capitolo 12

«Non voglio che tu pensi che sia un mostro» dice, poggiandomi sul letto e coricandosi accanto a me. Scuoto la testa, invitandolo a continuare. «Non sta andando bene, Anastasia» comincia, arrotolandosi una mia ciocca di capelli fra le dita. «La tranquillità non c'è più, le sparatorie sono all'ordine del giorno, il clima è teso, sono obbligato a fare cose che non vorrei, cose ben peggiori» mi stranisco sull'ultima parte, così chiedo spiegazioni. Lui sospira, osservando il soffitto. «Quando un soldato tedesco muore, per mano di qualche cittadino, dieci ne vengono giustiziati» dice con freddezza. Mi allontano spontaneamente, ricordando quanto visto in piazza. «Non è giusto, non è equo, chi potrebbe fare una cosa del genere?» esclamo mettendomi a sedere. «Io, io l'ho fatto.» rimango sconcertata. Quelle persone sono morte a causa sua. «Non volevo dirtelo, mi reputi un mostro, ma cosa posso fare? È il mio lavoro» continua mettendosi a sedere. Ritraggo la mano quando prova a toccarla, sono ancora sconvolta. «Questo non è "lavoro"» dico, virgolettando con le dita l'ultima parola. «Sono persone innocenti, muoiono per cosa?» esclamo ancora, avvicinandomi a lui. «Non posso farci niente, Anastasia, mi dispiace» sospira. Rimango a guardarlo ancora per un po', indecisa sull'andarmene o meno. 《Non ti senti mai in colpa, voglio dire, come se avessi fatto qualcosa di irrimediabilmente sbagliato?》 gli chiedo. Lui si poggia sui gomiti, guardandomi seriamente. 《Ogni giorno, ma non ho scelta. È orribile, rivedo i loro visi ogni notte, è la giusta punizione da subire.》 Lo osservo a mia volta. 《Ma loro muoiono》 commento ad alta voce. 《E io con loro》 risponde prontamente lui. Troppi pensieri affollano la mia mente. «Dimmi almeno che non vuoi davvero farlo» si avvicina, mi prende il viso tra le mani. «Certo che no» risponde, facendomi appoggiare su di lui. «Mi sei mancata» dice, portandomi una ciocca dietro all'orecchio. «Anche tu» rispondo, sporgendomi verso di lui. Non perde tempo, in un attimo poggia le sue labbra sulle mie, come la prima sera. Fa scivolare una mano sotto la mia maglia, provocandomi un brivido lungo la schiena. Ci spogliamo lentamente, voglio ricordare a memoria tutto di lui, ogni sfumatura. Mi fa adagiare sul letto e si posiziona su di me, continuando a baciarmi, per poi spostarsi sul collo. «Non smettere di essere felice, di cercare le piccole sfumature positive della vita, resta come sei.» mi sussurra, per poi scendere verso il bacino. Fa scorrere le mani sulle mie braccia, fino a trovare i miei palmi. Dita intrecciate, respiri perfettamente coordinati, c'eravamo solo noi.

25 Aprile 1944, Lodi.
Quella sera è successo, abbiamo fatto l'amore, mi ha resa sua per davvero. È stato la mia prima volta, non poteva essere migliore. Mi ha riaccompagnata a casa sul tardi, ma è andato tutto bene. Dopo averlo salutato avevo il sorriso stampato in faccia, lo stesso che ho avuto per tutti i giorni a seguire. Non so se ne valga la pena, è folle, è sconsiderato, ma mi rende felice. Provo qualcosa di vero per lui, qualcosa che prima non avevo mai provato. «Dove vivremo?» gli chiedo mentre camminiamo, fantasticando sul futuro. «Dove vuoi tu» risponde, sorridendo per la mia spontanea felicità. «Mi piacerebbe andare a Berlino, oppure in qualche città grande» continuo, stringendogli la mano. Annuisce, continuando a sorridermi. «Promettimi che quando tutto questo finirà vivremo la vita che ci meritiamo, promettimi che saremo insieme» dico, piazzandomi di fronte a lui. «Te lo prometto» risponde, baciandomi la fronte. Gli sorrido ampiamente, per poi baciargli le labbra. Continuiamo a camminare e a parlare del più e del meno, quando arriviamo davanti a casa mia ci congediamo. «A presto» mi saluta, prima di baciarmi e andarsene. Torno in casa, continuando a fantasticare come non facevo da tempo. Quella sera riesco a tirare su il morale della mia famiglia, ho ritrovato la mia felicità.

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