19.Zaedno
Gli occhi fiammeggiano, il sangue canta, le ossa si dilatano, scorrono lacrime e rossi zampilli.
-Parata-
(Rimbaud)
Gamsutl, Russia, gennaio 1996
Aleksander sentiva l'opprimente nostalgia del mare, e del sole cocente. Erano praticamente passati da una gelida vetta innevata, a una seconda vetta... altrettanto innevata. Non che gli dispiacesse il freddo, dal momento che, come Ephuro, era un gioco da ragazzi evitare che congelasse le ossa e seccasse la pelle, quanto proprio per la sensazione bianca e spenta con cui questa lo inondava, così diversa dagli spruzzi spietati dalle onde dispettose sue amiche e dalla sabbia che, seppur fastidiosa, ammorbidiva ogni aspetto della vita. Era stato forgiato dalla spuma del mare e aveva sempre respirato vento che sapeva di sale. Non poteva farci niente, quello non era il suo territorio.
Erano atterrati, velati da un'illusione, direttamente all'interno della piccola città Letargiante abitata da circa una ventina di persone, numero diminuito ulteriormente da quando ci era stato l'ultima volta. Subito le rupi innevate che si confondevano con le abitazioni in argilla, alcune delle quali estrapolate dalle stesse sfruttandone i materiali, li osservarono aspre e severe, da dietro le finestre buie, sovrastate da coperture ormai inesistenti o devastate dagli agenti atmosferici che il tempo aveva sferrato su di loro, malleandone le forme così da farli apparire nidi di rondine incastrati tra le rupi più che antiche costruzioni umane.
Quel villaggio inespugnabile ancorava lassù le sue radici fin da quando i khan àvari del Caucaso settentrionale vi si erano insediati assieme alle proprie famiglie e ai guerrieri. Erano poi state trovate diverse tracce anche di altre etnie che dimostravano che nei secoli le sue case scolpite nelle rocce erano state abitate da diverse popolazioni, forse come rifugio. Situato all'altezza di 1418 metri sulla cresta del monte Gamsutlmeer, collegato al resto del mondo solo tramite uno stretto sentiero di montagna, non era infatti mai stato conquistato da nessuno - esclusi, ovviamente, gli Ophliri che vi abitavano all'insaputa dei Letargianti - e con il tempo, anche a causa di problemi logistici derivati dall'isolamento dal resto del mondo, per via di frane e difficile reperibilità di risorse, le case avevano preso a svuotarsi e la natura aveva prevalso, iniziando a riprendersi ciò che era suo di diritto. Alcuni, imperterriti, abitanti, forse affezionati alla quiete di quelle case spoglie e all'aria pulita del monte, ancora non si ostinavano ad abbandonare le loro abitazioni. Aleksander da giovane era diventato amico di alcuni di loro, prima di conoscere Vladimir, quando ancora non trovava di meglio da fare che sgusciare via da quella prigione alla ricerca di un po' di vita da respirare.
Ritrovarsi a passeggiare per quelle strade dimesse e austere dopo tutti quegli anni evocava in Aleksander un subbuglio di emozioni avvolte tra loro in un intrico nodoso, che lo rendeva inquieto e teso. Si sentiva, in un certo senso, fuori dal suo corpo di ventottenne, padre, marito e quasi zio, come se il giovane Aleksander fosse rimasto intrappolato, al pari di uno dei tanti fantasmi, dentro una di quelle casette vuote, o magari sotto un cumulo di neve e rovi. Tentava di riprendere possesso di lui, respirare con i suoi polmoni e camminare con le sue gambe, ma questo gli era impossibile, perché Sasho era cambiato troppo, le esperienze che lo avevano forgiato ormai lo distaccavano irreparabilmente da quelle rupi pescate dal suo passato e catapultate intorno a lui come uno strano scherzo del destino.
Se anche solo un mese prima qualcuno gli avesse detto che un giorno sarebbe tornato in quell'inferno di sua spontanea volontà, lui gli avrebbe sicuramente indicato la strada più diretta per il Prophaneum più vicino - una sorta di manicomio Ephuro in cui venivano rinchiusi coloro cui veniva profanato lo Jutnos -, temendo che qualche nemico crudele gli avesse alterato la mente seminandovi il seme della pazzia.
Invece eccolo lì, più pronto che mai a sfruttare ciò che aveva imparato con il solo fine di salvare la sua famiglia, anche se questo significava infiltrarsi in uno dei luoghi più pericolosi del mondo.
Ciò che nessuno dei Letargianti vedeva, difatti, era l'enorme roccaforte che divorava diverse abitazioni e si sporgeva imponente dal precipizio. In apparenza costituita di materiali simili alle casette in rovina di Gamsutl, la prigione Ophlira dominava l'intera montagna al pari di un sovrano geloso dei propri averi e della propria posizione, che non intendeva cedere né alle bufere di neve né ai gelidi venti invernali del Daghestan. Tanto bella da vedere, con guglie che si innalzavano vittoriose e fiere a solleticare i ventri delle nubi candide, quanto minacciosa per l'opprimente aura emanata dagli stendardi Ophliri e Razumov, affissi come condanne a morte e avvertimenti. Non rilassava gli occhi con colori caldi o accesi, nemmeno una luce che spargesse il suo alone a tingere la neve. Dalle finestre non venivano emanate né risa né chiacchiere, appariva per lo più bendata da un silenzio giudicatore; tuttavia, anche senza aguzzare l'orecchio, si potevano percepire le irregolari grida dilaniate dei prigionieri che lì venivano torturati, la cui diffusione sonora veniva permessa con il fine di irradiare paura agli altri carcerati, o ai novellini appena trasferitisi. Nell'udire quell'orribile suono sgradevolmente familiare, ad Aleksander sembrò di tornare il bambino che di notte era solito avvolgersi stretto le coperte intorno alle orecchie nell'inutile tentativo di allontanare le voci straziate da sé, e che talvolta si occupava di tirare su il morale di Sisi quando lei scoppiava a piangere, esasperata. Anche dopo aver sviluppato i cebrim di immunità uditiva, le grida parevano aver intriso le insenature tra i mattoni che componevano i muri della camera, continuando così a soffocare i loro sogni.
«Ci siamo» disse con tono risoluto, rivolto esclusivamente all'enorme roccaforte. Si trattava di una sfida personale, sì per salvare Violeta, ma anche per fare i conti con se stesso e il suo passato, per dare un senso al periodo di vita lì trascorso, per volgere a suo vantaggio quel poco di positivo che poteva averne ricavato, e che forse avrebbe potuto aiutarli a adempiere al loro obiettivo.
«Non capisco: perché non c'è nessuna illusione per gli Ephuri a velare la vista della prigione?» chiese Konstantin. Si erano celati tutti dietro il muro di una delle casette, a osservare di nascosto l'enorme struttura.
Aleksander fece per rispondere, ma Denali fu più veloce: «Le prigioni Ophlire generalmente sono velate soltanto agli occhi dei Letargianti perché raramente contengono Arkonanti catturati, le strutture come questa sono riservate ai ribelli e agli oppositori del Consiglio. Quindi gli unici che possano sperare di infiltrarvisi sono Umanenti, i quali già tutti sanno della sua esistenza».
«Esatto» confermò Sasho, non senza una lieve stizza derivata dal tono distaccato che l'Ophlira aveva assunto parlando di ribelli e oppositori del Consiglio, come se loro stessi non lo fossero. «Seguitemi»
Muovendosi adiacente alle abitazioni, si infiltrò rapido tra le insenature più strette, scegliendo quelli che sapeva bene essere i punti ciechi delle vedette della prigione, la quale esternamente non era comunque molto sorvegliata dal momento che non si aspettavano di certo un attacco dalla città Letargiante.
«La struttura della prigione inizialmente non era adibita a questo scopo» spiegò a Konstantin e Hristo, ignorando appositamente gli altri Ephuri presenti, «si trattava di una rocca Letargiante, che quindi non era predisposta a proteggere dalla città, ma a proteggerla dall'esterno; per questo, anche dopo la restaurazione non vi sono stati posti molti controlli rivolti al villaggio. Comodo, no?»
Scesero, tra viuzze dimesse e vicoli innevati mal tenuti, fino a giungere innanzi a una base del retro, posta nell'insenatura tra due torri, una zona che sembrava abbandonata, perché velata dai rami ritorti di una pianta rampicante morta su cui si era adagiato un spesso manto di neve. Senza esitazione divelse i rami e direzionò la neve da un'altra parte, per rivelare ciò che era nascosto dietro: una porta sigillata.
«Spero che il tuo piano possa funzionare, Ivanov» fece Denali, mordendosi il labbro inferiore.
«Grigorov, grazie» precisò, con voce affilata. Certo, il suo nome era ancora quello, ma non era lo stesso che aveva trasmesso ai suoi figli, e soprattutto non era più quello in cui lui sentiva di identificarsi. Era un Grigorov, ed era lì per salvare sua cognata.
"Mettete i vostri Destabilizzatori" comunicò agli altri, afferrando a sua volta il proprio dalla tasca. Si trattava di un piccolo casco metallico fornito dagli Ophliri Long, con delle cuffiette incorporate al suo interno.
Posò la mano sulla serratura. «Appena attiveremo i nostri Destabilizzatori diventeremo a tutti gli effetti dei Letargianti, per cui non vedremo più questa porta così come l'intera struttura. Però, al tempo stesso... non faremo scattare nemmeno nessun allarme perché i Letargianti di solito vengono spinti da determinate illusioni mentali più intrusive a girare alla larga dalla rocca, anche senza sapere della sua esistenza. È a queste ultime che dovremo fare attenzione, per questo suggerisco un'azione il più rapida possibile.»
«Tu pensi che... se riuscissimo ad aprire la porta prima che le illusioni dissuasive facciano effetto, riusciremo a ritrovarci dentro senza allertare nessuno?» chiese Denali, le sopracciglia incurvate a dare forma a un'espressione concentrata, ragionando forse sui rischi del piano.
«Non lo penso, so che è così. L'ho fatto un paio di volte.»
«Che cosa?!»
Ignorandola, fece segno agli altri di avvicinarsi. «Toccate la porta» li informò, «e non lasciatela per alcun motivo, ne andasse della vostra stessa vita.»
In quel modo le illusioni mentali avrebbero impiegato più tempo a fare effetto, perché si sarebbero trovate a deviare la razionalità che contemplava l'esistenza di ciò che era toccato dalle loro mani. Quando tutti si furono appostati, estrasse un fil di ferro e lo infilò nella serratura. Doveva far sì che la sua mano compiesse il gesto di scassinare la serratura in automatico, ignorando l'ordine che presto sarebbe giunto dalla sua stessa mente di allontanarsi di lì. I neuroni impiegavano un certo periodo di tempo, minimale, per trasferirsi dalla testa alla mano. L'obiettivo era quello di sfruttare quel minuscolo istante per aprire prima che la sua mente suggerisse qualcosa di diverso, e non poteva farlo subito perché altrimenti sarebbero stati rilevati come Ephuri.
«Ora!» esclamò, cliccando a sua volta il pulsante che azionava il Destabilizzatore. Il suono straziante dilaniò il suo cranio, ma prima che questo potesse disgregare le sue facoltà mentali, ruotò l'esperto polso scassinatore. Non udì il clock della serratura che cedeva, perché ottenebrato da quel caos insopportabile che distorceva tutto intorno a lui. Perché si trovava lì? Era in mezzo al nulla, per quale motivo stava premendo in avanti? E che cosa stava premendo esattamente?
Non c'era altro che neve e il gelo lo colpiva con sferzate gelide, doveva correre a coprirsi. Se avesse continuato così, la spinta lo avrebbe fatto cadere sprofondando nella neve e... barcollò con le mani in avanti che non incontrarono altro che il vuoto, mentre i suoi piedi calpestavano un'area rigida. In quell'esatto momento il suo palmo si adagiò su una superficie di ghiaccio tramite la quale la realtà si dipanò tutt'attorno a lui più rapida e violenta di una secchiata d'acqua gettatagli addosso per svegliarlo da un sogno.
Si trovava in uno stretto e lungo corridoio inghiottito dall'oscurità sempre più densa man mano che si allontanava dalla luce emanata dall'apertura da cui erano entrati, e lo strazio che si infiltrava nelle sue orecchie era sempre più fastidioso, quasi doloroso.
Doveva muoversi. Si fece largo tra gli altri Ephuri confusi che si affacciavano alla realtà, raggiunse la porta e la chiuse con un tonfo, sopprimendo l'ultimo spiraglio di luce e immergendoli così nel più completo nero assoluto. Aveva quasi dimenticato cosa si provasse a non vedere praticamente niente di niente. Con le mani si tastò il capo, individuando immediatamente il casco. Non appena lo ebbe sfilato, il suono straziante ebbe finalmente fine e i suoi occhi si adattarono in un attimo all'oscurità, il cebrim visivo attuato in modo automatico. Anche il freddo scomparve, sostituito da una temperatura corporea media ed equilibrata, che quasi mai i Letargianti erano in grado di raggiungere. Prese un respiro profondo, assaporando la sensazione di essere Ephuro, e soprattutto di essere tornato in sé stesso.
«Levatevi i caschi!» esclamò, notando che alcuni non l'avevano fatto. I Destabilizzatori erano impostati a una frequenza bassa, atta a disattivare i cebrim ma non elevata al punto di far perdere i sensi; tuttavia, era preferibile, per sicurezza, indossarli il meno a lungo possibile.
«Complimenti, ha funzionato» notò Denali guardandosi intorno. «Hai avuto un'ottima idea.»
Lui piegò le labbra in un sorriso sarcastico. «Non è stata una mia idea.»
Quale divertimento migliore, per due bambini che abitavano in una prigione, di giocare a Guardie e Ladri? O meglio Ophliro e Prigioniero, ma faceva lo stesso. L'ambiente circostante li aveva aiutati a creare modi arguti e originali per simulare situazioni non reali, non avrebbe mai immaginato che quei metodi ideati per gioco un giorno gli sarebbero davvero tornati utili.
«Non riesco a crederci, l'abbiamo fatto davvero!» esclamò stupefatto un giovane Ophliro. Aleksander, d'altro canto, non ne era affatto sorpreso, e non sentiva di aver ottenuto un qualche tipo di vittoria eclatante. Quello era stato facile, era ciò che lo attendeva lì dentro a spaventarlo per davvero.
«Andiamo» disse semplicemente, inoltrandosi nel corridoio buio.
Aleksander aveva i suoi sospetti sulla zona entro cui avrebbe potuto essere custodita Violeta. Trattandosi di una prigioniera speciale, Maksim poteva aver scelto di detenerla in una cella isolata dalle altre, una tra quelle che si trovavano in cima alle torri, che vantavano la fama peggiore.
Il problema consisteva nel fatto che quelle erano anche le più difficili da raggiungere, e inoltre, non sapendo in quale di preciso si trovasse, avrebbero dovuto verificarle tutte, senza farsi scoprire. In questo gli sarebbero stati decisamente utili gli Ophliri Long. Certo, dal momento che si trattava della residenza Razumov di Maksim, coloro che vi lavoravano ci abitavano anche, e perciò si sarebbero potuti insospettire di volti sconosciuti; d'altro canto, la verità era che il complesso era talmente vasto, e gli Ophliri di Maksim così tanti, che era possibile dimenticare qualche viso ogni tanto. Era comunque un rischio, ma valeva la pena di correrlo.
Mentre Aleksander e i due Metephri si nascondevano in un luogo che sapeva essere sicuro - nientemeno che la vecchia cameretta in cui avevano alloggiato lui e Sisi, ora disabitata -, Denali e i suoi andarono in perlustrazione, restando però in contatto mentale con lui e trasmettendogli ciò che vedevano i loro occhi. Era strano vedere in così tanti luoghi contemporaneamente, ma la natura polifunzionale Ephura lo fece abituare in fretta, e gli permise di aiutare gli Ophliri infiltrati.
"Non di là, devia a destra", "Passa a sguardo basso senza parlare con nessuno, in quest'ala del castello generalmente gli Ophliri non sono molto loquaci", "Nasconditi immediatamente, è l'ora del cambio guardia, non devono notarti". Trascorse così una buona mezz'ora di tempo, guidando a distanza i loro movimenti e preservandone la sicurezza tramite la sua esperienza del posto, passando in un attimo dall'uno all'altro, senza nemmeno perdere la concentrazione. In quel momento non si sentiva molto diverso dagli hacker che nei film americani gestivano le missioni di infiltrazione a distanza tramite le telecamere di sicurezza o le piante delle strutture governative. Era quasi divertente. Potevano farcela, pensò quando fu individuata la cella giusta. Forse potevano davvero farcela.
Non desiderava altro che riabbracciare Yordanka e i loro figli, conoscere suo nipote e tornare a essere la famiglia che non gli era più stato permesso di essere.
Quando tutti gli Ophliri si furono ricongiunti nella loro camera, organizzarono il piano d'azione. Aleksander, Hristo e Konstantin avrebbero indossato le redingote blu per raggiungere il punto designato insieme agli altri poi, una volta giunti nell'area, avrebbero affisso un potente destabilizzatore che avrebbe fatto perdere i sensi a tutti gli Ephuri presenti - esclusi i prigionieri nelle celle insonorizzate, e loro stessi, muniti delle opportune protezioni. Dopodiché, avevano giusto il tempo di raggiungere la cella di Violeta e aprirla, facendo però scattare l'allarme. A quel punto, per uscire indenni avevano previsto di gettarsi direttamente dalla torre nello stesso modo in cui erano entrati, ovvero destabilizzandosi il tempo utile a superare gli scudi e poi riattivando i cebrim necessari a non fracassarsi i Cerebrum sulle rupi frastagliate. Non aveva mai provato quel trucchetto dall'interno ma, anche se era terrorizzato di fallire, dovevano tentare comunque, perché non gli affioravano in mente altre idee sufficientemente sensate.
Dovevano rischiare il tutto per tutto.
Così iniziarono a dirigersi, lesti, grazie alle sue indicazioni, e forti delle armi destabilizzanti fornite dagli Ophliri. Avevano tutti i mezzi necessari per farcela, ma era sufficiente una qualunque piccolezza per infrangere ogni loro piano. Tutto sembrava osservarli: le mura in mattoni, i sontuosi corridoi labirintici dai soffitti arcati in alcune zone e decorati in altre, immersi nella perenne penombra che, proprio come ricordava, sempre copriva quegli ambienti, appesantendo l'animo di chi vi abitava. Era un incubo ritrovarsi all'interno di quella rocca, la gola si era seccata e ogni nervo del suo corpo era teso come una corda di violino. Non permise tuttavia a nessun ricordo opprimente di dominare le sue azioni, il desiderio di porre fine alle sofferenze della sua famiglia superava ogni altra cosa.
Quando giunsero innanzi alla porta tramite cui si accedeva all'ala del castello destinata alle celle di massima sicurezza in cui avevano individuato la posizione di Violeta, gli sembrava di aver percorso chilometri, o perlomeno di aver rivissuto ogni singolo attimo trascorso lì dentro in gioventù un milione di volte a ogni passo compiuto.
"Mi raccomando" attirò la loro attenzione Denali, "dobbiamo entrare con la massima tranquillità, siamo Ophliri come tanti altri. Così, quando meno se lo aspetteranno, attiveremo il Destabilizzatore. Facciamo vedere a questi idioti chi siamo".
Gli altri annuirono, convinti ed esaltati dal breve discorso motivazionale. Si trattava della parte più difficile del piano, ma era pensato tutto talmente nei minimi particolari che era improbabile sbagliare qualcosa. Lui e Denali si scambiarono uno guardo d'intesa - forse la prima volta che iniziava a esserle leggermente meno insopportabile -, poi lei aprì piano la porta, affiancata dai suoi Ophliri e seguita a pochi passi da lui, a sua volta affiancato da Konstantin e Hristo.
Entrò con tutta la calma possibile necessaria alla riuscita del piano, sicuro che in tal modo nulla sarebbe andato storto. Neanche un secondo dopo, però, l'anta si chiuse da sola dietro di loro, risuonando in un tonfo sinistro.
Dopodiché, si sentì pizzicare ogni poro della pelle.
Prima di realizzare cosa ciò significasse, fece appena in tempo a percepire l'imponenza di una consistente massa di mens diretta verso di loro.
In un attimo ne furono pienamente investiti.
Percepì solo il dolore lancinante della schiena che si schiantava forte sull'anta della porta e... il peso del corpo di Denali lanciato con la medesima violenza sul suo.
Gridò per il dolore e, precipitato a terra, il cuore che infuriava terrorizzato nel petto, tentò di scostare la donna per potersi alzare. Lei non mosse un solo muscolo, gambe e braccia abbandonate inermi come se...
Era morta. Il corpo rotolò via dal suo, pesante e privo di vita come un sacco di patate. Deglutì, mentre la sua mente stentava a realizzare ciò che stava accadendo davanti ai suoi occhi. Sia Denali che altri quattro Ophliri, posti innanzi agli altri, giacevano inermi a terra. Sollevò d'istinto lo sguardo, mentre mille domande senza risposta gridavano sgomitando e calpestandosi a vicenda dentro lui, condensandosi in un unico grande quesito: come era potuto accadere?
Innanzi ad Aleksander e ai sopravvissuti, sette Ophliri, tre da un lato, tre dall'altro, e il settimo al centro, posti a freccia con la punta nella loro direzione, avevano appena concluso la sincronia grazie alla quale erano stati investiti con quell'onda mortale di mens, che aveva lasciato alle sue spalle un pesante odore di sconfitta.
Il suo cuore perse un battito.
Nella posizione corrispondente alla punta della "freccia", riservata all'Irruente, si trovava un giovane uomo dai capelli biondi raccolti in un codino basso, i profondi occhi castani scuri fissi nei suoi, più affilati di mille lame roventi conficcate nel petto.
«Pensavi davvero di potermi sconfiggere con le mie stesse armi, Alek?» chiese Vladimir Razumov, il viso distorto da un ghigno divertito.
«T-tu...» provò a biascicare senza trovare la forza di rispondere, ancora troppo vivida la sensazione del corpo privo di vita di Denali sul proprio, troppo sconvolgente quell'attacco improvviso che aveva spazzato via ogni traccia di speranza appena riacquisita, troppo dolore, troppo tutto.
Per anni aveva immaginato un possibile incontro con Vladi, chiedendosi cosa gli avrebbe detto. Mai, mai avrebbe supposto simili circostanze.
«Oh, allora ti ricordi di me?» rispose lui, con recitato stupore. «Il ragazzo che hai manipolato a tuo piacere solo per il gusto di avere un Adelpho? Sono onorato.» Si prodigò in un inchino teatrale.
Le sue parole erano prive di senso, perché immesse a forza nella sua testa dal padre, a cui ormai somigliava così tanto da sembrarne la copia in versione più giovane.
«Vladi, io...»
C'erano almeno un migliaio di cose che avrebbe potuto dirgli, ma era talmente sfinito, esausto sia mentalmente che fisicamente, che tutte gli parevano inappropriate. Ad affermare che suo padre gli aveva inculcato in testa idee non sue non avrebbe ottenuto che l'effetto opposto, a implorare perdono per peccati che non aveva commesso, sempre il medesimo risultato. Tutto ciò a cui riusciva a pensare era che aveva fallito, miseramente fallito. A causa sua, Violeta non avrebbe mai più messo piede fuori di lì, Konstantin e Hristo sarebbero stati condannati insieme a lui, e non avrebbe mai più riabbracciato i suoi bellissimi bambini, non avrebbe mai conosciuto il suo nipotino o la sua nipotina in procinto di venire alla luce. Più di ogni altra cosa, a dilaniarlo era la consapevolezza che non avrebbe avuto modo di rivedere Yordanka, né di battibeccare con lei, di litigarci anche e, soprattutto, di concludere la sua bellissima e tormentata vita al suo fianco, fino alla vecchiaia.
Insieme.
Il suo stesso passato, che aveva pensato di sfruttare a proprio vantaggio, gli si era rivoltato contro, frantumando ogni speranza di poter riuscire in quella missione disperata.
«Niente da dire? Bene, tanto non mi andava di chiacchierare» rispose Vladimir, il tono leggero ma lo sguardo congelato in un ghiaccio spietato. Fece un breve cenno agli Ophliri che lo affiancavano. «Uccideteli tutti. Tranne lui. Lui è mio.»
L'ultima frase gli era stata rivolta con il dito nodoso del russo puntato contro, condita di un marcato sadismo che, più che spaventarlo, gli strinse il cuore e bruciò il polso un tempo testimone, per breve tempo, del legame che li aveva uniti in uno solo.
«Che cosa sei diventato?» riuscì finalmente a trovare la forza di chiedere, mentre gli Ophliri Long sopravvissuti si mettevano in posizione di difesa, pur essendo in significativa minoranza numerica.
«Sono ciò che sarei sempre dovuto essere» rispose lui, avanzando di un passo nella sua direzione.
D'altra parte, non riusciva nemmeno a trovare la forza di sollevare le ginocchia da terra, ancora poco distanti dal corpo di Denali.
Vladimir gli provocava un'immensa pena, non solo per il dolore del loro legame spezzato, ma a causa del suo fallimento come essere umano. Anzi, come Ephuro. Chissà cosa avrebbero pensato i loro antenati ormai dimenticati - non la versione distorta assunta dai Delphini - del modo in cui si era ridotta la loro specie? Proprio coloro che avrebbero dovuto perseguire la sacra aspirazione a un futuro reso più luminoso da Cerebrum immensi, e privi di condizionamenti, di catene che ne limitassero la funzione, erano gli stessi a sprofondare nei baratri più profondi delle loro menti, scavati per mano propria, per giunta. Vladi in passato era riuscito a elevarsi, a sfiorare il tetto della libertà dai vincoli imposti da suo padre, ma ormai era caduto più in basso di quanto avesse mai ritenuto possibile.
Poteva forse esserci verso per lui di ritrovare se stesso, dopo anni di convincimento opposto? Dopo strati e strati di torture fisiche e psicologiche che ne avevano inasprito lo spirito e arso ogni spiraglio di empatia?
«Sono ciò che tu hai ingiustamente tentato di impedire che diventassi» continuò Vladimir, muovendo un altro passo in avanti, mentre con la coda dell'occhio scorgeva gli Ophliri intorno a loro imperversare in scontri violenti.
«Sono un Razumov» concluse il suo vecchio Adelpho, ingobbendo le spalle per alzare i gomiti, le dita delle mani che si piegavano lentamente come per carezzare fili invisibili. Appena si rese conto che stava compiendo un Movimento, un inaspettato e disperato istinto di sopravvivenza spinse la sua mano destra ad afferrare il manico della spada che portava agganciata alla cintura.
L'attimo dopo stava menando un fendente rapido e preciso verso una delle sue braccia. Prima che potesse sfiorare la sua redingote blu, tuttavia, la mano di Vladimir aveva afferrato la lama. La strinse forte, con rabbia, come se nemmeno percepisse il sangue che dal palmo discendeva lungo il metallo. Il suo viso colmo di furore era rivolto unicamente a lui.
«Speravo avresti combattuto» disse, disarmandolo con una semplice rotazione del polso, «non c'è nulla di meglio di una preda condannata che tenta lo stesso di avere salva la vita, fino all'ultimo. Soprattutto se quella preda sei tu.»
Ormai la spada era caduta lontana, con un tintinnio. Ad Aleksander non restavano altre armi che le proprie mani, contro le abilità da Ophliro del suo avversario. Deciso a non arrendersi, lanciò un rapido sguardo intorno a sé. Non sapeva nemmeno perché combattesse, cosa sperasse di ottenere. Se fosse sopravvissuto a Vladi, a recidere la sua vita sarebbe stato uno qualunque degli altri Ophliri presenti. Se anche, per miracolo, avessero sconfitto tutti gli aggressori di quella stanza, ci avrebbe pensato l'intera popolazione della prigione, ormai allertata, a finire il lavoro.
Eppure, combatté. Il suo avversario sferrò un rapido e preciso calcio verso il suo viso, così lui reclinò indietro la schiena e il capo, percependone solo lo spostamento d'aria provocato sopra di sé. Caduto ormai a terra, rotolò su se stesso fino a raggiungere il corpo di un Ophliro morto, da cui sfilò una piccola lama. Schivò per un pelo un altro paio di colpi, poi con una furia cieca si lanciò su Vladimir, deciso ad affondare il pugnale nel suo cuore ritorto e ammuffito.
Non era più il suo amico, il suo Adelpho. Era l'uomo che lo aveva tradito, che lo aveva intrappolato e che avrebbe causato la rovina della sua famiglia e dei suoi amici. Non si era accorto, però, che Vladimir aveva avuto il tempo di far danzare gli arti e il dorso in un rapido Movimento, concluso proprio mentre si gettava in avanti.
Un dolore lancinante esplose nel suo petto, nelle sue braccia e nell'intero corpo, sottopelle, come un veleno che prese a espandersi ovunque, coprendo ogni altra cosa. Gridò e perse ogni forza crollando nuovamente a terra, mentre in lontananza, come distante chilometri, sentiva Konstantin chiamare disperato il nome di Hristo.
«Uno dei miei Movimenti preferiti» sghignazzò malevolo Vladimir, ridendo del dolore che, sempre più profondo, dilagava dentro di lui. Cosa gli aveva fatto? Si sentiva gradualmente sempre più demolito, corroso, dissanguato senza che una goccia di liquido carminio sgorgasse da lui. «Morirai, lentamente, soffrendo, in modo da poter assistere al tuo totale fallimento.»
Fallimento. Quella parola riverberò in lui, mentre il Razumov indicava con un gesto gli scontri in atto, che si erano ormai tramutati in una vera e propria carneficina. Proprio in quel momento, Konstantin venne trafitto da una lama mentre tentava di raggiungere il corpo inerme di Hristo, riverso scomposto a terra, la vita già spirata da lui.
Aleksander avrebbe voluto gridare, per il dolore, per la rabbia, per tutto quanto, ma non ne trovò nemmeno la forza. I mens sembravano esplodere dentro di lui, come tante granate l'una attivata dalla precedente, la pelle che cominciava a farsi livida e tremante, le forze che sciamavano e il cuore che danzava disperato nel petto la musica dei suoi ultimi battiti, feroci come belve.
Il furore cieco infine ebbe il sopravvento. Non aveva intenzione di restarsene fermo a guardare il mondo crollargli intorno anche negli ultimi attimi di vita. Arrancò in avanti, gattonando, fino a raggiungere il corpo freddo di Denali, mentre il suo prendeva già a deteriorarsi e il dolore a farsi sempre più insopportabile.
La risata di Vladimir copriva ogni altra cosa.
Sfilò un corto pugnale con la lama arcuata da una tasca dell'Ophlira morta e ne strinse il manico con tutta la forza che gli rimaneva.
Vladimir non poteva vederlo, gli dava le spalle. Così rideva sguaiatamente, indisturbato, vittorioso. Inconsapevole di essere così vicino alla fine della sua vita. Per mano della stessa persona che aveva tentato di donargliene una migliore.
Aleksander non era un assassino, non uccideva solo per capriccio, né per vendetta. Sentiva solo che era la cosa giusta da fare. Per Konstantin. Per Hristo.
Si voltò in tralice verso di lui, ancora in piedi, imponente e splendido nella sua redingote. Per Petar. Per Silviya e il loro bellissimo bambino che stava per nascere.
Per Georgi, Ran, Kiril e Ilia.
Racimolò tutte le sue ultime forze, dandosi anche lo slancio con la voce, e si sollevò, rapido come un demone. Per Yordanka.
La lama trafisse, improvvisa e spietata, la carne dell'Ophliro all'altezza del cuore. Aleksander non esitò a spingere fino a quando non fu sicuro che la punta fosse sporta dal lato opposto. La bocca si era spalancata per lo stupore e per il dolore al tempo stesso, gli occhi sembravano essere sgorgati fuori dalle palpebre a fissarlo.
Il ragazzo cadde inerme all'indietro, e poco dopo Aleksander lo seguì, ormai incapace di reggersi in piedi. Nell'ultimo attimo di vita concessagli dalla morte rapida che Sasho gli aveva donato, l'Ophliro volse il capo verso di lui e sorrise. Non un sorriso sadico, vittorioso, malefico.
Il sorriso che gli aveva rivolto la prima volta che avevano riso insieme, lo stesso nel quale si era rispecchiato in centinaia di altri stupendi e indimenticabili momenti passati insieme. In quel momento Aleksander ne fu certo: lo aveva liberato. Il sorriso si spense e gli occhi si congelarono.
Per Vladimir.
Ormai la morte azionata dal Movimento del suo vecchio Adelpho era sul punto di giungere al termine. Voltò il capo verso i due tutori, vedendo la vita cedere il passo alla morte anche in Konstantin, un braccio teso in avanti verso il suo compagno, a disegnare un'immagine orribile e splendida al tempo stesso. Erano insieme, anche nella morte.
Era passato il tempo dei sensi di colpa e della realizzazione della propria sconfitta, del fallimento che da lui si sarebbe riversato sull'intera famiglia. Ormai non desiderava altro che Yordanka. Spostò lo sguardo sopra di sé, dove le scale a chiocciola si inerpicavano lungo la parete interna della stessa torre in cui era rinchiusa Violeta.
Schiuse a fatica le labbra, provando a sillabare un nome, ma non ne uscì altro che un lamento informe. Gli occhi presero a bruciare e in un attimo fredde stille sporsero da essi e scivolarono lungo le guance, rendendo sfocato e distorto il lontano soffitto della torre.
Così chiuse gli occhi, e in ultimo chiamò quel nome, individuandone immediatamente la porta sempre vicina, al momento bisognosa di un aiuto che lui non avrebbe potuto fornirgli.
"Yordanka" le sussurrò nella mente.
Lei rispose, e lui non si sentì più solo. Le labbra si incurvarono in un tenue sorriso. Dance era con lui. Insieme, persino in punto di morte.
Zaedno.
Anche quando tutto si spense.
Zaedno = Insieme
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top