20.Spleen
Quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio sullo spirito che geme in preda a lunghi affanni, e versa, abbracciando l'intero giro dell'orizzonte, una luce diurna più triste della notte;
quando la terra è trasformata in umida prigione dove, come un pipistrello, la Speranza sbatte contro i muri con la sua timida ala picchiando la testa sui soffitti marcescenti;
quando la pioggia, distendendo le sue immense strisce, imita le sbarre d'un grande carcere, e un popolo muto d'infami ragni tende le sue reti in fondo ai nostri cervelli,
improvvisamente delle campane sbattono con furia e lanciano verso il cielo un urlo orrendo, simili a spiriti vaganti, senza patria, che si mettono a gemere, ostinati.
– E lunghi trasporti funebri, senza tamburi né bande, sfilano lentamente nella mia anima, vinta; la Speranza, piange; e l'atroce Angoscia, dispotica, pianta sul mio cranio chinato il suo nero vessillo.
-Spleen-
(Baudelaire)
Sofia, gennaio 1996
La tempesta era arrivata. E l'albero immortale ne era stato travolto.
«È l'unica cosa da fare.»
Era inevitabile. Era la naturale forza delle cose, a cui nessuno poteva sottrarsi.
Lo stesso ramo ne era consapevole.
«No», si era rifiutato di accettare lui, la voce un rantolo furente, «No, dev'esserci un modo per salvarli entrambi...»
«Non c'è, perché dovrei mentirti?» aveva gridato in risposta sua sorella. La lite era scoppiata furiosa e disperata tra loro, senza che nessuno dei due fosse veramente arrabbiato. Erano solo sciocchi rami che speravano di poter fuggire dal gelo, dopotutto.
La voce fievole e ansante di Silviya aveva arrestato ogni opposizione: «Yordanka, fallo».
Aveva poi deglutito il dolore e, voltasi verso Petar, gli occhi inondati dalle lacrime, aveva aggiunto: «Il bambino deve vivere, Petar. Non desidero altro».
«Sisi...» aveva insistito lui. «Ti prego. Ti imploro. Tu avevi promesso.»
Però posso assicurarti che, per qualunque cosa, io sono qui. Che tu abbia bisogno di silenzio, comprensione, o anche di essere ignorato, devi sapere che non sarai mai solo. Io, Sasho, la tua famiglia, ci saremo sempre, lo sai.
Vedrai che andrà tutto bene, slŭncize.
Te lo prometto Petar.
«Sì, avevo promesso» confermò lei, sforzandosi di sorridere, «avevo promesso che non ti avrei abbandonato neanche dopo la morte, e infatti è così. Resterò sempre insieme a te.»
La sua mano tremante si posò sul ventre. «Insieme a voi.»
Poi, come se degli aghi fossero emersi dal cielo, Petar si sentì trafiggere ogni parte del corpo dalle punte affilate di un gelo senza paragoni, che lo Jivonhir non avrebbe mai dimenticato, perché era lo stesso che nell'ultimo inverno aveva squarciato i suoi mezzi di comunicazione con l'esterno.
L'incubo che lo aveva svegliato la notte in cui tutto era ricominciato sembrava starsi solidificando davanti ai suoi occhi, ne sentiva il gelo affilato affondargli nella carne. Si era alzato, intento a fuggire dal dolore dal quale però non c'era scampo, e si era allontanato da quel viso amato che non aveva più la forza di guardare. Si era ancorato a una parete, desiderando picchiarla con le nocche, per sfogare quell'ingiustizia su qualcosa di inanimato, che avrebbe sommerso tutto il resto con semplice e gestibile dolore fisico. Aveva persino desiderato piangere, come quella volta nel fondo della Gola, quando l'impossibilità di raggiungere Liuben lo aveva soffocato al punto da far sgorgare copiose lacrime dalle sue sclere congelate. E come quella volta in cui era stato in grado di esibirsi dipingendo la musica di Denislav nell'aria, commuovendosi al punto di lacrimare di gioia. Erano tempi così belli da ricordare, eppure irraggiungibili. Era successo tutto solo e unicamente grazie a Silviya. Senza di lei, Petar non era niente. Quella sciocca frasca si stava adagiando, rilassando, aveva addirittura osato ricominciare a vivere per davvero.
«C'è sempre una scelta» aveva ribattuto lui quando Yordanka era venuta a convincerlo.
«E Silviya ha preso la sua».
Quella frase aveva sancito la fine a ogni opposizione. Era giusto così, chi meglio di Silviya stessa aveva il diritto di decidere della sua vita? O lei, o il bambino. Aveva scelto il bambino, com'era logico che fosse, com'era giusto. Il bambino prima di tutto il resto.
Prima che se ne rendesse conto, stava già accadendo. Sembrava tutto surreale; se, da una parte, non riusciva a credere di essere davvero complice di un tale atto, dall'altra era tutto nitido e reale, fin troppo.
Petar aveva tenuto ferma la donna, mentre la lama recideva con cura il ventre. Intanto, il vento impetuoso rendeva indistinguibile ogni cosa, mentre la corteccia scricchiolava, pronta a spezzarsi.
Intanto, l'albero si apprestava a perdere una sua estensione per farne emergere una seconda, più piccola, al suo posto. E lui era nuovamente inutile, solo un altro maledetto ramo brutto e ritorto, che non sapeva fare nient'altro che restare fermo a guardare mentre gli altri cedevano alla violenza della bufera.
L'ultima volta era un muro invisibile a interporsi tra lui e Liuben, e per quanto i suoi pugni o i mens provocati dalla sua furia si fossero gettati violenti su di esso nel tentativo di abbatterlo, nulla aveva potuto impedire al Vortice di risucchiarne la vita. Questa volta non poteva nemmeno sfogare la sua rabbia o il suo dolore, non c'era nessun muro da buttare giù, era lui stesso a essere sprofondato definitivamente nel fondo di un pozzo senza luce; per il resto la situazione era la medesima: guardare il suo mondo sprofondare senza poter fare nulla per fermarlo.
Il grido di dolore trattenuto tra i denti, lo sforzo immane volto al sacrificio per la vita che per mesi era cresciuta in lei distorcevano l'immagine di Silviya in un intrico ritorto e informe, quasi irriconoscibile. Quasi come un Vortice.
Quell'inferno sembrò durare un'infinità e al tempo stesso si concluse troppo in fretta. Il pianto di un neonato. I passetti di tre bambini che trotterellavano lì a vedere. La voce di Yordanka che annunciava: «È una femmina».
Il sorriso lucido che addolciva il viso, fino a poco prima distorto da una smorfia, nella donna che amava. «Sei bellissima Ana». La voce sottile e forte al tempo stesso, quando Yordanka le ebbe avvicinato l'infante che Petar non aveva nemmeno ancora avuto il coraggio di guardare, intravedendo solo che era ricoperta di sangue.
Del sangue di sua madre.
I zaffiri neri e luccicanti di Sisi si spostarono dunque su di lui. Le sue labbra sussurrarono una breve frase, in francese, che finalmente fu in grado di far bruciare anche gli occhi di Petar. Deglutì e represse ancora un attimo le lacrime, deciso a non permettere a nulla di sfocare quelli che sapeva essere gli ultimi, stupendi e terribili attimi di vita di Silviya. Non c'era nulla per fermare lo scorrimento del sangue copioso, non v'era cura allo squarcio nel ventre della donna, né lui né Yordanka possedevano i cebrim per curarla; dopotutto la sua sorte era stata ben chiara fin da quando avevano iniziato il procedimento, e non c'era modo di tornare indietro. Sapeva fin da subito come sarebbe andata a finire, e nonostante questo non riusciva a decidersi a lasciarla andare.
«Sisi... Sisi...» la chiamò disperato, come a incitarla a sopravvivere, a sorridergli un'ultima volta, a non arrendersi.
Le labbra di Petar tremarono quando, con l'ultima riserva di forze, Silviya alzò una mano ad accarezzargli la guancia e il mento. Mano che lui sostenne, percependone il battito affievolirsi, la vita spegnersi in essa e subito dopo anche negli abissi in cui si rispecchiava.
«No. No-no-no... Sisi aspetta...»
Troppo in fretta. Troppo presto. C'erano mille altre cose che avrebbe voluto fare, mille altri modi in cui avrebbe voluto dirle addio. Mille altre modi in cui avrebbe desiderato non dirle addio affatto.
Non se ne sentiva in grado. Non riusciva a lasciar andare la sua mano che si faceva fredda, gli risultava impossibile distogliere gli occhi dai suoi, impedire alla sua voce di chiamarne il nome, pur consapevole che non sarebbe giunta risposta.
Un attimo prima era lì, a scaldarlo con il suo sorriso come una candela sempre accesa, e quello immediatamente successivo si era spenta.
Divelta con violenza dall'albero. La bambina strillò e scoppiò a piangere, e anche lui si lasciò finalmente andare alle lacrime, che gli graffiarono le gote come lava incandescente, mentre il suo capo si abbandonava sul petto freddo della donna e le spalle venivano scosse da violenti singhiozzi e gemiti incontrollati, il torace che cominciava a dolere. Anche la rabbia era scomparsa, per lasciare il posto nel suo cuore solo al vecchio compagno che mai l'avrebbe abbandonato, lo stesso che per anni aveva guidato le sue mani e solcato il sangue nella sua cute.
«Petar» udì chiamarlo la voce di Yordanka, distorta dalle lacrime. «Oh Petar.»
Non poteva capire. Certo, amava Silviya come ogni altro in famiglia, perché era impossibile non affezionarsi ai suoi sorrisi, rimanere affascinati dalla sua elegante gentilezza, e intiepiditi dal suo calore. Ma non poteva capire. Il dolore era esclusivamente suo, lui era solo, era sempre stato isolato. Nessuno aveva mai compreso appieno il suo legame con Denislav e lo stesso valeva per Silviya. Questa volta, però, era ancora peggio, perché era stato costretto ad assistere mentre la vita sciamava via da lei.
Le fitte che gli stavano dilaniando il petto gridavano strilli assordanti nelle sue orecchie, rendendolo sordo a ogni altro suono. Credeva che sarebbe potuto morire lui stesso lì, in quel momento, se non avesse percepito la mano di Yordanka posarsi sulla sua spalla. Si voltò di scatto, notando con la coda dell'occhio Georgi, Kiril e Ilia osservarlo con grandi occhietti sconvolti. Si sentì d'improvviso in colpa, perché erano troppo piccoli per assistere al ripugnante spettacolo di quell'ingiustizia, e di un uomo che, devastato dalla vita, aveva ormai perso tutto.
"Non tutto" gli ricordò Yordanka, percependo i pensieri forse sfuggiti al Clypeus ormai in frantumi di guardia alla sua porta. Le braccia erano tese verso di lui, a porgergli la neonata avvolta in un panno. Era stata ripulita dal sangue, e ora non piangeva più. Due occhietti socchiusi e affaticati si posarono su di lui, contornati da un viso tondo e rugoso, sul cui capo spuntavano, al pari di erba appena annaffiata, alcune sottili ciocche scure. Le dita piccole e cicciotte venivano fuori dalle manine come salsicce e si tendevano quasi a cercare di afferrare qualcosa, forse il cordone ombelicale.
Forse in cerca dell'affetto caloroso della sua mamma. La stessa che giaceva, fredda come il ghiaccio, proprio lì accanto. La mano gelida, appena abbandonata da lui, tesa verso il pavimento.
"Ho bisogno solo di questo" esprimeva la piccola. Un affetto che lui non avrebbe mai potuto trasmettergli. Un affetto che Petar non era in grado di provare, non per lei. Quell'innocenza infantile di appena venuta al mondo, quella curiosità genuina, e persino quella nostalgia che trasudavano dalla piccola Ana, non provocavano la minima empatia in lui. Fissandola non vedeva altro che ciò che le aveva portato via Silviya, l'essere per cui lei si era sacrificata, e che l'aveva dissanguata, che le aveva succhiato via la vita. Gli era impossibile vedere in quella bambina sua figlia, il frutto dell'amore che lo aveva legato a Sisi. E si disgustava per questo. Era un essere ripugnante, un codardo, un egoista.
«Prendila Petar, è bellissima, proprio come ha detto Sisi» lo incitò Yordanka, quasi implorante, «ha bisogno di suo padre.»
Quelle parole scossero qualcosa in lui, spingendolo a ubbidire. Suo padre. Questo comportava delle responsabilità. Era papà adesso. Doveva occuparsi di quella bambina.
Solo toccare la stoffa in cui era avvolta fu sufficiente a provocargli ondate violente di rabbia. Deglutì le lacrime, e si fece forza, accogliendo il corpicino tra le sue braccia goffe e inesperte. Doveva obbligarsi ad amarla, Silviya avrebbe desiderato così. Sì, Silviya avrebbe voluto che loro fossero felici. Era per quel minuscolo esserino che aveva ceduto alla morte, era per permetterle di sorridere, piangere, soffrire. Vivere.
Continuò a fissarla negli occhi, entro i quali non vedeva altro che ciò che gli era stato portato via. "Non è stata colpa sua" si disse, per convincersi. "Ana è innocente. È vittima quanto Silviya."
Ma la sua mente lo sbeffeggiava, lo ingannava e lo tradiva, e i suoi pensieri si facevano sempre più cupi, sempre più sbagliati. Avrebbe finito per soffocarla tra le sue braccia, se solo in quel momento sua sorella non fosse sobbalzata.
«Aleksander» esalò in un soffio, senza un filo di voce. Poi il terrore prese forma sul suo viso e squarciò il sorriso affaticato e lieve che lo aveva adornato fino a un attimo prima. Infine, il terrore precipitò nella sofferenza più assoluta, che le trasmutò il viso in pietra, le labbra ancora un poco dischiuse.
«Mama, che succede?» chiese con tono atrocemente serio Goran.
Petar comprese ogni cosa dal semplice spostamento millimetrico delle sue pupille, dal nulla al figlio. Non ebbe bisogno di percepirne i pensieri, per comprendere cosa fosse accaduto.
Aleksander. Questo poteva significare una sola cosa: la missione era fallita, anche il fratello di Silviya era spirato, e con lui probabilmente anche Konstantin e Hristo, gli stessi che gli erano stati vicini fin dalla più tenera infanzia e che non li avevano mai abbandonati. Questo significava che Violeta non era stata liberata, e che lui aveva avuto ragione fin dall'inizio ad affermare che quel tentativo disperato sarebbe stato un suicidio.
Non gli piaceva avere ragione, non gli era mai piaciuto.
Aveva già previsto tutto, fin dall'inizio. Proprio come nel suo sogno, tutti i rami, uno dopo l'altro, stavano venendo inghiottiti da quella bufera che non aveva fine. Un solo ramo era sopravvissuto, questa volta. L'ultimo su cui chiunque avrebbe scommesso.
Era quello il suo destino, la realtà che gli si stava solidificando tra le mani tremanti, non più in grado di reggere la bambina che aveva squarciato il ventre di Silviya. Non era più in grado di reggere nulla, né la responsabilità di obbligarsi a divenire padre, né la consapevolezza di rimanere l'ultimo, mentre gli altri, intorno a sé, precipitavano come fragili foglie.
Tutto, piuttosto che lasciare solo quel ramo immeritevole.
Il cuore gli si agitò nel petto, rifiutandosi di accettare ciò che stava accadendo, e il suo respiro si fece affannato, mentre stille di ghiaccio gli inumidivano la fronte. Porse a Georgi la bambina che, a quel gesto un po' brusco e improvviso, prese a gemere, in procinto di scoppiare a piangere. Non appena si fu assicurato che questa fosse al sicuro tra le sue giovani braccia – al sicuro da Petar stesso –, si alzò e indietreggiò, i passi claudicanti, senza più osare posare gli occhi sul corpo di Silviya disteso nel letto.
Non ce la faceva più. L'impellente bisogno di andarsene superava ogni altra cosa, non poteva tollerare un secondo ancora in quella stanza, nell'inferno che aveva travolto quell'ambiente, in passato così confortevole e familiare.
Si voltò per salire le scale, e in quel momento si trovò faccia a faccia con un Ophliro, alla soglia del vano. L'espressione esibita sul suo viso era impassibile, rilassata, indifferente. Aveva assistito tutto il tempo, si rese conto Petar. Era stato lì fermo a guardare mentre lui e Yordanka uccidevano Silviya per permettere ad Ana di nascere. Aveva scrutato con quegli occhi giudicatori la morte che era piombata sulla loro famiglia, acclamata da tamburi d'angoscia. Indifferente.
Petar avrebbe voluto ucciderlo, in quell'esatto istante. Dopotutto, aveva ancora le mani sporche del sangue di Sisi, aggiungervi quello dell'Ophliro sarebbe stato solo un abbellimento. La forza di volontà, tuttavia, gli mancò fin dal principio; anche fosse riuscito a sconfiggere un soldato così esperto, le conseguenze si sarebbero solo ritorte contro i pochi parenti sopravvissuti, non ci avrebbe guadagnato nulla. Violeta non l'aveva mai accettato, e forse nemmeno Yordanka, ma a lui era stato chiaro fin da subito: mordere la mano che li frustava non avrebbe mai causato altro che colpi più violenti da parte della stessa.
«Con permesso» ordinò con voce greve, nella quale non si impegnò nemmeno a trattenere il dolore. Voleva che quell'uomo lo sentisse tutto, voleva che le sue lacrime gli gridassero contro l'accusa che non poteva esprimere a parole.
Ebbe la decenza di spostarsi.
Le sue gambe, seppur tremanti e incerte, lo condussero da sole nella sua vecchia camera. Sua e di Silviya. La porta scricchiolò con un cigolio sinistro sotto la spinta della sua mano, suono, seppur sgradevole, che non l'aveva mai infastidito. Forse perché aveva scricchiolato nello stesso modo anche in innumerevoli altri momenti felici, malinconici, o impregnati di amore nascente o crescente.
«Che cosa ci fai qui?» aveva chiesto una volta Petar, scostata l'anta, sorprendendo Silviya dentro alla camera, nel periodo in cui ancora non si erano messi insieme. La ragazza era accovacciata a leggere un piccolo libro usurato dal tempo, irraggiata dalla luce del sole primaverile che penetrava dalla finestra.
«Oh, scusa» aveva risposto lei con semplicità, sorridendogli graziosamente con quegli occhi scuri che al bacio diretto del sole rilucevano di riflessi d'argento, «è che ho notato che da questa stanza si gode dell'illuminazione migliore.»
Petar non si era mai preoccupato di essere gentile con nessuno, non per cattiveria, ma perché semplicemente non gli importava di cosa gli altri pensassero di lui; che lo ritenessero anche scorbutico e irascibile, almeno gli sarebbero restati alla larga. Con Silviya però, gli era sempre risultato più difficile. Fosse stato chiunque altro a intrufolarsi nel suo spazio senza chiedere prima, lo avrebbe scacciato senza esitare. Lei, però, era diversa. Non sapeva spiegare perché, ma sentiva il bisogno di non ferirla, come fosse un cristallo talmente sottile da rischiare di frantumarsi solo se sfiorato nel modo errato; oppure era lui stesso il vetro fragile, e lei l'unica a impedirgli di frantumarsi?
La ragazza si era alzata con eleganza diligente e, a capo chinato, forse in segno di scuse, aveva preso a dirigersi verso la porta. A quel punto, la mano di Petar era corsa a fermarla, afferrandole il braccio esattamente come lei aveva fatto appena qualche mese addietro, nei pressi della Gola del Diavolo.
«Resta pure, se lo desideri. Puoi passare qui a leggere tutte le volte che vuoi, basta che stai in silenzio e non mi parli se sono presente, stava li¹?» aveva proposto lui, proferendo l'ultima parte nella loro lingua madre appositamente per citarla. Silviya aveva sorriso radiosa come solo lei era mai stata in grado di fare e si era riseduta a leggere, sfogliando lentamente le pagine con suoni appena percettibili nel silenzio che sempre governava la sua camera.
Le suole delle scarpe di Petar calpestarono ora alcune delle macerie che restavano di quella che un tempo era diventata la loro camera. Dopo quell'occasione, la ragazza si era recata alla sua finestra praticamente tutti i giorni, anche quando era nuvoloso e quando il sole batteva sul lato opposto della casa. Aveva sempre ubbidito alla sua richiesta, senza osare infrangere i lunghi silenzi che imperversavano tra loro.
Si sedette su quel che rimaneva del letto le cui lenzuola erano in frantumi, il materasso parzialmente divelto. Quante volte, quando al posto del giaciglio matrimoniale si trovava ancora uno singolo, Petar era sprofondato nella sua morbidezza, intento a fissare il soffitto, a rigirarsi il plettro tra le dita, e a ripensare a Denislav, mentre Silviya leggeva lì accanto, come una guardia alla porta della sua profonda depressione?
E quante volte, Petar, lasciandosi vincere dal giogo della curiosità, aveva sbirciato di nascosto verso di lei, per rimirarne la piega concentrata delle sopracciglia, la bocca dischiusa per il fascino, gli occhi resi lucidi da una commozione che su di lei assumeva un aspetto così affascinante da incantarlo? E quante volte l'aveva sorpresa, a sua volta, ad alzare gli occhi su di lui, salvo poi distoglierli appena scoperta?
Quelle continue occhiate fugaci si erano susseguite, con il tempo sempre più assidue e poi sempre più familiari, per diversi mesi. Mesi in cui la punta del plettro non aveva scalfito la sua pelle neanche una volta. Silviya era in qualche modo in grado, con la sua sola presenza, di scacciare quell'impulso.
Guardando nella direzione in cui anni addietro era solito puntare lo sguardo, questa volta, gli occhi di Petar si posarono solamente sulla parete grigia ammuffita, quasi irriconoscibile senza la carta da parati che l'aveva in passato ammantata. Un gelo soffocante gli si espanse nel petto nel rivedere – al posto della giovane Sisi che le aveva lentamente, adagio e con delicatezza, rubato il cuore – la vita che si spegneva nei suoi occhi e nella mano che l'aveva carezzato, diventata d'improvviso pesante come il macigno che l'aveva fatto sprofondare.
Ma la sua mente provocatoria continuava a ritrascinarlo verso l'alto, guidata dalla luce della memoria, l'unica in cui fosse confortevole rifugiarsi al momento. Quel luogo ne era pregno.
Era stato Petar stesso il primo a rompere il ghiaccio, un giorno all'improvviso. Non per sua scelta, ma per semplice casualità. Una delle tante volte in cui i suoi occhi l'avevano sbirciata di nascosto, Silviya aveva a sua volta sollevato gli occhi nei suoi, come percependo un solletico, e un sorriso divertito le aveva piegato gli angoli degli occhi, facendo luccicare lo sguardo malizioso. A quel punto, era risultato impossibile al ragazzo distogliere l'attenzione, altrimenti il tutto sarebbe diventato solo più imbarazzante, inoltre sentiva già la pelle del viso pizzicare, minacciando di arrossarsi. Così si era ritrovato a chiederle: «Cosa leggi?»
«Poesie» si era limitata a rispondere lei. Lui aveva annuito e tutto era tornato come prima. Il giorno seguente, Petar le aveva chiesto quali poesie leggesse, e il giorno dopo ancora se non si stufasse mai di rileggere sempre la stessa cosa, di continuo.
A quella domanda, invece che offendersi, era scoppiata a ridere, leggera e sinceramente divertita: «È come se mi avessi chiesto se mi stufo mai di respirare! Leggo da talmente tanti anni, che ormai credo di non poterne fare a meno. Non sempre le stesse poesie però, ho sperimentati talmente tanti generi diversi... impallidiresti nel vedere quanti libretti identici a questo ci sono in camera mia!»
A quel tempo, Petar non aveva mai sbirciato ancora nella sua stanza né in quella di suo fratello – ma neanche in quelle di Violeta e Yordanka a dir la verità – perché gli veniva naturale rispettare gli spazi personali altrui così come preferiva che gli altri rispettassero i suoi. Anni dopo, quei tanto decantati scaffali di libretti si erano poi trasferiti nella stessa camera in cui sedeva al momento. Affissi a una parete, riusciva ancora a distinguere le viti che avevano retto lo scaffale, scaglie di pagine le cui scritte erano ormai irrecuperabili, e l'esoscheletro che aveva cullato la vita di Sisi.
«Però è vero, ritorno spesso a delle poesie in particolare, le prime a cui mi sono approcciata. Fu mia zia Ana a consigliarmele, in un periodo... particolare della mia vita» gli occhi della ragazza si erano adombrati per un attimo impercettibile. «Ormai credo di conoscerle praticamente a memoria! Vuoi che te ne legga qualcuna?»
«No, tanto non le capirei» si era rifiutato lui, spaventato dall'apertura improvvisa della ragazza, e le aveva dato la schiena, risprofondando nel silenzio. Quanto tempo prezioso aveva perso, si rese conto solo ora, quanto tempo in cui avrebbe potuto conoscerla meglio, così da poter godere più a lungo delle carezze dei suoi tiepidi sorrisi. Ormai sapeva che era Rimbaud il suo autore preferito, e quello nelle cui poesie s'immergeva più di frequente, un giovane e talentuoso poeta francese avvolto nel mistero, il quale aveva sconvolto la sua epoca e cambiato per sempre quelle successive grazie ai suoi componimenti visionari e dai significati sconosciuti, che Sisi assumeva come sue personali fughe dalla realtà che non riusciva accettare; così come sapeva che si era avvicinata alla poesia nel burrascoso periodo in cui i suoi genitori si erano lasciati, visto come il crollo di un castello luminoso per la bambina troppo piccola che era al tempo.
In quel momento, però, Petar non lo sapeva. In quel periodo della sua vita, gli era importato solo di allontanare ogni tipo di legame da se stesso, così da evitare di affezionarsi a ciò che poteva rischiare di avvizzirgli tra le mani.
Afferrò una piccola scheggia di legno, avanzata dallo scaffale, e la stritolò premendo le dita spietate sul palmo. Quella si sciolse in polvere in meno di un attimo, che discese sui resti del materasso, accompagnata da lacrime del suo sangue.
Per circa una settimana, dopo quel breve scambio, non si erano detti nulla. Poi, un giorno, non appena lui fu entrato, lei si era alzata, e aveva parlato, con sua sorpresa, in francese. Il cebrim delle lingue necessario a tradurre le sue parole si era attivato automaticamente in lui, che subito aveva percepito il petto dilaniato dagli artigli feroci ma precisi di una bestia spietata, evocata dalle immagini suggestive che i versi disegnavano nella sua mente; al tempo stesso, gli era parso di essere sprofondato in una sorta di opera d'arte, la prima in grado di dare forma a ciò che aveva sempre sentito gridare dentro senza che questa fosse mai stata in grado di assumere contorni specifici. Sì: l'angoscia era un'opera d'arte, stupenda e impetuosa, terribile, ma affascinante.
«Spleen» aveva concluso Silviya. «di Baudelaire. Ancora sicuro di non essere in grado di capirla?»
Lui non aveva saputo come rispondere, troppo dilaniato da quella sensazione opprimente che lo aveva accompagnato fin dalla morte di Denislav, a volte più e altre meno insistente, ma che c'era sempre stata, senza che lui avesse mai saputo dargli un nome. Era indietreggiato, indeciso se fuggire o se pregarla di rileggerla, di permetterle di graffiare la sua anima più profondamente di quanto il plettro avesse mai fatto; l'attrazione del dolore era stata più forte di ogni altra, come sempre. Gli incerti passi indietro avevano abbattuto il dorso di Petar sull'anta appena chiusasi alle sue spalle, poi le sue gambe avevano ceduto e le ginocchia le avevano piegate, facendolo sprofondare fino a terra.
Silviya, preoccupata da quella reazione apertamente sconvolta come lui di rado mostrava di essere, gli era corsa vicino. Non l'aveva abbracciato, come magari avrebbero fatto Yordanka o Violeta, e lui l'aveva apprezzato davvero tanto.
«Lo spleen è dentro tutti noi, Petar. È sempre lì, in agguato, pronto a uscire fuori e divorarci. Non divora tutti allo stesso modo» aveva spiegato con tono gentile ma semplice, né intenerito né impietosito, sedendoglisi di fianco, «alcuni li azzanna con un unico colpo feroce, lasciandoli senza niente dopo. Ad altri, invece, corrode l'anima e domina le loro vite, senza che magari nemmeno se ne rendano conto. E poi ci sono quelli a cui lo spleen scava dentro, lentamente, un'immensa voragine che diventa più profonda via via che le sue stesse vittime gli concedono la pala per sterrare.»
«Perché mi stai dicendo queste cose?» Cosa vuoi da me? Avrebbe voluto gridarle in quel momento. Avrebbe desiderato scacciarla, spingerla via, prendere il plettro e far scorrere il sangue lì dove il dolore era più profondo. Tutto pur di farla smettere di estrapolare dal suo petto ciò che forse nemmeno lui era cosciente di custodire.
Eppure, l'aveva lasciata continuare: «Perché, secondo Baudelaire, coloro che riescono a percepire lo spleen sono gli unici in grado di trasformarlo in qualcosa di stupendo, possiedono la straordinaria capacità di convertire la loro stessa sofferenza, la noia che li opprime, e l'angoscia che li devasta, in espressione poetica, arte, o magari in visione di un'intera dimensione sconosciuta alle menti altrui, avrebbe aggiunto Rimbaud, di cui la poesia non è che il mezzo di raggiungimento.»
Petar non aveva saputo come rispondere, vuoi perché affascinato dall'entusiasmo appassionato trasudante dalla sua voce, vuoi perché pronunciare una qualunque parola di senso compiuto avrebbe fatto troppo male. Era per questo, forse, che gli Ephuri erano in grado di comunicare anche solo con le sensazioni e le emozioni; d'altro canto, anche la sua porta, in quel momento, era rimasta sigillata, vietando ogni uscita così come ogni entrata.
Senza tuttavia attendere parole che non sarebbero mai sopraggiunte, Silviya aveva raccolto con delicatezza il braccio che le era più vicino e, dolcemente, la sua mano aveva preso a ripiegare la manica che lo ricopriva, fino all'altezza del gomito. Petar l'aveva lasciata fare, per la prima volta accalorato, invece che spaventato, dall'interesse altrui per il suo passato solcato dal dolore. Alla Gola, fedele al ricordo della Silviya che era sua amica d'infanzia, era stato terrorizzato dalla reazione che lei avrebbe potuto manifestare nello scoprire ciò in cui l'angoscia negli anni l'aveva trasformato. Non lo era più. Sisi stessa era diversa da come aveva creduto, era anzi forse la persona più simile e al contempo diversa da lui cui si fosse mai approcciato. Era forte, tanto quanto lui era debole, e lo Spleen l'aveva resa bella tanto quanto aveva reso orrendo Petar.
«Sta a chi possiede questo dono, questa sensibilità poetica, dunque artistica, decidere se porgergli la pala per scavare la propria fossa o se, invece, usarla per seppellire il proprio spleen così da renderlo la ripida vetta che permetta di scavalcarlo e di raggiungere l'ideale di pura bellezza cui solo tramite esso è possibile raggiungere» aveva continuato lei, accarezzando con il tocco lieve di polpastrelli gentili una delle sue cicatrici. «Soit toujours poète, même en prose²».
«Sembra una cosa molto bella» aveva risposto lui, ritraendo d'improvviso il braccio, «ma non ne sono in grado, mi dispiace per la fiducia malriposta.»
«La mia forma d'arte è stata la poesia, ma l'arte assume molteplici forme, diverse per chiunque. L'arte è manifestazione di emozioni, l'arte è l'espressione della nostra stessa anima. Ne sono certa, a te l'arte scivola nelle vene, resa tersa dall'angoscia. Devi solo permetterle di scorrere.»
A quel punto i loro occhi erano stati legati da lacci invisibili e in essi Petar aveva scorto la verità, la luce, l'arte di cui lei le aveva parlato.
Solo nella camera devastata dall'azione degli Ophliri, le sue gambe, di nuovo azionate da volontà propria, lo condussero al legno squarciato della chitarra che, segretamente, Silviya le aveva donato un giorno, senza nessuna occasione specifica. Ricordava anche lei Denislav, e l'impossibilità di Petar di assumerne il talento, e lui le aveva confidato, pian piano che si erano avvicinati l'uno all'altra, come avesse sempre desiderato apprendere l'arte di creare la musica.
Donandogliela, lei gli aveva ripetuto quella frase in francese. E insieme, insonorizzando la loro camera e impedendone l'accesso agli altri come stessero complottando qualche oscuro misfatto, aveva iniziato a esercitarsi con massima dedizione. Silviya raccoglieva il suo entusiasmo con cura e delicatezza quando lo sconforto e la paura di non farcela, di non essere in grado, di non essere al livello di Denislav, lo opprimevano al punto da spingerlo a rinunciare. Numerosi erano stati anche i litigi tra loro, per quella stessa ragione. Petar non avrebbe saputo dire chi dei due era stato il più testardo, forse in quello si erano equiparati, perché alla fine il cebrim dell'abilità musicale si era sbloccato e la stupenda espressione artistica dello spleen più assoluto era emersa nella sua forma migliore, ricongiungendolo a Denislav, irrigando il suo viso di lacrime, e unendolo indissolubilmente alla ragazza che aveva iniziato ad amare, in modo sempre più incontrollato, sempre più doloroso.
Ora della chitarra non rimanevano che corde abbandonate alla forza di gravità, che non tendevano più verso il cielo, ma verso la rovina. Lo squarcio frastagliato che l'aveva spaccata in due erano artigli aguzzi che avvinghiavano il suo cuore in una morsa inespugnabile. La afferrò per il manico, cui la sua mano si aggrappò non con la dolcezza che era solito riservargli, ma con la disperazione dell'unico appiglio alla vita rimasto a un naufrago che ancora spera di non essere trascinato via dalle onde violente della tempesta in cui è immerso. Poi il braccio mulinò con un gesto fluido e atono, e quel che rimaneva della chitarra si fracassò sul legno del bordo del letto. Dopodiché lui stesso, scosso dai singhiozzi, crollò al suolo, frammentato in parti del suo essere, le ginocchia a terra graffiate dalle scaglie del suo passato e i palmi scalfiti da ciò che gli era impossibile accettare, il dolore che dal torace si era esteso a ogni angolo del suo corpo.
La chitarra era stata solo un oggetto, quando gli Ophliri l'avevano distrutta assieme ai libri di Silviya aveva fatto male, certo, ma erano riusciti ad arrancare in avanti, aggrappandosi l'uno all'altra, trovando la propria arte nell'affetto reciproco, la loro luce nella speranza di essere scaldati, entrambi, dall'amore di un figlio o una figlia stupenda. Petar era addirittura stato in grado di suonare per gli altri, per Sisi, ma soprattutto per se stesso anche senza chitarra.
Ma non poteva fare nulla di tutto ciò senza Silviya. Non poteva impedire alle sue braccia di afferrare la pala e scavare la propria fossa.
Semplicemente non poteva.
Affondò le dita nel cranio, tra le ciocche insozzate di sudore freddo, e provò a scavare in esso alla ricerca della Speranza, ma non vi trovò che un muro impenetrabile.
Quand la terre est changée en un cachot humide,
Où l'Espérance, comme une chauve-souris,
S'en va battant les murs de son aile timide
Et se cognant la tête à des plafonds pourris³
Era stata Lei a permettergli di trovare una soluzione per salvare Liuben, a ingannarlo tramite l'illusione di ottenere qualcosa di impossibile. E ora l'aveva abbandonato. Così come tutto il resto. Silviya l'aveva portata via con sé nella tomba.
Si alzò e con violenza afferrò e poi scaraventò tutte le macerie che gli capitavano sottomano, ne fracassò altre, e si ferì con le restanti. Non ne poteva più, era giunto al limite. Si sentiva rinchiuso, soffocato, quasi le ragnatele descritte in Spleen avessero davvero tessuto una rete raccapricciante nel suo cervello ormai fuori controllo, sigillandolo in essa.
Et qu'un peuple muet d'infâmes araignées
Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux⁴
Senza via d'uscita. Impossibilitato a percorrere qualunque strada al di fuori di quella da cui Silviya aveva sempre cercato di allontanarlo. Il cielo pesava come un coperchio sulla sua testa, gocce di pioggia inesistente disegnavano sbarre sulla stessa finestra a cui lei si era affiancata per tutti quegli anni.
D'improvviso era di nuovo quel ragazzo sconvolto contro cui erano state rivolte la prima volta quelle parole orribili ma stupende, dalla persona che più amava al mondo. Parole che avevano cambiato la sua vita per sempre, perché avevano messo in luce qualcosa che, una volta scoperto, era impossibile nascondere nuovamente nell'ombra. Ora, le stesse immagini si ripetevano, in un ciclo infinito, dentro alla sua testa, espresse sempre più intensamente dalla voce di Silviya. La realtà intorno a lui si distorceva tra passato e presente, e tra presente e un futuro che mai avrebbe avuto luogo.
«Va bene, allora abbiamo trovato un accordo!» esclamava la voce gioiosa di Sisi accovacciata sul loro letto, carezzando con mano gentile la leggera prominenza del suo addome. «Denislav se sarà un maschio, e...»
«... Ana se sarà una femmina» aveva concluso lui, facendo sfiorare le loro fronti in gesto affettivo. Avevano discusso a lungo sull'importanza che ognuno di quei nomi rappresentava per l'uno e per l'altra.
«Sicuro di non preferire Arthur?» aveva tentato ancora lei, prima di scoppiare in una risata leggera, a significare che non intendeva dire sul serio, e anche lui aveva sorriso lievemente, prima di distogliere lo sguardo su di lei per spostarlo sul soffitto, ora marcescente, sopra di lui, la mente che già mirava a un futuro più roseo di quello in cui già aveva l'onore di abitare. Sciocca frasca.
Cos'avrebbe dato per riavere indietro quel passato, per poterlo stringere tra le braccia così da impedirgli di fuggire da lui. Quel futuro che avevano sognato insieme, in cui avrebbero dato luogo al loro nucleo familiare, non aveva più modo di esistere. Non era che l'ombra di un pipistrello, ormai perito. La bambina, Ana, attendeva solo suo padre, lì di sotto. Attendeva una famiglia spezzata, un affetto infranto, un ramo ormai marcito.
No. Non gli avrebbe trasmesso la sua putrefazione, non avrebbe contagiato la figlia di Silviya con lo stesso male che aveva devastato il sogno di un piccolo ma speciale nucleo familiare. Non era in grado di amarla, in lei non avrebbe visto mai altro al di fuori di ciò che gli aveva portato via Silviya. Meritava una vita vera, meritava tutto ciò che lui era impossibilitato a dargli. Era per lei che si era arreso definitivamente allo Spleen, perché la detestava e la amava immensamente al tempo stesso.
Forse era solo un modo per convincersi che fosse la cosa migliore, forse era solo per non ammettere che ogni attimo di più trascorso a respirare l'aria di quella camera, più rarefatta di quella emessa dall'incendio che aveva devastato l'Ephia, gli provocava fitte lancinanti al corpo intero. Nemmeno più il dolore fisico era in grado di sommergere le grida del suo spirito; ferirsi con le macerie del suo passato non era nemmeno paragonabile alle fitte che questo gli provocava con la sua semplice esistenza.
Si alzò, affaticato, sulle gambe ancora tremanti, pervaso nuovamente dall'istinto di fuggire in un altro angolo putrido di quella prigione di lacrime, salvo poi rendersi conto che non ne aveva voglia, non aveva più la forza nemmeno di spostarsi.
Il dolore irradiato dal petto, all'altezza del cuore, era più forte di ogni altra cosa.
Era stanco. Voleva solo farla finita.
Et de longs corbillards, sans tambours ni musique,
Défilent lentement dans mon âme⁵
Già li sentiva. Tamburi muti e i lunghi trasporti funebri, intessuti dagli stessi filamenti che ormai gli annebbiavano il cervello. Avevano vinto, la pala era andata allo spleen infine, e Petar lo stava aiutando a scavare una cavità sempre più profonda.
Fu trascinato di nuovo ai resti del suo letto, e lì si distese, a fissare nuovamente il soffitto. A momenti sentiva quasi Silviya accanto a sé, percepiva le dita di Denislav danzare con le corde della sua chitarra, mentre Liuben giocava tranquillo in un angolino, più sorridente che mai.
Inspiegabilmente, anche se non ne aveva il minimo motivo, sorrise. Un sorriso vero, aperto, colmo di felicità. Era finita, presto tutto sarebbe finito. Presto la sofferenza stessa sarebbe finita. Rise, persino. Quanto tempo era passato dalle sue ultime risa? Ormai non gli sembrava restasse nient'altro da fare che ridere. Ridere per la gioia di aver finalmente trovato la facile soluzione, la stessa che l'aveva cercato per anni, e che lui si era limitato solo ad accarezzare, ignaro e stolto.
l'Espoir,
Vaincu, pleure⁶
L'albero devastato dal gelo della tempesta; Silviya che gli sorrideva; il canto della chitarra inesistente la notte di Capodanno; la fuga di Violeta; la scomparsa di Aleksander, Konstantin e Hristo; il parto di Sisi; la vita e la morte che si davano la mano, come due vecchie compagne; e il ramo, solo e martoriato, unico superstite della tempesta. Queste e centinaia di altre immagini si rimescolavano disordinate e caotiche nella foresta del suo cervello, in un intrico nodoso cui aveva creduto fosse impossibile sfuggire.
E invece non era così. Tutto si quietò, pervaso da un improvviso silenzio. Le sue dita si erano appena chiuse su un minuscolo triangolo d'alluminio, dalla punta aguzza. Anche dopo tutti quegli anni, non aveva mai abbandonato la sua tasca.
et l'Angoisse atroce, despotique,
Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir.⁷
I suoi occhi, quasi non gli appartenessero, fissarono un ultimo secondo il plettro nero che riluceva riflettendo la luce nivea emessa da fuori. Una sola, piccola, indecisione, motivata dalla ragione stessa che l'aveva portato a quel punto, che aveva ricongiunto il plettro, vittorioso, alla sua anima.
Gli stupendi zaffiri neri incastonati tra le ciglia lunghe di Silviya, che, affaticata, si volgeva a lui, per sussurrargli, con le sue ultime forze rimanenti, la stessa frase che aveva cambiato la sua esistenza in passato, quella che gli aveva permesso di trovare la bellezza prodotta dalla più atroce angoscia: Soit toujours poète, même en prose.
Soit toujours poète, même en prose.
Soit toujours poète, même en prose.
Continuò a echeggiare nel cranio, sconquassando ogni certezza, devastandolo con inudibili grida pregne di emozioni indescrivibili.
"Mi dispiace Sisi, ti ho deluso" pensò, mentre la mano che impugnava l'arma dell'inferno – o del paradiso? – veniva scossa da violenti tremori e, arresa, crollava sul materasso, tendendo il plettro al cielo. Le fitte al cuore, estese fino alla punta delle dita, erano più lancinanti di tizzoni ardenti.
Aveva pensato che fosse necessario usare il plettro, ma la verità era che non ce n'era nemmeno il bisogno. Era il suo stesso corpo, esausto, arreso definitivamente allo Spleen, che avrebbe posto fine alle sue sofferenze. Una parte di lui si era sempre rifiutata di accettare ciò che, in fondo, il suo cuore aveva sempre desiderato. Ogni volta aveva scelto di sguazzare nel dolore, rifiutandosi di scendere nel profondo abisso inesplorato che c'era di sotto. Ora, privato della sua forza già claudicante, il vetro fragile si era finalmente crepato. Non v'era più nulla a tenerlo legato alla vita.
Petar desiderava solo dormire, e non risvegliarsi più.
La sua testa si rovesciò indietro, oltre il bordo del materasso. La vista si annebbiò.
Nell'oblio muto, risuonò il fragore di uno strappo lacerante.
Un vecchio ramo, finalmente distaccatosi dal suo albero, crollò inerte al suolo.
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