divano, immobile proprio come un sasso, e gli altri erano poco distanti, dov'era zio Petar? Lui forse, dato che era spesso triste quando gli altri erano felici, sarebbe stato felice mentre gli altri erano tristi? Non ci contava molto, ma l'istinto di andare a cercarlo era lo stesso insistente. Magari con lui sarebbe stato diverso, magari avrebbe potuto rispondere a qualcuna delle sue domande – ogni tanto era disposto a rivelargli molte più cose del mondo rispetto agli altri –, o magari avrebbe potuto suonare un po' la chitarra per lui, se davvero era andato di sopra come, si ricordò in quel momento, aveva accennato uno degli Ophliri davanti alla porta della sua cella.

In silenzio sgusciò oltre l'anta socchiusa e raggiunse subito le scale che partivano proprio dal disimpegno in cui si trovava. Non c'era nessun Ophliro di guardia, probabilmente erano usciti tutti fuori per parlare dei disastri che sembrava stessero avendo luogo. Gli erano mancati quegli alti e faticosi scalini; sorpassarne ogni gradino richiedeva un grande impegno, ma una volta conclusa la doppia rampa, la felicità e la soddisfazione di avercela fatta erano sempre incomparabili.

La porta della camera degli zii era aperta, fu la prima cosa che notò. Come un magnete, vi fu attirato all'interno, dove regnava il più completo caos. Ogni oggetto era ridotto in frantumi, persino i mobili, e le pareti erano state scuoiate delle carte da parati che le coprivano. Non sembrava più nemmeno lo stesso luogo. Un altro centinaio di domande si originarono dentro di lui, insieme alla risposta al motivo del fracasso che era provenuto da lì dentro quando erano arrivati gli Ophliri cattivi – i genitori gli avevano impedito di vedere.

Intravide una figura distesa trasversalmente sul letto, sporgendo da esso con la testa reclinata all'indietro da un lato e con le gambe abbandonate in modo scomposto dal lato opposto.

«Zio Petar?» la sua vocina sembrò assumere un suono raccapricciante, quasi nel silenzio piatto che albergava lì dentro anche quella gli fosse divenuta sconosciuta. Sconosciuta come l'opprimente sensazione che stava sorgendo in lui nel riconoscere l'uomo disteso. Una mescolanza di curiosità, terrore e disagio crescenti portarono il suo cuore a dimenarsi come una bestia incontrollata nel petto e rizzarono ogni poro della sua pelle.

Si trattava proprio di zio Petar. Si avvicinò ancora, distinguendo altri particolari, come il braccio accasciato sul divano, trafitto da strisce di un liquido rosso scuro. Dall'odore si rese conto che si trattava dello stesso che usciva da sotto la pelle quando ci si feriva; gli era capitato qualche volta, e gli era stato spiegato che si trattava di sangue. Però non ne aveva mai visto così tanto tutto insieme, non l'avrebbe mai riconosciuto se già allora non avesse ragionato sulle quantità di sangue che poteva essere contenuto nel corpo umano, sulle proporzioni di quanto ne sarebbe potuto uscire a seconda della dimensione della ferita. Ma soprattutto, ogni volta che si era ferito, che fosse un ginocchio sbucciato o un taglio accidentale a un dito, aveva percepito un bruciore, del dolore. Perché invece lui non sembrava mostrare nessuna emozione, nessun dolore?

Perché era così tanto immobile? Immobile proprio come un sasso.

«Zio Petar?» chiamò ancora, con tono più insistente questa volta, quasi insolente. "Zio Petar, esigo che tu mi risponda, ho davvero tante domande" avrebbe voluto dire, ma quasi si strozzò con le sue stesse parole, nel vedere il viso bianco dello zio. Gli occhi vitrei rovesciati all'indietro sommersero tutte le altre centinaia di domande e su Kiril si infranse un'onda impetuosa che lo travolse e trascinò per sempre via una parte di lui. Quell'immagine si solcò nei suoi occhi, impressa come un marchio indelebile che nulla avrebbe mai potuto cancellare.

Il caos discordante che gli era esploso dentro lo trascinò in un totale attonimento e ogni logica in lui si azzerò. Allungò un braccio verso la manica dello zio e prese a scuoterlo con insistenza, chiamando il suo nome con crescente intensità, aspettando di sentire il suo cuore battere e il suo petto sollevarsi per un lieve sospiro. I suoi occhi cercarono frenetici intorno a sé una soluzione, ma l'unica cosa che trovò fu un piccolo triangolino metallico lercio di sangue, adagiato al centro esatto del palmo dell'arto che già prima aveva notato essere pieno di quel liquido fastidioso.

Il plettro, si rese conto con un moto di sollievo. Forse zio Petar voleva solo suonare la chitarra. Sì, era proprio quello che ci voleva, era sempre così rilassante sentirlo suonare, riusciva a evocargli una pace completa che al tempo stesso gli strizzava anche il cuore per la malinconia.

«Zio Petar, puoi suonare per me?» chiese con tono speranzoso. Lui ancora non emise un solo fiato, quasi il colore rosso avesse sommerso anche lui. Era fermo proprio come gli era sembrato che di sotto fosse zia Sisi. Ma la madre è morta, gli ricordò la voce di quell'Ophliro nella memoria.

Morire significa smettere di respirare.

Morire significa smettere di muoversi.

Morire significa smettere di pensare.

Morire significa smettere di vivere.

Quello che Kiril fino a quel momento non aveva capito, ciò che veramente lo fece sprofondare in un abisso da cui mai sarebbe potuto uscire completamente, era che tutte quelle brutte cose erano irreversibili. Si smetteva e non si aveva mai la possibilità di ricominciare daccapo. Non si aveva più nemmeno la possibilità di respirare ancora, di sorridere, di piangere, di suonare la chitarra. Si cessava completamente di esistere.

Morire significa diventare un sasso.

Morire significa diventare esattamente come quel plettro nero.

In modo incontrollato, i suoi occhi presero a inseguire collegamenti inesistenti al di fuori della sua mente, che saltavano da una parte e l'altra, immersi nel rosso, e che legavano in un laccio sempre più stretto il corpo di Petar, con quei terrificanti occhi chiarissimi rovesciati all'indietro, al plettro nero da cui mai aveva visto separarsi lo zio, quasi la sua vita non avesse fatto altro che ruotarvi intorno.

La confusione si mescolava alle similitudini che si stavano disegnando nella sua mente, originando un'unica domanda, una necessità più intensa che mai di capire, di trovare un senso, di avere una risposta.

Quando la risposta giunse, le sue dita schioccarono distrattamente, la mano neanche si sollevò a sottolineare il movimento, abbandonata lungo il busto. La consapevolezza. Lo inondò.

Una consapevolezza cava, che gli originava un gusto aspro in bocca. Amaro.

Un battito di ciglia, e il corpo di zio Petar era scomparso, dissolto nel nulla. Neanche il sangue era rimasto. Aveva cessato di esistere.

Ora, al suo posto, solo il piccolo triangolo acuminato nero, luccicante di quella luce grigia emessa dalla finestra, giaceva nel grande letto vuoto. Zio Petar non c'era più. Zio Petar era morto.

Petar era diventato inanimato proprio come il plettro.

Ormai, Petar era il plettro.

Točno kato... = Proprio come...

... Capito cos'è successo? Visto che non verrà spiegato subitissimo ve lo dico adesso prima che vi facciate film mentali strani. Innanzitutto, Petar è morto di crepacuore, lo so che può sembrare strano ma è una cosa che esiste davvero, simile all'infarto ma causato da una forte sofferenza (poi ve ne parlerò meglio).

Dopodiché, Kiril...  beh, l'ha letteralmente trasformato in un plettro, non volontariamente ovvio (vi ricordo che ha 3 anni), ma per effetto della sua mancanza di controllo del suo Cebrim particolare, che, vi anticipo, verrà chiamato cebrim delle proporzioni. È esattamente così che funziona, anche se forse l'avevate già intuito.

Le proporzioni sono praticamente la SALVEZZA di chi come me detesta o non capisce la matematica, proprio perché, creando un paragone, semplificano anche le formule più complesse. Quello che fa Kiril, anche senza aver ancora mai studiato le proporzioni, è proprio questo: semplificare la realtà per poterla comprendere meglio!

Se ci pensate, anche le volte precedenti, si trattava pur sempre di associazioni a due a due di alcuni elementi:

🔸Nel discorso di Maksim al cap.14 ❄️
Fragilità : Potenza = Fiocco : X
X= slavina

🔸Nella cella a inizio capitolo 🐛
Buco : mela = X : prigione
X= tunnel

🔸E infine 🔺
Morte : immobilità = Petar : X
X= plettro

Ovviamente esistono anche le proporzioni triple o più astratte e più avanti crescendo Kiril farà anche queste 🥰 L'unico limite, almeno per ora, è che le proporzioni non possono avere effetti diretti sugli esseri viventi (tipo:  vita:morte=tizio:x ➡️x=tizio morto💀), poi più avanti valuterò se toglierli anche questo limite ma preferirei di no perché almeno così sviluppa di più l'immaginazione nel cavarsela con gli strumenti che ha a disposizione.

Tutto bello e bla bla bla, ma perché ho deciso di trasformare PETAR in un PLETTRO? (A parte il bellissimo gioco di parole) Vi dico che... non lo so. È stata una scena improvvisata e Non prevista. Sul momento ho sentito che fosse la cosa giusta da fare e... boh, l'ho fatto. Anzi, è stato Kiril stesso a costringermi a farlo e in un certo senso me l'ha chiesto anche Petar. Non poteva esistere altro finale per lui: quasi tutta la sua vita è ruotata attorno a quel plettro tanto che alla fine non potevano non diventare una cosa sola.

E ovviamente il plettro verrà incorniciato ed esposto nel salotto in sua memoria PERCHÉ ADORO IL BLACK HUMOR AHAHAH PARDON 🖤

Detto questo... il prossimo è il capitolo finale (della seconda parte).
Pronti all'ultimo addio? ✈️

dAᴙkꟻAᴎTAꙅilɘᴎA

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