15.Osŭzhdane

Puebla, Messico, gennaio 1996

Violeta si sentiva in colpa. Si sentiva in colpa perché da quando aveva lasciato l'Ephia aveva amato ogni attimo della sua vita. La fuga, l'ansia di essere trovata e catturata, e persino la paura erano state il suo motore, dopodiché le nuvole erano diventate le sue compagne, e il mondo intero, che si faceva piccolo dal finestrino dell'aereo Letargiante in cui si era facilmente imbucata, si riduceva a un problema lontano, terreno, nel quale i passi precedenti che l'avevano condotta fino a lì entravano a far parte di un passato che non le apparteneva più.

Ormai era libera, volava, e tutto il resto non aveva importanza. Perché le persone non guardavano mai per davvero il cielo? La sua profondità immortale, la sua perpetua variabilità, e infine la vastità che sempre avrebbe sovrastato ogni capo erano una costante nella vita di ogni essere vivente, anche quando pareva velata, o condita, da addensamenti che ne confondevano e occultavano la vista. Se solo più menti avessero rivolto i loro pensieri a ciò che era veramente importante, forse i problemi, sia per i Letargianti che per gli Ephuri, sarebbero stati molti di meno. Forse si sarebbe imparato ad apprezzare meglio quei piccoli particolari della vita che scorrevano tra le mani con la medesima naturale scioltezza delle ali di un uccello che cavalcava il vento.

Per raggiungere il Messico, aveva optato per il viaggio più lungo e meno conveniente, composto di ben tre cambi, così da potersi godere al meglio ogni singola immersione nelle sue compagne nuvole, e al contempo riempire gli occhi di colori e immagini sconosciuti, mai visti prima, irrigare l'olfatto con odori e profumi esotici, che mai avrebbe immaginato di annusare, e gustare sapori che aprirono la porta, nel suo palato, a una moltitudine di percezioni inaspettate.

Agli Ephuri veniva sempre insegnato a estendere i propri Cerebrum nei massimi livelli possibili, ampliando gli orizzonti imposti dalla nascita in un luogo piuttosto che in un altro, al fine di eliminare le barriere che i Letargianti avevano posto tra le varie nazionalità, che identificavano e dunque rinchiudevano in una determinata identità culturale, portando a ignorare tutto quel che era diverso da ciò che conoscevano. Non per nulla, infatti, gli Ophliri venivano continuamente smistati da un Ephia all'altra, o da una missione qui a una laggiù, e anche i giovani Ephuri normali venivano incentivati a fare viaggi e conoscere realtà Ephure diverse dalla propria.

A lei e i suoi fratelli, tuttavia, non era mai stato permesso. Tutto ciò che avevano conosciuto, fin da quando avevano memoria, erano le pareti dell'Ephia, frantumate e poi risorte dalle loro macerie sotto una nuova orribile forma, e infine demolite di nuovo appena avevano iniziato ad assumere una vaga ombra accogliente. Gli unici luoghi in cui si erano potuti immergere erano gli alberi di Vitosha, occasionalmente Sofia, e quell'orribile grotta in cui avevano privato Liuben della sua giovane vita. Tutto ciò che avevano assaporato era stato quello che gli Ophliri avevano concesso loro.

Ma si poteva davvero aspettare il permesso di vivere? Come poteva essere giusto un mondo in cui qualcuno aveva il potere di sancire limiti alla libertà di qualcun altro, senza un motivo sensato? Potevano aver incatenato il suo corpo in passato, ma non avrebbero mai soggiogato il suo spirito; quello volava e l'aveva sempre fatto, in una minuscola parte di sé, anche prima che fuggisse dall'Ephia.

Nessuno ormai, aveva potuto vietarle di godere del sole che le irrigava la cute ad Algeri al pari dell'architettura musulmana che già solo al ricordo ancora le colmava il cuore di meraviglia. Niente le aveva impedito di immergersi nel blu schiumato di bianco delle isole Azzorre, il quale contrastava la sabbia nero pece derivante dall'erosione del basalto lavico dell'arcipelago, così come quella pausa dal vortice di torture continue che era la sua vita veniva contrastata da quella libertà a cui si era appena affacciata.

Una volta atterrata in Messico, tuttavia, non aveva permesso a nulla di distoglierla dal suo obiettivo. Anche in quel momento, mentre le sue labbra sorseggiavano una bizzarra bevanda color miele che sapeva di ananas e che il ragazzo del motel in cui alloggiava le aveva assicurato essere analcolica – l'alcol era dannoso per gli Ephuri –, non poteva evitare di pensare alle due settimane trascorse da quando era partita e a ciò che la aspettava. Non aveva puntato a Puebla, prima di ogni altro luogo, senza un motivo preciso. Era nei pressi di quella città che si era verificato il primo Vortice dopo anni di quiete, di cui a Sofia era giunta notizia la notte prima che tutto precipitasse, e lei intendeva dimostrare che loro non avevano alcuna connessione con l'evento, così che ai Grigorov venisse condonata ogni inesistente colpa. Solo, non aveva la più pallida idea di come fare.

«Come esta? Un altro bicchierino?» esclamò energico il barman non appena Violeta ebbe terminato di sorseggiare la bevanda che le era stata servita. La pelle ambrata del ragazzo, le corte ciocche nere sparate da tutte le parti e quell'ampio sorriso che ogni volta che si rivolgeva a un cliente appariva a illuminargli il volto, avevano l'effetto di far sentire chiunque a suo agio, persino lei non ne era immune.

Tuttavia, Violeta si trovò a deformare il viso in una smorfia e a lanciargli uno sguardo velenoso. «Sicuro non ci fosse dell'alcol?» gli chiese nella medesima lingua. «Non me siento bien...»

«Sicurissimo! Questa Tepache è puramente analcolica!» il barman alzò le mani in segno di innocenza, voltandosi subito dopo verso l'esercito di bottiglie esibite dietro di sé così da servire un altro cliente, con movimenti abili ed esperti. «Ecco un mezcal per lei!»

Nonostante Violeta avesse scelto un motel tranquillo, il bar era comunque traboccante di vita come fosse in corso qualche festa, anche se forse si trattava solo dello stile di vita messicano, gioioso e rilassato, ombreggiato dagli scuri colori variopinti provenienti da varie fonti di illuminazione sparse per il soffitto, le quali pitturavano i presenti della luce che per mancanza di finestre non riusciva ad arrivare. Anche il vociare continuo aggiunto alla musica a volumi per fortuna non troppo elevati sarebbero stati un problema per lei, se solo non avesse impedito loro di raggiungerla.

In ogni caso, questa volta non le andava proprio di immergersi nella vita che la circondava per dimenticare i suoi problemi, anche se doveva riconoscere che la tentazione di ubriacarsi era forte.

«Certo, certo...» si trovò a rispondere con tono sarcastico, sprofondando in avanti sul bancone con i gomiti, le mani a tirare indietro i capelli biondi spettinati. Se anche ci fosse stato solo un minuscolo grado alcolico, lei l'avrebbe percepito almeno quadruplicato; in tal caso forse sarebbe finita per essere semplicemente ubriaca come un normale Letargiante, ma soprattutto non avrebbe potuto usufruire dei suoi cebrim, fondamentali per quel viaggio che altrimenti sarebbe costato un patrimonio.

Per verificare tentò con una piccola illusione, che mostrava al barman l'immagine, nitida e più che verosimile, di lei che prendeva qualche peso da un portafogli rosa con dei fiorellini blu e consegnava la somma necessaria per l'acquisto della Tepache.

Con soddisfazione, lo vide aprire la cassa disinvolto e inserire al suo interno le inesistenti monetine proiettate da Violeta nella sua mente. Bene, allora aveva detto la verità.

«Ma sì, un altro bicchierino por favor» In effetti quella Tepache era piuttosto gustosa, e i suoi malesseri potevano essere imputati anche ad altro.

«Allora,» esordì con un sorriso radioso il giovane, versando dall'alto e infilandoci addirittura una foglia d'ananas per conferire al movimento maggiore scenografia, o forse solo per divertirsi, «che mi dici di te?»

«Perché dovrei dirti qualcosa di me?» Violeta iniziò a sorseggiare la Tepache voltando parzialmente il busto verso il locale, per dare l'impressione di non essere interessata ad alcun dialogo.

«Perché non hai nessuno con cui parlare, mi sembra, e io lo stesso! Dunque, da cosa sei fuggita muchacha¹?»

Incredibile, possibile che proprio lei dovesse beccarsi un barman ficcanaso che non voleva farsi gli affari suoi? Poteva trasmettergli l'illusione di lei che se ne andava, lasciandolo solo al bancone, o magari cancellarsi dalla sua memoria. C'erano centinaia di modi diversi per sviscerarsi da quella situazione dal momento che si trattava di un Letargiante. Eppure decise di restare. Forse aveva davvero solo bisogno di qualcuno con cui parlare.

«Cosa ti fa pensare che io sia fuggita da qualcosa?»

«Beh, di certo non sei di qui. Alloggi in questo motel, sei sola e troppo carina per essere single, a meno che tu, appunto, non sia ricercata. Allora, cos'hai fatto?» il ragazzo appoggiò il mento sui palmi, fissandola con i grandi occhi scuri brillanti per la curiosità. Era carino, doveva riconoscerlo, e ci stava sfacciatamente e apertamente provando con lei, ma non le importava. Non era venuta in Messico per cercare la felicità, e nemmeno per divertirsi.

«Diciamo che... sono fuggita da una specie di prigione. Ora sono ricercata. Però se riesco nel mio intento, potrei salvare tutti gli altri prigionieri che erano incarcerati con me.»

«Interessante» commentò lui con fare pensieroso, per niente stupito, forse perché abituato a ricevere clienti fuggitivi. «Grazie a voi, adios!» aggiunse poi, rivolto a una coppia che aveva appena pagato ed era uscita.

«E se non riesci?»

Già. E se non riesci? E se fallisci? E se con le tue azioni condannassi tutti gli altri? Quei pensieri continuavano ad assillarla e ronzarle intorno come zanzare fastidiose fin da quando aveva lasciato l'Ephia. Ma a nessuna di esse avrebbe permesso di succhiarle via il sangue.

«Riuscirò» rispose, deglutendo in un solo boccone il resto della bevanda gelida e sbattendo il bicchiere vuoto sul tavolo. «E anche non riuscissi, almeno saprò di averci provato. Sono stanca di subire senza fare nulla!»

Il barman alzò nuovamente le mani in segno di resa. «Mai detto il contrario. Solo... ne ho viste tante di persone come te, muchacha. Bisogna pensare prima di tutto alle conseguenze. Guajolote que se sale del corral, termina en mole², diceva sempre mio nonno!»

Lei rispose con uno sguardo glaciale. Si era stancata di chiacchierare. Proiettò una rapida illusione in cui pagava un altro paio di pesos, poi si alzò per uscire, sotto lo sguardo seccato e deluso del barman.

Prima di andarsene, si rivolse un'ultima volta al ragazzo: «Io non sono un semplice tacchino».

Un manto di stelle brillava indisturbato sugli antichi ruderi mixtechi, nella piana semidesertica su cui si inerpicava, silenziosa, Violeta. Anche se il sito archeologico al momento era vuoto, motivo per cui aveva scelto proprio quell'ora per visitarlo, doveva ugualmente prestare attenzione agli Ophliri che sicuramente circolavano nella zona in tutte le ore. Gli enormi gradoni grigi sporgevano dalla collina come estensioni della stessa, imponenti e maestosi quasi veramente fossero stati eretti dai giganti protagonisti delle antiche leggende in merito alle misteriose origini della piramide che occupava un volume più vasto anche la Piramide di Cheope in Egitto e di qualunque altra struttura similare.

Quell'ambiente le trasmetteva una sensazione di vuoto e di mancanza, perché altro non era che l'ombra di ciò che era stato un tempo. I secoli e le guerre accavallati su quelle stanche pietre si erano abbattuti su quel luogo quasi con lo stesso effetto di un Vortice, non lasciando altro che memoria devastata, frammentata, e incomprensibile; la medesima sorte ricaduta sulla sua famiglia. Tuttavia, lì il tempo, spietato, avrebbe continuato fino a che non fosse stata sgretolata anche l'ultima pietra una volta testimone di grandezza.

Lei non avrebbe permesso che alla sua famiglia accadesse lo stesso.

Decisa a non lasciarsi ulteriormente distrarre, Violeta sollevò lo sguardo verso la cima, su cui un tempo sorgeva la chiesa cattolica di Nuestra Señora de los Remedios, ormai in rovine, attualmente sede di un cantiere per la ricostruzione – sperò – Letargiante. Le sue macerie, tuttavia, erano state frutto di un disastro assai più immediato, e risalente a solo qualche settimana addietro. Proprio innanzi alla chiesa, infatti, era scoppiato il più distruttivo e violento Vortice di cui si aveva memoria, il primo di tanti, che nulla avevano in realtà a che fare con quelli avvenuti in Bulgaria e dintorni ai tempi in cui era bambina, e conclusi con la morte di Liuben. Era talmente ovvio per Violeta che stentava a credere di aver bisogno addirittura di dimostrarlo.

Tuttavia, era venuta lì apposta, quindi non le restava che trovare un modo a tutti i costi, altrimenti tutto ciò che probabilmente stavano passando all'Ephia a causa della sua fuga non sarebbe valso a nulla. Probabilmente l'avrebbero punita in ogni caso perché aveva pur sempre disobbedito agli ordini del Consiglio, ma non le importava; se ciò fosse valso a salvare la sua famiglia, sarebbe anche stata disposta a sacrificare la sua stessa vita.

Verificato che non fossero state poste protezioni Ephure di alcun tipo, si inerpicò indisturbata diretta alla cima, pervasa, suo malgrado, da un brutto presentimento: sembrava tutto troppo facile. Gli Ophliri di Maksim si erano stanziati nella Nova Ephia, anche dopo che era stata ricostruita, per diversi, lunghi e sofferti anni. Possibile che lì, invece, avessero già abbandonato il sito a se stesso?

Forse erano tutti talmente convinti della connessione dei Grigorov all'evento che nemmeno si erano presi il disturbo di investigare, ipotizzò.

Procedette senza esitare, ma con la massima cautela, controllando ogni millimetro di quelle antiche pietre accostate con audacia l'una sull'altra a costituire l'immensa struttura. Con la vista notturna quel gigante squadrato che emergeva dalla collina pareva quasi spaventoso, inquietante, e mille scenari diversi pervasero la mente di Violeta. Se fosse scoppiato un terremoto e lei fosse sprofondata al suo interno? Prima di precipitarsi lì, si era informata bene sul sito e sapeva che vi erano anche delle terrificanti e claustrofobiche gallerie – nelle quali avrebbe anche dovuto investigare nel caso in cui tra le rovine della chiesa non avesse trovato nulla – e sperò di non doverci finire incastrata; non le erano mai piaciuti i luoghi chiusi e opprimenti: la facevano sentire debole, vulnerabile, spaventata come l'esserino fragile che lei si era sempre rifiutata di essere.

Grazie al cielo, riuscì ad arrivare sana e salva in cima alla piramide, colorata di rosso dalle luci lampeggianti, accese anche durante la notte, del cantiere al momento abbandonato. Ormai il peggio doveva esser stato ripulito, perché appariva un cantiere come qualunque altro, nulla di paragonabile ai resti della loro Ephia in quei tempi che ormai sembravano così lontani.

Oltre ad esserci un gran caos di travi, detriti, e vari elementi di costruzione gli uni accatastati sugli altri, sembravano esserci solo le fondamenta dell'edificio in ricostruzione. Prese a studiare ugualmente l'ambiente, notando diverse crepe estendersi a raggiera ai limiti del pavimento dell'area, da tutti i lati. Doveva essersi trattato di un Vortice davvero violento.

Tentò di trovare le somiglianze con quello avvenuto a Vitosha, giusto per farsi un'idea. Innanzitutto, entrambi si erano verificati sulla cima di qualcosa di elevato, prima un vulcano e adesso una vecchia piramide; inoltre, anche lì intorno si ergevano dei vulcani, che ciò fosse collegato?

Trascorse diverse ore, rendendosi conto che non c'era null'altro che potesse ricavarci, si rese necessario inoltrarsi nelle gallerie. Avvicinatasi innanzi all'ingresso, il cuore le saltò in gola nel notare due Ophliri di guardia davanti alla porta. Con un movimento repentino si nascose dietro un gradone della piramide per calmare il battito imbizzarrito nel petto.

La sua mente ragionò in fretta. Aveva già controllato, non c'era nessuna barriera di alcun tipo, per cui si trovavano lì forse solo per precauzione. E gli stessi due Ophliri appena notati, seppur posizionati davanti all'ingresso, chiacchieravano tranquillamente tra loro. Nessuno si aspettava di venire attaccato, e se lei fosse riuscita a essere talmente accorta e silenziosa da approfittare delle loro disattenzioni, magari sarebbe anche riuscita a penetrare all'interno indisturbata. Il potere della mente poteva anche essere illimitato, ma senza concentrazione si riduceva al nulla, e gli Ophliri non erano di certo da meno.

Prese un respiro profondo. Era una pazzia? Senz'ombra di dubbio. Sarebbe stato molto più facile, e soprattutto sensato, fuggire prima che la notassero? Assolutamente sì. Eppure... se lì dentro era davvero celato il segreto per salvare la sua famiglia?

Doveva farlo. Tornare indietro a quel punto non avrebbe avuto alcun senso.

L'ingresso, seppur stretto, era abbastanza alto, per cui a lei sarebbe stato sufficiente calarsi da sopra le teste dei due Ophliri. Con un'illusione si rese invisibile e soffocò ogni rumore, poi, con movimenti rapidi, si aggrappò con le mani all'edera che ricopriva l'architrave della porta e da lì si diede lo slancio con le gambe in avanti, superando con un balzo in aria i due Ophliri intenti a discutere su quale fosse la migliore salsa da condimento. Atterrò con un ginocchio e una mano a terra a soli pochi metri di distanza da loro. Con un ghigno soddisfatto si volse verso i due Ephuri, notando che in loro non c'era stata alcuna reazione. Li aveva fregati.

Senza perdere tempo, e mantenendo bene intatte tutte le illusioni, procedette all'interno del corridoio buio e angusto in cui era finita. Peggio ancora del Diavolsko Gŭrlo in quanto a inquietudine. Se nelle grotte lo scroscio costante delle acque e gli eventuali stridii dei pipistrelli erano compagni certi dall'inizio alla fine, lì era solo il cupo silenzio di morte a opprimerla, e in un certo senso era anche peggio. Era grata, almeno, di possedere, questa volta, i cebrim necessari per potersi proteggere dal gelo della terra che animava i sotterranei.

Stranamente, però, dei brividi dispettosi le si arrampicavano lo stesso lungo la spina dorsale.

Non appena notò una luce si fece più cauta. Si adagiò alla parete e procedette lungo di essa fino a sporgersi con solo una rapida occhiata, oltre il bivio del corridoio sotterraneo. Il lieve chiarore proveniva da oltre una porta socchiusa oltre la quale sentiva provenire delle voci, sicuramente Ophliri. Ma quelli non dormivano mai?

Decise di procedere lo stesso, superandoli con la massima attenzione. Anche questi, come i compagni alla porta, sembravano più interessati a chiacchierare che a svolgere il lavoro loro assegnato; beh, tanto meglio per lei.

Più avanti, superati diversi bivi, dopo aver anche ripercorso alcune strade più di una volta per essere sicura, la sua mano adagiata alla parete gelida sfiorò, quasi per sbaglio, una lieve sporgenza. Levando le ragnatele che la ricoprivano, si rese conto che si trattava di una maniglia. C'era una porta!

Una porta nascosta, anzi. Persino quelle ragnatele appiccicose non erano autentiche, si rese conto con un attimo di ritardo, ma si trattava di un cebrim di invecchiamento. In quella zona del corridoio le luci Letargianti, che avevano illuminato il passaggio nella parte antistante, non arrivavano.

Un lampo di gioia le si accese nel petto. Forse aveva trovato qualcosa.

Provò ad aprirla. Ovviamente sigillata. Ticchettò nervosamente un piede a terra. Con la giusta forza sarebbe riuscita, ma il rumore avrebbe potuto allarmare gli Ophliri. Che valesse la pena tentare?

Eresse una protezione sonora intorno a quell'ala del corridoio, e poi spinse, usufruendo di tutti i cebrim che aveva a disposizione. La porta crollò con un tonfo, che riverberò tutt'attorno, mentre sottili polveri scendevano dal soffitto con un fruscio. Sperò che fosse un fenomeno relativo alla sua zona di corridoio, perché non aveva previsto altri tipi di protezione oltre a quella sonora...

In ogni caso, non c'era tempo da perdere. Dentro imperversava un caos totale di fogli sparsi su scrivanie, sedie, e anche per terra. Era uno spazio relativamente angusto, ma così pieno che le sarebbero state necessarie diverse ore per esplorarlo a fondo. A primo impatto le era chiaro che qualcuno lì dentro doveva averci passato diverse ore a studiare. Sommersi tra una pila di fogli e l'altra, erano anche visibili tracce di cibo in decomposizione e cartacce di merendine già mangiate. Era stato abitato anche da dei bambini, si rese conto, notando delle matite colorate adagiate disordinatamente su un foglio da cui sorrideva una sorta di omuncolo variopinto che le ricordava i disegni in cui ogni tanto si cimentavano i suoi nipotini. Aveva un suo bellissimo ritratto irriconoscibile realizzato da Georgi a due anni appeso in camera, prima che gli Ophliri distruggessero tutti i loro averi.

Non aveva ancora iniziato a leggere un solo foglio, quando, quasi per caso, con la suola delle sue scarpe, calpestò qualcosa che produsse un lieve tintinnio metallico. Aggrottate le sopracciglia, si chinò a raccogliere quello che si rivelò essere un piccolo portachiavi argentato dalla forma rettangolare, che scintillò riflettendo la luce nei suoi occhi.

Per qualche motivo, le era familiare.

Aguzzò lo sguardo, notando che su di esso spiccava una piccola incisione in un corsivo molto arzigogolato. "Dal tuo amico M.G." M.G. Chissà chi era.

Dopodiché voltò il piccolo e sottile lingotto dall'altro lato, e le cinque lettere che saltarono ai suoi occhi ebbero lo stesso effetto di una secchiata d'acqua gelida in faccia. Dario.

Dario. Dove aveva già sentito quel nome?

Non era la prima volta che lo sentiva, ne era certa. Dario, Dario... ma certo. Diverso tempo prima che gli Ophliri si ristabilissero all'Ephia, stava cambiando il pannolino a Ilia, quando il bambino l'aveva trafitta con quello sguardo fumoso, rovesciandola d'impeto in uno di quei ricordi perduti.

Violeta si era ritrovata a gattonare, e a osservare dal basso, con occhi giovani e curiosi, quella che era stata la sua casa diversi anni prima che venisse devastata. Era una delle prime volte che riusciva a muoversi da sola, sulle proprie ginocchia, e pertanto ne aveva approfittato per sfuggire al controllo della mamma, di Konstantin e di Bilyana, per esplorare il mondo per conto suo.

Si diresse da suo padre, stanziato nello scantinato, per fargli vedere quanto era brava. Adorava come luccicavano di fierezza i suoi occhi quando lei riusciva a fare qualcosa di nuovo.

Giunta nei pressi del suo studio, la voce del padre, che ovviamente non l'aveva ancora notata, si elevò nell'ambiente, colma d'ira come non l'aveva mai sentita.

«Dario! Dario non puoi farmi questo!» dalla sua voce traspariva anche una traccia di disperazione. «Dopo tutti questi anni... non possiamo arrenderci proprio adesso! ... No, ascoltami!»

A quel punto l'uomo aveva notato il visino della figlia sporgere dalla porta. Non c'era nessun altro nella stanza, oltre al suo papà. L'ultima cosa che la piccola Violeta vide, prima che la porta le fosse sbattuta in faccia, fu lo sguardo colmo d'ira del padre di cui aveva cercato l'approvazione.

Nello studio nella galleria sotto alla piramide di Cholula, il portachiavi scivolò dalla mano di Violeta crollando al suolo con un tintinnio.

M.G. Milen Grigorov, suo padre.

Aveva sbagliato, si rese conto mentre l'orrore le congelava qualcosa nel petto.

Aveva sbagliato. Maksim aveva sempre avuto ragione.

Aveva terribilmente sbagliato. Erano loro la causa di tutto.

Ricordava bene come il padre si rinchiudesse di frequente nel suo studio, senza voler essere disturbato. Nessuno aveva mai saputo cosa ci facesse lì dentro, di tanto segreto, e quei pochi che magari ne erano entrati a conoscenza non avevano mai diffuso la voce con gli altri.

Prima Milen, e poi quel Dario, avevano in qualche modo creato, cimentandosi con eccentrici esperimenti illegali, quei terrificanti Vortici che seminavano il panico in tutto il mondo. Gli stessi che avevano causato tutte le sofferenze della sua famiglia e che avevano portato alla morte di Liuben.

Era davvero sempre stata colpa loro. Colpa di un Grigorov, e di conseguenza di tutta la famiglia. Si erano condannati da soli. Dal ramo più giovane, alla radice più profonda.

Dei passi nel corridoio.

Gli Ophliri. Era troppo tardi, l'avevano sentita.

Se l'avessero trovata lì, con tutti quegli oggetti e con chissà quanti altri collegamenti con la loro famiglia, i Grigorov sarebbero stati definitivamente condannati. Violeta ormai era spacciata, non le restava molto da fare prima di morire.

A parte distruggere le prove.

Cominciò dal portachiavi d'argento. Lo fuse disgregando i mens che lo componevano, fino a che, al suo posto, non fu rimasto altro che un liquido informe. Poi chiuse gli occhi e tutti i fogli intorno a lei si sollevarono ubbidendo ai suoi comandi. Chiuse le mani a pugno e questi esplosero tutti insieme. La rabbia, la furia, ma soprattutto la paura si impossessarono di lei, portandola a disintegrare anche le sedie e le scrivanie, ogni singolo oggetto in quel luogo doveva bruciare, esplodere, scomparire. Gli Ophliri erano sempre più vicini, ma non le importava. Fino a quando il suo cuore avrebbe pompato il sangue nei polmoni, non avrebbe permesso a nulla di fare del male alla sua famiglia.

Quando l'ultima sedia in decomposizione fu lanciata fuori dalla porta, l'intera parete tremò e crollò verso di lei con la furia di un tuono potente.

Dietro, le sagome di sette Ophliri ancora in posizione protesa in avanti per via della Sincronia appena conclusa.

«Violeta Grigorova» ghignò quello davanti agli altri. «Maksim Razumov ti manda i suoi saluti.»

Osŭzhdane = Condanna

Finalmente dei mezzi indizi sui Vortici (che Leta ha puntualmente DISTRUTTO prima che si possa scoprire qualcosa di più AHAHAHAH 🥰), ... E niente, ora... è l'inizio della fine 💀

Teorie su come tutto andrà a scatafascio? 🙃
Piccolo indizio: la sua cattura avrà un effetto domino su tutti gli altri 💀
Ma si sa, è così che succede in famiglia: SI CONDIVIDE TUTTO 🌳✨

P.s. Le iniziali M.G. potete considerarle un riferimento avvenuto per caso (VI GIURO🤣) alla protagonista della saga di GiulSma, la cui figaggine ormai è radicata nella mia testa e ha agito tramite il mio subconscio 😵

ꟻAᴎTAꙅilɘᴎA

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