Sabato 23 settembre 2000

Così, quando si era avvicinata la metà di settembre, stufo di locali pieni di gente che si credeva famosa, avevo provato ad immergermi in una sfida ben più grande, nella mia ricerca dell'hip hop romano: avevo cercato locali dove si facevano freestyle battle.

Premessa: venivo da un luogo dove, nel raggio di chilometri, ero il miglior freestyler della piazza. Non dico cazzate, potevo aprire il culo a chiunque si mettesse tra me e l'applauso, avevo barre pronte che adattavo a qualsiasi contesto, graduate in base alla potenza di fuoco che volevo esprimere ed all'argomento che volevo toccare. Barre di apertura, di risposta con opzioni multiple, di chiusura boom. Un arsenale imbattibile a Cesena, un Freestyle King in piena regola: con due barre potevo rompere entrambe le ginocchia a qualsiasi repperino da DoubleKey in saldo e contemporaneamente fare squirtare la sua tipa.

Mi ero iscritto a un battle, perchè ero Jay e volevo quello. Mi schioccavo le nocche che avrei voluto usare per sfondare nasi e rompere denti, metaforicamente. Lo avrei fatto con le parole.

Ero uscito al primo incontro, maltrattato da uno con la maglia della Roma di Aldair, i sedici anni dichiarati erano Iva compresa evidentemente. Ma aveva il favore del pubblico, una inflessione sorniona su una voce strappata, e un sacco di modi fantastici per insultarmi.

Ero uscito incazzato come una pantera, prendendo a calci una lattina vuota per una mezza maratona. "Bel passatempo di merda mi sono trovato" mi ero detto, ma avevo in fretta cambiato idea riguardo l'affrontare la sconfitta, così ero tornato indietro, e avevo ascoltato gli altri battle. C'era da rivedere molte cose, molte.

Ma mai avrei comprato una maglia della Roma per fare freestyle: era la cosa più assurda che avessi visto a livello di hip hop di base. E ripeto: di base.


Volevo sfogarmi, ci dovevo riuscire, cristo santo. Non potevo limitarmi a giocare a basket e insultare i cestisti scarsi. Dovevo meditare sugli errori nei miei freestyle, facendo altro. Così avevo cercato un modo per tornare al writing. Un modo sicuro, che non mi costringesse a scappare rincorso dalle guardie, ma i cui risultati potessero essere visti dalla gente. E ovviamente avevo subito pensato alla metro, che avevo seguito fino a capire che il deposito era vicino a Cinecittà.

Voi direte bravo Jay, minchia lo hai capito tutto solo sei un grande! Rompete poco il cazzo, per chi non è di Roma mica è così scontato che si sappia dov'è il deposito delle metro. A Cesena facevamo fatica a avere i tram.

Entrarci da solo, fare tutto da solo, in quel deposito. Mostrare alla città eterna che c'era qualcuno che meritava a sua volta l'eternità. Io, ovviamente. Da backpacker mi ero comprato un sacco di bombolette, in negozi diversi per non dare troppo nell'occhio che non si sa mai, poi agli orari più assurdi andavo a vedere il deposito e l'aria che tirava lì attorno, facendo finta di mangiare panini e fare footing dalle parti di via Lucrezia Romana.

Sentivo l'odore della sfida. A casa avevo iniziato a buttare giù qualche bozzetto, da cose semplici a cose più complesse, ma non potevo pensare di andare là alla spera in dio, ovviamente. Non era un pilone di cemento a Cesena, in cui probabilmente avrei potuto lavorare anche tutta la notte senza essere disturbato in maniera decisiva. Dentro un deposito dovevo pensare a un'opera che si potesse realizzare in circa un'ora, ma visibile e non banale.

Dovevo provare, per verificare i tempi.

Così avevo spostato i mobili e una parete dell'appartamentino di 3x2 era diventata la tela di prova, la sandbox, il luogo della mia cazzuta officina creativa. Ma le bombolette costano, quella volta ero andato direttamente da mia mamma.

Alla sola parola "arte" aveva già fatto partire il bonifico. Ovviamente la cifra era crestata, ci erano scappati cinquanta di fumo e tante bombolette. Le prove erano andate a buon fine e potevo dirmi pronto: guardavo la parete di casa tutto soddisfatto, fumando e ridendo dentro di me. I graffiti che avevo visto in giro erano a volte spettacolari, a volte mediocri, la questione era il tempo e quanti ci mettevano le mani, e chiaramente quelli spettacolari erano opera di crew, che lavoravano coordinati ad uno stesso disegno, con uno stile uniforme, come un'unica piovra dai tanti tentacoli governati da un'unica mente.

Volevo pormi appena dietro loro, far sentire loro il mio fiato sul collo, arrivare di botto. Fare il botto. HELLRAZOR roba forte come tutti i lavori più fighi di Cesena, come tutti i piloni rifatti a nuovo dalla mia arte disturbatrice di cemento. 

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