12.Cestita Nova Godina

Rotolare verso le ferite, attraverso l'aria spossante e il mare;

verso i supplizi, attraverso i silenzi delle acque e dell'aria che uccidono;

verso le torture che ridono, nel loro silenzio atrocemente agitato.

-Angoscia-
(Rimbaud)

Un'altra porta chiusa. Un'altra snervante attesa. Altre ore trascorse in lunga apprensione.


I fratelli Grigorov, i due Metephri tutori e, qualche volta, anche lei e Sasho, erano costretti a subire sempre più frequentemente quelle insidiose domande di cui non potevano fornire risposta diversa dal silenzio. L'unico motivo per cui ancora non erano passati alle torture vere e proprie di cui gli Ophliri vantavano la conoscenza consisteva nell'accesa difesa da parte dell'amica italiana di Yordanka, la famosa Clara Cervini, che più volte aveva evidenziato la disumanità di un tale gesto nei confronti di coloro sui quali, per causa del Consiglio stesso, non avevano prove della colpevolezza.

Silviya emise una nuvola di fiato gelido, mentre, aspettando che terminasse l'ennesimo interrogatorio a Petar, decideva di rifugiarsi nell'evocativo ambiente che la circondava.

La neve che precipitava violenta dal cielo per abbandonarsi sulla distesa bianca e sui capi delle costruzioni, dalle cui coperture pendevano lacrime di ghiaccio, era uno spettacolo a dir poco affascinante, che nonostante gli anni passati da quando si era trasferita nei pressi della cima di Vitosha, Silviya non si era mai stancata di mirare e rimirare, come fosse essa stessa una poesia scritta direttamente da Madre Natura per comunicare le sue emozioni.

Emozioni che ora non esprimevano più la speranza e la gioia per l'imminente anno nuovo, come invece avveniva normalmente durante quel periodo dell'anno, quanto l'oppressione e la rabbia che devastavano i Grigorov, per compensare ciò che loro non potevano mostrare. Per questo guardarla la faceva sentire meglio.

Era sempre stato così, anche con i suoi amati poeti maledetti, i quali, gridando la loro frustrazione, l'inadeguatezza e il rifiuto verso la loro società sotto forma di parole adagiate l'una dopo all'altra, avevano costruito dipinti stupendi in grado di imprimersi nel cuore di chi le leggeva ma non predisponeva dell'arte di manifestarle. Era grazie al suo rifugio nelle raccolte di Rimbaud e Baudelaire se era riuscita a rimanere salda mentre tra i suoi genitori si estingueva la fiamma dell'amore e i litigi continui prendevano il posto delle cene di famiglia a Varna. Era grazie alle ore passate a leggere quei canti a tratti incomprensibili per la sua mente, ma direttamente in contatto con la sua anima, che era stata forte abbastanza da mantenere il sorriso adagiato sul volto anche nei periodi in cui lei e Aleksander erano costretti a trasferirsi in Russia solo per poter passare il tempo con la madre, perché quest'ultima non voleva più vedere il loro papà. Era grazie a essi che era riuscita a sopravvivere fino all'incontro con i Grigorov al Diavolsko Gŭrlo.

Ora che le pagine su cui le parole maledette e oscure avevano dormito per anni erano ormai state ridotte in frammenti dagli Ophliri, Silviya non ne sentiva la mancanza; la voce, nella sua mente, continuava a leggerle direttamente dalla memoria. Erano scolpite dal vento che gridava tra gli alberi, annusate dal tiepido sole che sorgeva dalla nebbia e si faceva largo tra le nubi, e infine si adagiavano al suolo insieme ai fiocchi di neve.

E così lei continuò a sorridere. La sua sofferenza, il suo dolore, la paura e la rabbia, appartenevano solo e unicamente alla Poesia Maledetta, sempre disposta a stringerle la mano anche quando all'apparenza non c'era. Nonostante il mondo intorno a lei sembrasse precipitare ogni giorno in un baratro sempre più profondo, Silviya donava sorrisi a Petar e alla sua famiglia anche quando pareva non esserci nulla di più lontano. Il cielo piangeva, nevicando sulle loro teste, e prometteva una rinascita dopo la morte. Era a quella che sorrideva, mentre dentro di lei singhiozzava la consapevolezza che a essa sarebbe semplicemente seguito un altro inverno. Era maledetta, forse lo era da quando era entrata nella famiglia Grigorov, forse lo era sempre stata, così come era destino che ne facesse parte, e nonostante questo sorrideva.

Perché a chi era maledetto non serviva altro che un sorriso per ricordare che oltre la bufera c'era la vita. Mentre era immersa nelle sue riflessioni, la sua mano accarezzava quella che cresceva, a tratti dolorosamente, dentro di lei: la promessa di una nuova anima incombente. Forse un'altra maledetta. Aveva importanza?

«Zia Sisi!» si sentì chiamare dalla vocetta vivace di Goran. Lui e Kiril, nonostante l'età, erano sempre apprensivi con lei, forse contagiati dalle premure dello zio. «Come sta il piccolo?»

Addobbati con guanti, cappellini di lana, sciarpe e scarponcini da neve, a vederli venirle correre incontro con quella leggerezza si sarebbe quasi potuto dire che fossero bambini normali cresciuti in un ambiente normale, non figli di indiziati terroristi. In qualche modo, appoggiandosi l'uno all'altro, i due fratelli riuscivano spesso a trovare un modo per giocare, litigare, ridere come la loro giovane età gli consentiva.

«Benissimo, ogni tanto tira qualche calcetto, ma ormai ci ho fatto l'abitudine» li rassicurò con un ampio sorriso, che accese Goran ma non ebbe il minimo effetto su Kiril.

Anche se i due avevano quasi due anni di differenza, a vista sembravano molti di più, dal momento che l'ossatura del maggiore più grossa, i lineamenti morbidi, e il mento sempre fieramente alzato gli permettevano di governare ogni ambiente con un carisma innato, che faceva pendere chiunque dalle sue labbra, e rendevano coinvolgenti anche le affermazioni più infantili che potessero scaturire da un bambino sul punto di compiere cinque anni.

«Ma come fa a tirare calci in uno spazio così piccolo?» chiese invece Kiro, con quella solita espressione corrucciata, le spesse sopracciglia a scurire gli abissi neri, ereditati dal ramo Ivanov, incastonati nei grandi occhi attenti e scrutatori.

«E se è in uno spazio grande? Tira calci più grandi?»

Silviya aprì la bocca, poi la richiuse, indecisa su quale fosse il modo migliore di rispondere alle sue domande, che, seppur strane, era quotidianità ricevere da quel bambino che non si accontentava mai di un da o un ne¹, ma non si quietava fino a quando tutti i quesiti che lo animavano non trovavano una risposta in cui potersi risposare e prendere un respiro per originarne a loro volta un altro quesito e poi un altro ancora, in una spirale infinita che, proprio per questo motivo, sembrava renderlo sempre inquieto o insoddisfatto; assetato, avrebbe detto Rimbaud. Anche i suoi sorrisi, invece della spontaneità tipica che avrebbe dovuto caratterizzare un bambino di tre anni, celavano una sorta di continuo nervosismo che lo rendeva costantemente vigile, come l'occhio sempre mezzo aperto di un gatto che non aveva intenzione di abbassare la guardia neanche nel sonno.

Ran corse inconsapevolmente in suo aiuto, rimbrottando il fratello: «Kiro, non ti distrarre! Siamo venuti qui per un motivo».

L'altro rispose con una smorfia e un pizzicotto, a cui seguì un pugnetto del maggiore. Anche durante la piccola rissa infantile – che tra i due era all'ordine del giorno –, dallo sguardo di Kiril non scomparve l'insoddisfazione, che sempre lo seguiva fedele come un'ombra proiettata dalla luce della curiosità.

«E quale sarebbe questo motivo?» si intromise, dopo aver minacciato di separarli tirandoli per le orecchie – di solito Yordanka faceva così, ma era un metodo che detestavano al punto che ormai era sufficiente emularlo per ottenere il medesimo risultato! –, guardandoli con sguardo eloquente, il collo lievemente inarcato verso di loro per via dell'ampio ventre che le impediva di chinarsi alla loro altezza. Ignorò appositamente i pensieri emessi dalle loro menti per il gusto di lasciarsi stupire direttamente dall'entusiasmo delle loro vocine squillanti.

«Mamma, papà, gli zii, i tutori, tutti,» spiegò Goran, l'ultima parola evidenziata battendo vigorosamente un piede sulla neve distesa a terra, «tutti dicono che quest'anno non possiamo fare la Surva Surva Godina²! Non è giusto! Devi convincerli zia Sisi, tu sei la più brava di tutti! Convincili!»

La neve si fece d'improvviso pesante. Sorridere fu molto più difficile questa volta, per Silviya fu quasi doloroso, ma lo fece comunque. Era necessario. I bambini, in particolare, avevano bisogno di affidarvisi, in quella realtà oscura che la loro vita era diventata.

«Non è una questione di bontà Ran. Tutti avremmo voluto, lo sai che adoriamo farci picchiare da voi, ma come sai gli Ophliri hanno distrutto ogni cosa, survackite³ comprese. Nessuno di noi può farci nulla, questo però non ci impedisce di divertirci comunque, non credi? L'importante è passare il tempo insieme, con o senza Surva. Potremo sempre farla l'anno prossimo!»

«Ma noi-»

«Vuol dire che loshite Ephuri se ne vanno?» Kiril interruppe il fratello con un tono urgente e speranzoso che per un attimo crepò anche il sorriso di Silviya.

L'anno prossimo, aveva detto. Su cosa basava quell'affermazione? Le era venuto automatico rispondere in quel modo, per rassicurarli, ma la verità era che non avevano nulla, nessuna certezza. Fino a quanto sarebbe durata la permanenza Ophlira a Vitosha? E anche quando si fosse conclusa, come avrebbero potuto sapere quando tutto sarebbe nuovamente precipitato?

Non ce la faceva proprio a mentire agli occhi in cerca di verità del bambino che attendeva risposte, e non aveva nemmeno senso addolcire la pillola. «No, Kiril, non so quando ci lasceranno in pace, e nemmeno se lo faranno. Ma infine, o felicità, o ragione, separeremo dal cielo l'azzurro, che è nero, e vivremo, scintille d'oro della luce naturale

Lui si limitò a rimanere in silenzio, continuando a fissarla forse incantato o forse semplicemente confuso. Il luccichio negli occhi neri era quasi accecante, la consapevolezza che aveva preso fuoco in lui la spossava.

«Osven tova,» saltellò Goran per attirare l'attenzione, per riscaldarsi, o per entrambe le ragioni, prima di avvicinarsi e sussurrare, come in segreto: «Non ti devi preoccupare perl survackite zia Sisi!»

Si scambiò uno sguardo complice con il fratello minore e poi entrambi si allontanarono ridacchiando e confabulando tra loro chissà quale diavoleria. Lei scosse la testa ridendo, e sperando che non si sarebbero messi nei guai. Anche quando i due si furono allontanati, e nella via dell'Ephia non fu rimasta che lei, un paio di Ophliri agli angoli del suo campo visivo, e la neve che scricchiolava sotto i suoi piedi, continuò a sorridere. A chi fosse rivolta non lo sapeva nemmeno Silviya. Forse a se stessa, forse al secondo cuore che palpitava dal grembo.

Non aveva importanza.

I pochi addobbi che erano riusciti a racimolare pendevano smorti dalle finestre e dai divanetti talmente rigidi che denominarli divanetti era un complimento, i quali rappresentavano, insieme a un piccolo poggiapiedi centrale, l'unica mobilia che gli Ophliri gli avevano permesso di predisporre nella sala del dormitorio dell'Ephia. Nemmeno un albero di Natale ravvivava l'atrio, nonostante di esemplari da usare ce ne fossero a dismisura fuori, nella vicina foresta di Vitosha. Non gli era stato permesso, allo stesso modo in cui gli era stato impedito di festeggiare a dovere il compleanno di Ilia e persino la Vigilia di Natale.

Al secondo anniversario dalla nascita del più piccolo e sfortunato dei Grigorov, infatti, gli Ophliri erano sopraggiunti all'improvviso proprio prima che avesse la possibilità di soffiare sulla candela della Kurabiyata che fungeva da torta – non erano riusciti a ottenere nulla di più dato che le cucine erano riservate ai soli Ophliri e loro dovevano accontentarsi degli avanzi – e avevano affermato che il troppo rumore li stava disturbando. Nient'altro che una futile scusa per venire a importunarli, perché gelosi della quiete che erano riusciti a trovare nonostante tutto l'impegno per impedirglielo. Loro erano degli assassini, o per lo meno coloro che li proteggevano, loro nascondevano la soluzione a un ormai gravissimo problema che devastava la società Umanente e non solo. Non meritavano di festeggiare il compleanno di un bambino a cui la vita stava già togliendo troppo. Queste le scuse che li avevano spinti, anche il giorno la sera della Vigilia di Natale, a una nuova brutale ispezione dei loro pochi averi, solo perché qualche giorno prima c'era stato un altro vortice da qualche parte nel mondo. I pochi regali che erano riusciti a nascondere per i più piccoli erano stati trovati e rivelati dagli Ophliri, che avevano spento la luce che la magia del Natale accendeva in ogni bambino. Ricordava bene le lacrime zampillate come scaglie di ghiaccio dagli occhi di Goran, la realtà del mondo che troppo presto atterrava impetuosa sulle loro vite.

A Silviya non piaceva rammentare come gli Ophliri si fossero dilettati a estinguere quei sorrisi troppo a lungo tenuti lontani dai loro volti, ma il ricordo dell'ultimo lembo di ciò che erano stati un tempo che scompariva insieme a tutto il resto si affacciava automaticamente alla finestra del suo presente. Gli avanzi di cibo sparsi sul tavolino basso per festeggiare l'ultimo giorno dell'anno, d'altronde, somigliavano troppo a quelli di appena una settimana addietro. E una parte di lei continuava a chiedersi: "Che cosa accadrà questa volta?"

Accadeva sempre qualcosa, ogni volta che avevano anche solo la possibilità di piegare un orlo del telo nero che li separava dalla luce. Che loro tentassero oppure no, era inevitabile.

Il fatto che non fosse l'unica a essere pervasa da pensieri così cupi era riscontrabile anche nelle posture rigide e nei sorrisi forzati degli altri adulti, che tentavano di mantenere un'apparenza di quiete per i bambini – tranne Petar, ma lui non sorrideva facilmente nemmeno nei momenti veramente tranquilli, quindi non contava. Non che questa avesse un grande effetto, in particolare su Georgi, il quale era ormai già troppo grande per lasciarsi ingannare con così poco, e su Ilia, che invece era troppo piccolo e cagionevole. Quanto ai suoi due nipotini con cui poche ore prima aveva chiacchierato, continuavano a scambiarsi occhiatine scaltre, di cui ancora Silviya si imponeva di non scoprire la causa sbirciando nelle loro porte.

Per il primo quarto d'ora, la cena del trentuno dicembre si svolse così, trainata dalla celata disperazione di un'altra festa andata in malora, e sospinta dalla malinconica consapevolezza del sorgere di un nuovo anno forse ancora peggiore del precedente.

Parlarono a malapena, Ran e Kiro litigarono tre volte, e altrettante Yordanka dovette dividerli. Non sapendo su quale argomento interloquire che non avesse a che fare con Vortici, Ophliri, e prospettive per il nuovo anno incombente, Konstantin cominciò a tirare fuori considerazioni sul tempo atmosferico, su cui restarono a discutere per la sconvolgente bellezza di quarantacinque minuti. A conversare letteralmente di neve, pioggia, e nuvole.

Passarono poi alle solite e piatte frasi di circostanza, che stonavano terribilmente con il calore così spontaneo e sincero a cui Silviya si era affezionata da quando si era formata quella famiglia. A infrangere ogni finzione fu infine Gogo, poco prima del conto alla rovescia per lo scoccare dell'anno a venire.

Il piccolo incrociò le braccia e, voce tremante ed espressione corrucciata, affermò: «Non è Capodanno senza Banitzata s kŭsmeti».

Con quella frase calò un greve silenzio. Si trattava senz'altro di una delle tradizioni più belle di quella festività che, senza di essa, pareva davvero vuota, Georgi aveva ragione. Forse facevano prima a smetterla di fingere che tutto andasse meno peggio di quel che sembrava, e dovevano semplicemente tornarsene a dormire, arrendersi all'evidenza.

«Gogo...» provò a spiegare Yordanka, prima di venire interrotta dalle braccine rotonde di Ran che le tiravano il polso per guardare l'orologio.

«Pet! ...» esclamò con un gridolino emozionato, suscitando lo stupore e la preoccupazione di tutti i presenti. Silviya lanciò un'occhiata alla porta, rendendosi conto che miracolosamente nessun Ophliro supervisionava su di loro. Al numero seguente si era già aggiunto Kiril: «... Cetiri!¹⁰ ...»

L'esaltazione dei bambini fu tale che anche Silviya e alcuni degli altri adulti parteciparono, una nuova voce per ogni numero. «... Tri! ... Dve! ... EDNO¹¹

Un boato di fuochi Letargianti scoppiò dal cielo della vicina Sofia, rimbombando fino a loro ed esaltandone le grida emozionate e gli abbracci sprizzanti entusiasmo. Per un attimo dimenticarono tutti i problemi e le preoccupazioni e nella sala si udì solo un caos di sovrapposti "Cestita Nova Godina¹²!", augurati con la più sincera apprensione. La speranza sembrò infatti prendere forma con quelle semplici parole ripetute, e ognuno di loro si ricordò del motivo per cui dovevano restare forti. Sarebbero arrivati tempi migliori, dovevano affidarsi a quella consapevolezza per non soccombere definitivamente. Insieme, come la famiglia variegata ma unita che erano, sarebbero stati in grado di trovare la luce che al momento gli era celata.

«Cestita Nova Godina» ripeté Silviya, questa volta più dolcemente, avvolgendo Petar in un abbraccio che fu un po' ostacolato dalla prominente pancia con cui ormai conviveva da alcuni mesi. Lui rispose all'augurio con tono flebile e, dopo un lieve bacio sulle labbra, si persero l'uno negli occhi dell'altra.

Non sentivano spesso il bisogno di comunicare verbalmente tra loro, la maggior parte delle volte erano sufficienti quei piccoli gesti, quegli scambi di sguardi e quei tenui sorrisi a farli sentire al sicuro, percepire il tepore del focolare sempre acceso e il sollievo di un'anima confortante in cui abbandonarsi.

Quando ognuno ebbe fatto gli auguri almeno una volta a tutti i presenti, Silviya temette che la speranza improvvisa che li aveva pervasi si sarebbe dissolta in un attimo, non appena si fossero ricordati di quale anno probabilmente li attendeva. Invece, prima che l'ultimo sorriso si spegnesse, Goran e Kiril sgattaiolarono via e tornarono pochi secondi dopo. Ciascuno dei due nascondeva qualcosa dietro la schiena.

«Sorpresa!» esclamarono poi, estraendo nello stesso momento due bitorzoluti rami, intrecciati rozzamente con bacche di bosco, fiocchi di nastrini rossi e addirittura del cotone.

«Sono... Survacki!?» esclamò con stupore Gogo, schizzando dai fratellini, luminoso come un piccolo sole appena risorto dopo una notte priva di luna e stelle. Persino Ilia, in braccio a Sasho, batté le mani ed emise un verso d'apprezzamento.

I due, in risposta, annuirono soddisfatti, poi presero a spiegare di come, nel momento in cui gli Ophliri avevano distrutto quelle vecchie, avessero pensato di costruirne di nuove, in segreto. Dal momento che i bambini erano sorvegliati meno rigidamente rispetto a loro, non gli era stato difficile sfruttare i materiali reperibili per ricreare quegli oggetti di buon auspicio. Certo, mancavano le circonferenze e i pukanki¹³, ma in un certo senso erano anche più speciali nella loro grossolanità, perché nate nelle difficoltà, cresciute nella speranza. Non potevano essercene di migliori per portare buoni presagi all'anno appena sorto.

Goran e Kiril cominciarono a pronunciare la filastrocca di augurio, toccando a ogni verso, con le Survacki, uno per uno, tutti gli adulti presenti, anche alcuni tra gli altri Metephri abitanti nell'Ephia, che avevano voluto partecipare. A ogni colpo, ognuno faceva finta di farsi male, provocando le risa generali, e al termine da tutti coloro che erano stati "picchiati" dai bambini ricevevano in cambio un paio di monete – pura tradizione, dato che era da tempo ormai che non avevano la possibilità di scendere in città a fare compere tra i Letargianti.

Fu una vera festa di Capodanno, e allo stesso tempo più speciale di tutte le altre, proprio come le Survacki create dai bambini: sorta dal vuoto malessere, e dunque più forte, più intensa, più ardua da spazzare via. Non importava quali orribili disgrazie avrebbero potuto abbattersi su di loro, nessuno poteva portargli via quei momenti, quei sorrisi, quella gioia zampillante e luminosa.

Sconvolgendo Georgi per lo stupore, a un certo punto i due furfantelli tirarono fuori addirittura dei piccoli foglietti spiegazzati: nientemeno che i Kŭsmeti¹⁴! Il maggiore dei figli di Yordanka quasi pianse per l'emozione e strinse fortissimo a sé i due fratellini minori, fino a soffocarli. Nello specifico Kiril, notò Silviya, non sembrava apprezzare particolarmente gli abbracci, esattamente come Petar. Per il cupo zio aveva in effetti dimostrato già più volte un interesse curioso, e in numerose occasioni lo aveva implorato di insegnarli a suonare la chitarra – e Petar, sentendosi ancora lui stesso un apprendista, aveva rifiutato, promettendogli però che un giorno l'avrebbe fatto. Nonostante il momento allegro, suo malgrado Silviya si chiese dove la sete continua di conoscenza, aggiunta alla parziale somiglianza a Petar, lo avrebbero condotto un giorno. Aveva già appurato, d'altronde, come le vicende spiacevoli potessero condizionare le personalità più malleabili.

In mancanza di Banitza, gli stuzzicadenti in cui conficcare i foglietti, che Kiril e Goran avevano rubato di nascosto agli Ophliri ovviamente, furono infissi su un cuscino circolare che sembrava fatto di sughero e questo fu fatto girare al centro del tavolino. Con tutti raccolti intorno, trepidanti di scoprire quale augurio gli sarebbe toccato, a Silviya per un attimo sembrò quasi di vedere la pasta sfoglia profumante di forno del più squisito piatto bulgaro al posto del cuscino scucito e dimesso, e la semplice acqua che poco prima aveva ingerito si tramutò, nel suo palato, nel dissetante gusto fresco dell'airyan¹⁵ appena miscelato. Anche quando afferrò il suo stuzzicadenti, la sensazione dello scricchiolio leggero della sfoglia accartocciata che si spezzava sotto i suoi denti fu talmente tangibile che per un attimo le parve di ingannarsi da sola, il sapore morbido e salato le esplose nella bocca in mille scintille colorate al pari del fuoco d'artificio appena scagliato in cielo, che rimbombava fuori dalla finestra.

In un moto di consapevolezza, Silviya si rese conto che aveva involontariamente attivato il suo cebrim delle illusioni, su nientemeno che se stessa. Era stata talmente catturata dall'entusiasmo, dal desiderio insistente di riavere tutto ciò che era stato loro tolto, che il suo istinto aveva preso il sopravvento, suggerendole il modo di ritrovare la luce di quella speciale festività.

Beh, perché non condividerla con gli altri?

Un battito di ciglia, e ognuno si ritrovò con una fittizia fetta di Banitza in mano. I bambini esultarono e anche gli altri accolsero con entusiasmo la sua idea. A quel punto, ognuno inserì un piccolo particolare a quell'illusione in cui si stavano rifugiando: Yordanka migliorò il servizio, poggiando le fette su dei tovagliolini rossi decorati, natalizi, abbinati alla tovaglia, adagiata su quello che era diventato un vero e proprio tavolo; Aleksander vestì ognuno di loro con caldi maglioncini su cui erano cuciti fiocchi di neve, e aggiunse delle ghirlande alle finestre; Violeta si occupò di creare un intero albero di Natale, alto e imponente, ricco di sfere colorate, avvolto da luminarie con le luci intermittenti, che spandeva su di loro calde tinte rosse, arancioni e gialle; Konstantin diffuse un tenue profumo di biscotti nell'aria e Hristo vi aggiunse un tepore simile al riscaldamento che d'inverno accendevano per chi ancora non aveva sviluppato i cebrim di immunità.

Proseguendo con la festa accarezzati da quella nuova accogliente atmosfera, ognuno iniziò ad aprire i rispettivi kŭsmeti: a quanto pareva Georgi quell'anno avrebbe avuto un pony, Yordanka una macchina nuova, Aleksander avrebbe ottenuto grandi successi nello studio, Petar avrebbe comprato una nuova casa, Violeta sarebbe diventata ricca, Konstantin si sarebbe sposato, Hristo avrebbe fatto molti viaggi, Ran avrebbe accudito un cagnolino, e Kiril avrebbe imparato a suonare uno strumento musicale. Quest'ultimo era decisamente il più azzeccato. La speranza che Petar potesse insegnare al nipote a suonare la chitarra animò i loro cuori.

Lei fu l'ultima ad aprire il suo kŭsmet. Non appena una piccola frase in rima e la raffigurazione stilizzata di un neonato risaltarono ai suoi occhi, quasi pianse per la gioia. Certo, era una previsione un po' scontata, ma il fatto che fosse capitato proprio a lei aveva del miracoloso. Chissà che qualche gioia sarebbe finalmente arrivata a scacciare l'oscurità dalle loro vite!

«Si fa attendere sempre di più questo bambino» sorrise Petar. Quando quell'espressione, in forma pura e genuina, germogliava sul volto dell'uomo che amava, tutto il resto sembrava perdere consistenza intorno a Silviya; per lei aveva la stessa valenza che avrebbe avuto un fiore talmente ardito da riuscire a elevarsi verso il sole anche su un terreno ricoperto di neve e brina: un vero miracolo della natura.

«Ma in qualunque momento arriverà, noi saremo pronti ad accoglierlo» aggiunse con un sorriso, trovando le sue dita per far incontrare le loro mani, e portandole poi entrambe al calore dell'addome rigonfio, dentro cui percepì una sorta di fremito, come ogni volta che il piccolo o la piccola riconosceva il tocco dei suoi genitori. Era certa che comprendesse del mondo esterno molto più di quel che si credeva.

«Zio Petar!» esclamò all'improvviso Kiril, puntando il dito accusatorio verso di lui. «Tu non hai fatto nessuna illusione!»

«Hai ragione, Kiril» Petar rispose, poi chiuse gli occhi, «è ora di rimediare».

Silviya intuì la sua scelta un attimo prima che producesse l'inganno mentale, deducendola solo dall'ombra che attraversò i suoi occhi, illuminandoli. Note musicali piccole e semplici emersero una dopo l'altra da invisibili corde di una chitarra che ormai non esisteva più se non nei loro ricordi.

A quel punto, ognuno dei presenti si immerse nei dolci ricordi che queste calamitavano in superficie, attraendoli con una forza cui era impossibile resistere. Il tempo passato insieme durante l'infanzia, la loro breve chiacchierata al Diavolsko Gŭrlo dopo tanti anni di distanza e cambiamenti da ambe le parti. Il modo in cui, pezzo dopo pezzo, aveva imparato a conoscere il nuovo Petar, quando era venuta a conoscenza dei suoi problemi, e il modo in cui l'aveva aiutato a uscirne e a ritrovare almeno un po' di pace. Persino i loro occasionali litigi, dopo ognuno dei quali erano più uniti e consapevoli della loro interiorità e di quella dell'altro. La prima volta che era riuscito a confidarsi con lei, a esternare quelle emozioni troppo dure da affrontare completamente da solo. L'intimità che pian piano si era trasformata in amore. L'amore che li allacciava e che non aveva intenzione di abbandonarli.

Mentre Silviya era persa nel dolce tepore dei ricordi, quasi non si accorse della voce di Violeta, che sembrava talmente distante, quasi non reale, da dubitare che potesse trovarsi lì insieme a loro.

«Eho! Non sembra anche a voi che ci sia qualcosa di strano?» chiese. «C'è... un rumore, di sottofondo. Sembrano delle voci. E vengono da fuori.»

Petar, prima accoccolato di fianco a lei, si tirò su di scatto facendola scivolare sul divano che prima non le era parso così tanto duro. Fu come riscuotersi da un sonno in cui non si era accorta di essere precipitata. Non era Violeta quella lontana, artefatta, era lei stessa a essersi lasciata ingannare da ciò che non esisteva. C'era un motivo per cui generalmente gli Ephuri evitavano di creare illusioni per loro stessi: si rischiava di perdere il contatto con la realtà. Gli inganni erano talmente nitidi che molti tendevano a non ritenere concreto ciò che invece lo era, e ad aggrapparsi solo ai frutti della propria immaginazione. A ricadere in questa trappola erano spesso gli Ephuri in esilio, costretti a un'esistenza talmente inaccettabile da preferire di non crederci. Possibile che fossero ridotti a tal punto?

In un attimo tutte le illusioni che avevano animato la sala si spensero, come se qualcuno avesse soffiato su una candela; rimaneva solo l'odore del fumo e un nero privo di dimensione.

Si raccolsero tutti davanti a una finestra. Discostate le tende, videro solo un paio di Ophliri che si muovevano da una parte all'altra. Confusi, si accorsero a malapena di Ran, che, fedele al nomignolo affibbiatogli, schizzava su per le scale.

Violeta fu la prima a seguirlo, mentre il cuore di Silviya accelerava il suo palpito nel petto e quello del bambino dentro di lei faceva lo stesso, come percependo l'elettricità che si era improvvisamente accesa nell'aria, deformando in un attimo tutta la quiete che aveva trainato quella serata in un'orribile e divorante paura.

A fatica, raggiunse gli altri al piano di sopra. Sporgendosi da un infisso, ebbe finalmente sotto gli occhi la causa di tutto. Fuori dall'Ephia, appena oltre le mura, sparsi tra un albero innevato e l'altro, immuni al gelo e alle intemperie dello spietato inverno di alta montagna, si estendeva una vasta folla che esondava rabbia come un fiume in piena. Anzi, non rabbia: odio. Era vero e proprio odio quello che dava voce alle grida, che fendeva l'aria attraverso le armi da loro impugnate, e che si riversava infine sulle pareti del dormitorio.

Non aveva bisogno di affinare la vista per capire che si trattava di Ephuri, e non era necessario rendere più nitido l'udito per sentire la frase che più di loro ripetutamente gridavano in coro, la quale, seppur amplificata, veniva soffocata quasi del tutto dalle protezioni che sigillavano l'Ephia – le stesse che impedivano ai Grigorov di uscire.

«... Giustizia per le vittime dei Vortici! Giustizia per le vittime dei Vortici! Che il Consiglio processi i responsabili! Giustizia! Giustizia! Giustizia per le vittime dei Vortici! ...»

D'istinto, le braccia di Silviya si avvolsero attorno alla sua pancia, come per proteggerla dal mostro terrificante che li minacciava. Una parte di lei, ancora aggrappata al tepore della soffice gioia nella quale era sprofondata per tutta la serata, continuava a non realizzare ciò che aveva sotto gli occhi. "No, no, no, no.... Non è possibile, non può star accadendo davvero, è solo nella mia mente...".

«C'è qualcosa che turba la vostra festicciola, Grigorov?» chiese un'improvvisa voce, di qualcuno appena sopraggiunto dietro di loro, fin troppo familiare.

«Maksim! Che diamine sta succedendo?!» esclamò Violeta, balzata innanzi all'Ophliro con un tono così tagliente da fendere quasi l'aria.

Lui non si curò di trattenere il sorriso compiaciuto. «È a me che lo chiedete? Siete voi che avete creato l'odio che li ha condotti qui, affilato le loro armi e fornito le micce degli esplosivi che vogliono lanciarci contro. Provengono da tutto il mondo, in particolare dai luoghi in cui si sono verificati i Vortici più violenti. Sembra che tra di loro siano presenti addirittura dei Mindsmith americani. Cestita Nova Godina

«Non è vero!» ribatté lei, spintonandolo indietro. «Sei stato tu a portarli qui!»

Lui si lasciò spostare e poi si rimise in posizione, senza la minima deformazione della sua espressione.

«È stato il vostro silenzio a trascinarli alla nostra porta, io non ho fatto altro che spargere piccole e insignificanti briciole. Vi faccio notare, inoltre,» Maksim scorse lo sguardo su ognuno dei presenti, «che quelle persone non ce l'hanno solo con voi, ma anche con il Consiglio ché non prende misure concrete per fermarvi mentre i Vortici continuano a creare vittime, e sono dunque contro noi Ophliri.»

«Sai cosa ci imp-»

«Con la differenza» Maksim non permise a Violeta di parlare, «che noi Ophliri siamo addestrati a combattere in modo molto più raffinato rispetto a voi, che, rimasti sempre rinchiusi su questo vulcano, potete essere considerati solo mezzi Ephuri, non dei veri guerrieri. Perciò, se, per ipotesi, gli scudi che proteggono l'Ephia dall'esterno, già stranamente allentati, dovessero casualmente perdere effetto giusto il tempo necessario per far entrare alcuni di loro, cosa accadrebbe? E se, sempre in questa accidentale ipotetica situazione, alcuni di voi perdessero tragicamente la vita perché noi non siamo riusciti a difendervi dalla furia della folla, non si allenterebbero almeno parzialmente i discontenti della società nei confronti del Consiglio? E gli altri di voi sopravvissuti non sarebbero forse più motivati a rivelare i segreti che tanto assiduamente nascondete?»

«Non puoi farlo!» gridò Yordanka, puntandogli un dito contro con fare aggressivo.

Lui sorrise. «Non mi sembra di aver chiesto il vostro permesso».

Cestita Nova Godina = Buon Anno Nuovo

Beh che dire... buon anno :')
Escluso il finale in cui il nostro adorabile Maksim sfoggia la sua maksima simpatia (Mak-scemo eheh),  è stato un capitolo parecchio tranquillo e rilassato! Ma forse l'ultimo 💀

Comunque, se vi interessa, le survackite (da leggere con la c morbida), sarebbero tipo così:

Questa invece è la Banitza con gli auguri:

(Piccola curiosità a caso: la Banitza nella teglia rettangolare nella foto qui sopra non è rubata da immagini su Pinterest ma è stata cucinata da mia mamma nell'ultimo Capodanno, ho fatto la fotina proprio per voi 😌 ...e sì, era buonissima 😋)

Dell'Airyan non sto a mettervi la foto perché a vista sembra praticamente latte. Di gusto... beh, la cosa è soggettiva 💀

E niente, scusate per il ritardo nell'aggiornamento, preparatevi psicologicamente e... ci vediamo al prossimo capitolooo! 🔥

꧁ꟻAᴎTAꙅilɘᴎA꧂

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