11.Buryata

Sofia, dicembre 1995

La radura attorno cui si ergeva, maestoso, l'immenso arbusto dell'infinito, albero immortale le cui radici accarezzavano il centro della terra, era finalmente fiorita.

L'inverno era stato duro. L'erba era avvizzita, e una dopo l'altra tutte quelle bellissime gioie colorate, che ora accoglievano lo sguardo di Petar sotto nuove forme, erano morte. Persino lo Jivonhir non era stato del tutto immune alla violenza del gelo. In una reazione a catena, i suoi rami erano stati strappati violentemente, senza pietà, da quel mostro che non conosceva limiti. Erano stati portati via, lontano, dal vento impetuoso, oppure erano stati inghiottiti, direttamente divorati dalle pieghe della terra.

Anche i rami che ancora non si erano staccati, verso il termine della stagione fredda erano stati sul punto di separarsi dalla loro madre generatrice, diretti a raggiungere i simili perduti. Erano tre rami, Petar se li ricordava bene, e da soli avevano dato vita, per tutto l'inverno rimanente, alla vera anima dell'albero, che attraverso loro ancora respirava.

Uno dei tre rami, d'altro canto, era fragile, scorticato, isolato, quasi sul punto di cedere alla spinta del vento. Nonostante si fosse salvato all'ultimo dal sopraggiungere del calore, nell'intero Jivonhir aleggiava la consapevolezza della sua sorte: all'arrivo della bestia di gelo, sarebbe stato lui il primo ad abbandonarli.

Era inevitabile. Era la naturale forza delle cose, a cui nessuno poteva sottrarsi.

Lo stesso ramo ne era consapevole.

E anche ora, che i fiori circondavano il suo intero campo visivo con i loro mille colori, anche ora, che altri rami belli e forti erano sbocciati dal tronco immortale, e che, piccoli e grandi, promettevano una larga espansione... anche ora il ramo era consapevole della sua sorte.

Petar ne accarezzò la superficie rugosa, animata dal calore del sole in un modo che mai avrebbe ritenuto possibile, rendendolo un ramo dallo splendore invidiabile. Nient'altro che effimera bellezza destinata a scomparire, come tutto. Inutile illudersi del contrario.

Tuttavia, Petar ne era certo, il ramo era rinvigorito dalla vivacità che cresceva intorno a lui, i nuovi rami gli tenevano compagnia, rendendo più dolce la nostalgia di quelli vecchi. Quella sciocca frasca si stava adagiando, rilassando, aveva addirittura osato ricominciare a vivere per davvero.

Poi, come se degli aghi fossero emersi dal cielo, Petar si sentì trafiggere ogni parte del corpo dalle punte affilate di un gelo senza paragoni, che lo Jivonhir non avrebbe mai dimenticato, perché era lo stesso che nell'ultimo inverno aveva squarciato i suoi mezzi di comunicazione con l'esterno.

Una bufera, cinerea, opprimente e impetuosa, si condensò all'orizzonte. Inesorabile, iniziò a procedere nella direzione dell'albero immortale che, inerme, la vide avanzare implacabile, al pari di un'onda impetuosa che nulla poteva arrestare.

Quando il vento avvertì l'arbusto della sua incombenza, il ramo più instabile prese ad agitarsi incontrollato, consapevole che la sua ora fosse finalmente giunta. Era giusto così: i più forti sarebbero andati avanti, mantenendo lo Jivonhir; i più deboli avrebbero affrontato il loro destino.

Petar si accucciò su se stesso, mentre la bufera li raggiungeva. Ne avvertì il gelo, che prese a scorrere nelle sue vene assieme al sangue, giungendo fino al cuore. Avrebbe dovuto arrestarne il battito, e invece, come se questo fosse animato dal ghiaccio invece che dall'ossigeno, lo mantenne in vita.

Conclusa la bufera, era pronto a rialzarsi, seppur non fosse più lo stesso di prima. La neve e il ghiaccio precipitarono dal suo capo, dalle sue spalle e dalla sua schiena.

Ma quando il suo sguardo fu attirato da quel che rimaneva dello Jivonhir, Petar venne travolto da un'onda impetuosa ancora più violenta della precedente, che lo lasciò senza fiato.

Un solo ramo era sopravvissuto, questa volta. L'ultimo su cui chiunque avrebbe scommesso.

Il ramo ritorto, orribile, malfermo, brutto anche solo a guardarsi, era ridotto peggio ancora che dopo il precedente inverno. Perché questa volta aveva perso molto di più.

Non era giusto. Non era naturale. I più meritevoli avrebbero dovuto sopravvivere, i più deboli soccombere. Era la legge del più forte, a cui nessuno poteva sottrarsi.

Forse fu per questo che quell'immagine errata lo devastò al punto da desiderare, piuttosto, che lo Jivonhir morisse.

Tutto, piuttosto che lasciare solo quel ramo immeritevole.

Tutto, piuttosto che rimanere l'ultimo.

Petar inspirò violentemente l'ossigeno come se questo gli fosse stato tenuto lontano per lunghe ore. Per un momento credette che si trattasse del gelo che l'aveva animato durante il sogno. Scattò seduto, come per fuggire dalle orribili immagini cui aveva appena assistito.

Le ombre proiettate dalla finestra nella camera assumevano una forma ritorta e frastagliata. Il ramo, solo e devastato, a dominare ancora il suo campo visivo, come se lo avesse portato dietro dal mondo onirico, conducendo l'incubo nella realtà.

«Che succede?» chiese una voce mezza addormentata. Ricordandosi di non essere solo – "non ancora" sussurrò malefica una voce nella sua testa –, si voltò verso Silviya, che stava provando a fatica ad alzarsi.

«Niente, non ti sforzare» sussurrò lui, distendendosi nuovamente sul letto e mettendosi su un fianco, per volgersi verso di lei. Posò con delicatezza una mano sulla sua pancia sporgente. Fin dal primo mese di gravidanza si era sempre premurato di fare attenzione, ma ora che si stavano avvicinando le ultime settimane dovevano essere ancora più cauti. Ne andava della salute del bambino.

«Un incubo?» si limitò a chiedere lei, la luce della luna che luccicava attraverso le sue iridi di zaffiro.

Petar deglutì. «Promettimi...», allacciò la sua mano a quella di Sisi, «promettimi che resterai sempre con me.»

Era una richiesta stupida, infantile quasi, ne era consapevole. Nulla dura per sempre.

Lei restò per un attimo in silenzio. «Te lo prometto Petar. Finché vivrò, e anche dopo, noi saremo insieme. Tu, io, e il piccolo Denislav o la piccola Ana.»

Petar prese un respiro profondo, per calmare il cuore che ancora si agitava nel petto come un cavallo spaventato dalle fiamme della ragione. Silviya aveva ragione. Denislav, se fosse stato un maschio, e Ana – una zia di Sisi –, nel caso fosse stata una femmina, erano i nomi che dopo ardui dibattiti erano stati prescelti per il loro figlio imminente. Quando, ormai quasi nove mesi prima, aveva scoperto che sarebbe diventato padre, era stato sul punto di piangere per l'emozione. Proprio come quando, il giorno in cui era finita la guerra, aveva rievocato il fratello defunto suonando per lui. Ormai quei momenti di gioia talmente bella e immensa da far male si erano fatti sempre più frequenti nella sua vita.

Forse era proprio questo ad aver provocato quel sogno: aveva troppo da perdere.

Di cos'aveva paura? Le minacce per la loro famiglia ormai si erano concluse, persino la guerra era finita. Perché animare di inutili paranoie anche la quiete della meritata pace guadagnata con tanta fatica?

Chiuse gli occhi, deciso a addormentarsi con il sorriso, la mano della donna che amava stretta alla sua, e il bambino che cresceva sempre più ogni minuto che passava, ansioso di vedere la luce. Loro tre, insieme, per sempre.

Il ramo solo sull'albero non era altro che un ricordo lontano, e lì sarebbe dovuto rimanere. Petar gli voltò le spalle.

Eppure, come se fosse animato da vita propria, il ramo parve distendersi dalla finestra, sgranchendosi con scricchiolii sinistri come un vecchio arto bitorzoluto, e arrivò addirittura a sfiorargli la schiena.

Petar, spaventato, si voltò di scatto.

«Yordanka?» esclamò, stupefatto e leggermente inquietato, riconoscendo la figura della sorella in controluce.

Il tono con cui rispose fu sorprendentemente urgente e preoccupato: «Ah, siete già svegli. Venite subito di sotto: riunione di famiglia».

Un brivido corse lungo la spina dorsale di Petar quando riconobbe negli occhi della maggiore uno sguardo che non vedeva da anni, e che aveva sperato di non dover mai più scorgere.

«A quest'ora?» ribatté Sisi con uno sbadiglio.

«Sì».

E uscì dalla stanza, senza aggiungere altro. L'ombra del ramo solitario ancora dipingeva orribili promesse sui loro visi.

L'inizio della fine cominciò quella notte, attorno al tavolo della sala da pranzo, con Kiril che si scaccolava e Violeta che sembrava avesse passato la notte direttamente nella foresta fuori dall'Ephia, i capelli ingarbugliati in un nido ramoso.

«Un Vortice».

La voce di Yordanka lasciò dietro di sé un greve silenzio, mentre quell'informazione raggiungeva tutti i cervelli addormentati dei presenti e li riaccendeva. Probabilmente una secchiata d'acqua gelida in faccia avrebbe sortito meno effetto.

A Petar parve di percepire tutti i suoni intorno a sé farsi attutiti, mentre anche il mondo cominciava ad avvolgersi nelle spirali del terribile ricordo dell'ultimo Vortice a cui aveva assistito. Quell'esperienza gli era rimasta incastrata in gola anche nonostante tutto quel che era accaduto dopo, perché da allora, in un certo senso, era cambiato tutto. Liuben era morto. Un membro della loro famiglia era stato Damnato davanti ai suoi occhi. Il dolore che per tanti anni aveva evitato gli si era riversato addosso tutto in un unico momento. Mentre Dànceto comunicava la notizia, Petar rivisse ognuna di quelle esperienze, e si sentì mancare l'aria.

L'ultimo ramo.

Sarebbe rimasto solo un ramo questa volta. E se il suo fosse stato un sogno profetico?

«Clara me l'ha detto appena l'ha saputo» spiegava intanto Yordanka, la quale sembrava provenire da un altro mondo, tanto era lontana.

Tutti erano lontani.

«Ma com'è possibile?»

La cappa scura si addensava all'orizzonte, inondando i fiori con la sua ombra.

«Non si sa la causa, solo che è ancora più violento di quelli verificati qui anni fa...»

Il freddo penetrava e congelava le ossa.

«Noi però non c'entriamo niente, che provino solo-»

«E no che non c'entriamo! Puebla è lontanissima dalla Bulgaria!»

Le voci degli altri presenti si stavano mescolando tra loro nella sua testa, in un intricato caos a cui Petar non riusciva nemmeno a prestare attenzione. A quel punto, però, si fece forza per intervenire, perché era inutile che si raccontassero bugie; sapevano benissimo come sarebbe andata a finire: «No,» affermò, appena un fiato, sufficiente però a interrompere ogni altra domanda «verranno dritti da noi».

Il silenzio piombò nella sala e si accomodò tra i presenti, deciso a non muoversi dalla sua posizione. Non c'era null'altro da dire.

Restava solo aspettare.

Aspettare l'inevitabile, impotenti, come sempre, e restare a guardare mentre la tempesta di gelo li travolgeva, distruggendo ogni cosa.

La notte trascorse senza che accadesse nulla. I bambini tornarono presto a dormire, ma Georgi, forse comprendendo un po' più dei minori la gravità della situazione, non riuscì a chiudere occhio. Violeta passò tutto il tempo camminando avanti e indietro con passo nervoso, come un cavallo selvaggio in gabbia. Konstantin, Hristo e Aleksander discussero invece su quali sarebbero potute essere le cause e soprattutto la connessione di quel nuovo, terrificante, Vortice, con quelli avvenuti nei Balcani, senza trovare alcuna soluzione al quesito. Quanto a Yordanka, non fece altro che preparare spuntini notturni tutto il tempo, che nessuno ebbe l'appetito di assaggiare.

Non tentarono di ragionare su un modo per potersi discolpare, perché come ci si poteva scagionare da qualcosa di cui non si aveva colpe? O di cui, per lo meno, non potevano serbare memoria? Fuggire avrebbe sortito l'effetto di incriminarli di più, affermare per primi di non avere nessun collegamento con l'accaduto li avrebbe resi solo maggiormente sospetti.

Dopo un po', dilaniato da quella tensione che non avrebbe avuto termine fino a quando non fosse accaduto qualcosa – pur, al tempo stesso, temendo quel momento – decise di ignorare tutto il resto e se ne fuggì in camera sua.

Al pari di un'ombra decisa a non abbandonarlo mai, esattamente come promesso, Silviya lo raggiunse poco dopo. Nessuno dei due disse nulla. Non ne sentivano il bisogno. Fin da quando lei e il fratello si erano trasferiti lì a Sofia, Petar e la ragazza avevano danzato prima con le voci dei poeti francesi tanto amati dalla ragazza, e poi con la dolce melodia di Denislav; insieme, avevano trovato la loro musica. Musica composta di suoni ma anche di pause, come quelle di cui necessitavano al momento: un po' di quiete prima della tempesta.

Le schiene poggiate sulla testiera del letto e i corpi allacciati tra loro in un abbraccio che racchiudeva il grembo della ragazza, come se stessero cullando il figlio non ancora nato, la stanchezza si adagiò su di loro, concedendogli un ultimo sonno, lindo e privo di incubi.

L'incubo sopraggiunse infatti la mattina seguente. Quando le prime luci allungavano le loro dita sulla vetta innevata di Vitosha, al cancello su cui svettava il simbolo dello Jivonhir apparve Maksim, seguito da tre unità di Ophliri.

La voce dell'uomo che più odiavano al mondo raggiunse subito dopo le loro orecchie. «Abbiamo avuto ordine di compiere una perquisizione di questa Ephia» il tono compiaciuto, il sorriso sprezzante, «immagino siate già a conoscenza del motivo. Ah, e siete tutti sotto accusa. Se troveremo qualcosa di compromettente sarete i protagonisti di un processo con il Consiglio.»

E con quelle parole si concluse, al pari del colpo secco di una lama su un tronco millenario, il breve periodo di vita felice che gli era stato concesso.

Pesanti come macigni, erano state pronunciate con la scioltezza di qualcosa di naturale e ovvio, come se Maksim avesse sempre saputo che sarebbe accaduto.

Erano stati loro gli illusi. Erano i rami a essersi lasciati ingannare dalle ghirlande poste sulle loro fronde, le quali potevano solo velare la loro natura maledetta, non modificarne l'essenza.

Gli eventi si susseguirono così rapidi che parve quasi di vivere l'esperienza tramite il corpo di un altro, come se Petar fosse diventato nient'altro che un guscio vuoto.

A nulla valsero le ribellioni di Violeta. Come quand'era piccola. Ben presto si arrese, comprendendo che in tal modo avrebbe solo peggiorato la situazione già grave di per sé. Il Consiglio avrebbe visto in ogni loro insubordinazione una prova del fatto che fossero loro quelli in torto. Per i Delphini, e di conseguenza per tutti gli altri, loro andavano puniti per i loro peccati.

Gli Ophliri, dunque, avevano tutto il diritto di entrare nella loro casa e frugare tra le loro cose, spaventare gli abitanti della loro Ephia, far piangere i figli di Yordanka per una paura che si sarebbero dovuti abituare a vivere ogni giorno, perché i tempi dei sorrisi erano finiti. Gli Ophliri avevano il diritto di entrare nella camera di Petar e Silviya, e con una sola piccola Sincronia metterla totalmente a soqquadro per far emergere segreti che non esistevano, con il risultato di spezzare le corde della sua chitarra e di ridurre in briciole le pagine dei libri di poesie che Sisi passava ore e ore a rileggere.

Gli Ophliri avevano il diritto di buttarli fuori dalla loro stessa casa relegandoli in delle piccole e anguste stanze sorvegliate, che altro non erano che gli stessi dormitori in cui lui, Dànceto, e Violeta avevano vissuto i periodi più difficili delle loro giovani vite, come se quello fosse sempre stato il loro posto.

Gli Ophliri avevano il diritto di strappargli le loro vite.

Come erbaccia da estirpare, come rami secchi da diveltare. La medesima urgenza e necessità volte a quello che loro consideravano l'azione giusta da compiere per fare del bene.

E, quando la notte oscurava nuovamente l'Ephia, tutti loro, assiepati disordinatamente nell'atrio del grigio e polveroso dormitorio, non erano altro che legna pronta ad ardere, che non aspettava che quello. Li avevano privati delle loro vite, strappando loro via le radici; cos'altro poteva rimanere da fare?

Come ad avvalorare quella considerazione, Maksim si recò da loro, forte e imponente nella gloria della sua vittoria. A Petar sembrava quasi che l'unico obiettivo di quell'uomo, l'unico carburante in grado di animarlo per davvero, fosse proprio torturare loro. Intraprese un discorso secco ed esplicito in merito alla necessità che loro rivelassero quel che sapevano, ma si percepiva, dal suo tono, che a lui non importava veramente ottenere quell'informazione, forse consapevole che una causa al problema semplicemente non esistesse; era solo una scusa per arrivare a loro, nulla di più.

«Forse non mi sono spiegato bene» rispose al loro cupo silenzio, «noi non ce ne andremo di qui fino a quando non avrete fornito la soluzione al problema. Davvero non avete nulla da dire?»

A quelle parole, Violeta si alzò lentamente, posando con delicatezza accanto a sé Gogo, prima appollaiato sulle sue gambe, e poi si avvicinò a lui. Due Ophliri dietro Maksim, conoscendola, mossero alcuni passi in avanti.

Lei però, non lo attaccò. Anzi, esclusa qualche intemperanza iniziale, Violeta era apparsa calma tutto il giorno, e nemmeno tanto sconvolta, quasi già se lo aspettasse. Al contempo, nel suo sguardo, nella camminata persino, scorgeva qualcosa di pericoloso. Come una tigre che avesse ritratto gli artigli solo per attendere il momento migliore per attaccare, più violenta di prima.

«Forse allora noi non siamo stati abbastanza chiari» affermò con una freddezza inscalfibile che Petar sapeva non le era stato facile raggiungere. «Non possiamo rispondere di quel che non sappiamo. Siamo stanchi di queste accuse infondate. Se il Consiglio spendesse anche solo la metà del tempo che passa ad accusare noi a cercare invece una reale soluzione, magari l'avrebbe già trovata da un pezzo. Riferisci questo a Vania Razumova.»

L'ira, che solo Leta era sempre stata in grado di provocargli a quei livelli, si accese negli occhi di Maksim. «Osi giudicare le azioni del Sacro Consiglio degli antichi Eph? Tu sei solo una ragazzina. Sei insignificante al loro confronto. Sei insignificante a confronto di cosa io posso farti».

Le dita di Violeta si strinsero a pugno. "Resisti" le suggerì Petar. Maksim non aspettava altro che la sua rabbia. Non aspettava altro che una scusa per poterla punire, e per questo lo stremava ogni sua reticenza ad attaccare.

«Prima non ti eri ancora sviluppata, dunque non hai idea delle torture che la nostra razza può arrecare o subire, non hai neanche idea di cosa significhi soffrire per davvero. Cosa aspetti? Preferisci forse che uno di questi bambini faccia la fine di Liuben?»

Un solo impercettibile fremito, una sola occhiata a tradire la fermezza di Violeta a quelle parole, fu ritenuta sufficiente da Maksim per sferrare, con movimento rapido e delineato, una manata talmente violenta sul suo viso da farla finire a terra.

«Losho!» esclamò Goran con un grido, rivolto a Maksim. Seppure lui e altri bambini non avessero compreso una sola parola dello scambio avvenuto in Ephiano, le azioni parlavano da sole. In seguito al colpo subìto da Violeta, Georgi era scoppiato in lacrime e Ilia aveva emesso un lieve gemito. Kiril, abbracciato dal padre, aveva invece assunto quel suo solito – ma al contempo insolito, vista la sua età – tono pensoso, mentre sembrava studiare Maksim come fosse un nodo da districare.

Quest'ultimo distolse l'attenzione da Leta e la rivolse invece al piccolo che aveva parlato, attorno cui si strinsero le braccia di Yordanka, come per proteggerlo.

«Nemmeno sai cosa significhi la cattiveria, insignificante palla di lardo, ma stai pur certo» spostò l'attenzione prima da lui a Kiril, poi da Kiril a Georgi, «state pur certi, malki Grigorov, che-»

Qualcosa lo bloccò quando Ilia, piccolo, pallido e tremante, restituì il suo sguardo ombroso con gli occhietti color fumo. Uno dei suoi attacchi, comprese Petar.

La prima a scoprire l'entità di quella sua strana malattia era stata Violeta, la notte in cui lì all'Ephia avevano festeggiato la fine della guerra. C'erano stati altri eventi, simili al primo, che avevano permesso loro di comprendere, nei quasi due anni di vita del bambino, in cosa consistessero quelle strane visioni che Ilia trasmetteva a chiunque vedesse i suoi occhi: ricordi. Ricordi perduti, recuperati da angoli più bui delle menti altrui e riportati alla luce come non fossero mai stati coperti dalle pieghe implacabili del tempo.

Non erano ancora riusciti a capire se anche lui fosse in grado di vedere ciò che evocava negli altri, sapevano solo che il prezzo di ciò che donava era troppo alto; ogni volta, infatti, che qualcuno ricordava qualcosa, Ilia veniva dimenticato da tutto il resto.

Anche in quel momento, mentre Maksim rivedeva un qualche recesso della sua infanzia, tutti i presenti dimenticarono l'esistenza di Ilia, cancellata temporaneamente pure dai ricordi. La luce si dimenticò di posarsi su di lui, e così in un claudicante lampeggio il bambino scomparve ai loro occhi. I mens stessi lo dimenticarono, facendolo così cessare di esistere.

Solo una volta che tutto fu tornato come prima, nei presenti, dopo una prima confusione, giunse la consapevolezza dell'accaduto. Ilia era tutto raggomitolato su se stesso, tremante di un freddo che sembrava provenire dalla sua stessa anima. Come al solito, fratelli, genitori, tutori e zii gli si raccolsero intorno per compensare con il loro calore, per comunicare "noi ci ricordiamo di te".

Per quanto ancora avrebbero potuto promettere una cosa del genere?

«Che cosa... cos'era quello... voi... il bambino...» Maksim non era mai stato tanto sconvolto in vita sua, non sembrava quasi più nemmeno lui, ma Petar non riuscì nemmeno a gioirne.

«Ha già sviluppato i primi cebrim?» chiese poi, riacquisito il contegno, fissando quegli occhi color fumo che ora parevano così innocui.

«No,» rispose Yordanka, le lacrime a inumidirle gli occhi e incrinarne la voce, mentre accarezzava i capelli e il viso del figlio «no, è solo un bambino normalissimo ma molto sfortunato. È una malattia la sua, e questi suoi attacchi si fanno man mano più frequenti, e più lunghi, fino a quando non finirà per essere totalmente dimenticato! E allora smetterà di esistere, proprio come quel pezzo che voi avete cancellato dalle vite della nostra famiglia!»

Yordanka, ormai singhiozzante, si alzò a sua volta in piedi, e continuò: «Forse è proprio quello la causa, siete stati voi a fargli questo!»

Maksim retrocedette di un passo, senza tuttavia mostrare alcun rimorso né pietà per la donna che gli gridava disperata in faccia. «Cos'altro volete, eh? Non vi fermerete fino a quando non avrete cancellato anche l'ultimo di noi, non è così? Cosa? Che cosa volete? Non ne posso più!»

Dànceto si abbandonò in un pianto scosso da violenti singhiozzi, che Sasho si affrettò a lenire, venendole vicino e comunicandole forse qualcosa mentalmente.

Maksim si limitò a indossare uno sguardo sprezzante, come se tutti loro non fossero che insignificanti mosche che avevano ronzato troppo a lungo. Li avrebbe schiacciati. Li avrebbe schiacciati tutti in qualche modo.

Fino a quando non fosse rimasto che un ramo. Solo.

«Avrete anche dimenticato, come tutti» affermò, spietato, «ma voi restate ugualmente l'unica soluzione. In passato siete stati in grado di creare quei Vortici, dunque questa attitudine, volente o nolente, è in voi, e solo voi potete ritrovarla. Il vostro vittimismo non ci porterà da nessuna parte. Prima di venirmi a piangere addosso per il male che voi stessi vi siete arrecati, assumetevi le vostre responsabilità.»

Detto questo si voltò e si diresse alla porta, deciso a concedergli finalmente un po' di tregua. Prima di uscire, tuttavia, si voltò indietro, per studiarli un'ultima volta, rievocando in Petar una sorta di deja-vu del giorno in cui l'aveva conosciuto, il primo interrogatorio che lui e le sue sorelle avevano subìto.

Non avrebbe mai dimenticato le sue parole, le stesse che avevano determinato gli anni successivi a quel momento.

Gli parve quasi di udirle di nuovo, seppur l'Ophliro non avesse avuto bisogno di pronunciarle: "Sappiate che non è finita qua. La verità salterà fuori prima o poi, piccoli Grigorov".

La storia si stava ripetendo.

La bufera li aveva raggiunti.

Buryata = la tempesta

Scusate per il capitolo un po' pesante, avverto che sarà il primo di molti, purtroppo, la seconda parte di Jivonhir è davvero cupa 😥 (poi vabbè, ovvio che nei capitoli di Petar questa depressione viscerale raggiunga i suoi culmini 🤣💀)

Comunque da qui si fermano i salti temporali più significativi, perciò questo albero genealogico durerà un po' più dei precedenti:

Ho tagliato Bilyana e Denislav per farci stare un pochino anche Sisi, che adesso che è incinta merita pure lei un posticino nell'albero (ma anche prima in realtà, solo che me l'ero dimenticata 💀), però non sono riuscita a rappresentare il suo legame parentale con Aleksander 😭

Ed eccovi anche uno zoom su Ilia perché è tenerello e mi fa tanta pena 😢 In Jivonhir il suo ruolo nelle vicende sarà marginale ma invece in Cerebrum farà una parte davvero importante. 🥺

Ci si vede al prossimo capitolo con un nuovo pov 👀

ꟻAᴎTAꙅilɘᴎA

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