Messenger
Da maggio del 2001 un programma come MSN Messenger aveva dato modo di scambiarsi file. Questo poteva tradursi principalmente in due aspetti, altrettanto importanti: ulteriore pirateria sull'audiovisivo e pornografia homemade.
Brutto da dire ma bello da usare, per i consumatori.
A Roma le ragazze scemavano dalla cintura verso il centro per vedere dove erano ambientate le scene di Tre metri sopra il cielo che si passavano fotocopiato, poi mettevano via il romanticismo, e mandavano sms a maschi adulti e della buona borghesia, che avevano incontrato su messenger e con cui si erano scambiati varie immagini dei rispettivi corpi. Gli uomini arrivavano, le facevano salire sulle loro belle berline scure, e placavano la loro arrazzatura. Le più smart si facevano pagare o si facevano regalare cose che non si sarebbero potute permettere. Le più fesse si facevano promettere magari posti nel mondo dello spettacolo.
Chiariamoci, le ragazzine ed i ragazzini che si fanno scopare per soldi non è che li hanno inventati quelli che hanno inventato i cellulari e internet, sono sempre esistiti e sempre esisteranno, ma queste tecnologie hanno avvicinato in tutti gli ambiti la domanda all'offerta, figurarsi se non lo facevano anche con il sesso.
Così, certi vizi costosi, prima ad appannaggio degli adulti che avevano il denaro, erano migrati rapidamente in pascoli più freschi, che avevano ora i soldi per permetterseli: abbigliamento, accessori, coca.
Questo voleva dire per me un certo quantitativo di soldi, e un certo numero di amici di circostanza. Ma soprattutto l'accentuarsi di certi caratteri di una sorta di vita quasi doppia: smercio, shopping, palestra, feste, piscine e pompini si alternavano a sessioni chiuso nel disimpegno a rappare, rappare e rappare, risentendo tutto con Santo, correggendo, ripartendo, per poi andarsene la notte a sfogarsi nei peggio piloni. Jay diventava Hellrazor, e ne era strafelice, nonostante la crew di trainbomber mi considerasse uno troppo fighetto, troppo elitario, perché volevo che le mie opere rimanessero.
Nelle jam iniziava a funzionare il lavoro sulle barre pronte, con tutto il materiale inserito nei mesi precedenti. Ma questo, a mio avviso, era anche legato al fatto che la gente iniziava a conoscermi, non ero più il coglione sconosciuto che non si capiva che cazzo volesse nell'urbe, ma uno bene o male integrato, i cui stilemi della zona iniziavano a circolare nel suo sangue.
Tipo ragazzo-palazzo-cazzo.
No scherzo, quello vi giuro che non l'ho mai usato nemmeno nelle battle più scrause.
Vita doppia, dicevo. Ma una vita con questi due opposti che cominciavano a sfumare non per i casi della vita, già elencati, quanto per la consapevolezza. Iniziavo a essere il Jay nuovo che volevo essere, e questo perché in un paio di occasioni avevo fatto le scelte che il Jay ideale avrebbe fatto.
E col senno di poi mi devo complimentare con me stesso per il fiuto che avevo avuto.
Partiamo da alcuni contesti: l'area del rap capitolino andava dalla sinistra radicale, dagli anarchici del Forte occupato, dalle posse, fino alla controcultura senza un interlocutore politico ma in aperta polemica con le istituzioni in generale, per il degrado in cui erano lasciate le periferie.
Figo eh? Grazie al cazzo, non ho mai pensato 'sta roba, non è farina del mio sacco, ma di quello del cugino di Cirì, Orlando, detto Orlà, che a Roma c'era venuto a fare sociologia. Esterno al mondo dell'hiphop, se ne interessava con modi da antropologo, fornendo risposte molto complesse a ogni aspetto, che fosse la sua origine newyorkese, l'ascesa di modelli gangsta, il trapianto in Italia, ma quello che mi aveva molto affascinato era un concetto che riguardava il rapporto tra hip hop e rap.
Aveva una vaga somiglianza con il cugino, più che altro fisica, ma si lasciava crescere una disordinata barba e un codino un po' unto che lo faceva sembrare un incrocio tra una giraffa e Lucio Dalla.
«Gia' te lo dico in termini poveri, tu tieni la fotta di fare il bibboy a tutto tondo, tieni la fotta di disegnare sui treni, tieni la fotta di scrivere i pezzi rap coi canoni che preferisci e con argomenti che si riferiscono a questi canoni, e tieni la fotta di fare gli scontri di rime con altri tipi pari a te. Ma 'sto rap devi iniziare a vederlo come quello che è: una forma di espressione. Partita agli albori come forma di espressione di una cultura, ma che si sta innestando su altre culture, altri contesti, altre lingue. Lo vuoi prendere o no 'sto fottuto disco dei Sanguemisto che mi ci scassi la uallera un giorno si e l'altro pure? Dai, recita» mi aveva esortato una sera mentre cazzeggiavamo.
«Recita cosa?»
«Recita Gia', recita delle rime che ti pare, da un pezzo qualsiasi» aveva insistito, frullando la mano come a dirmi di andare avanti.
Avevo rappato un pezzo di Cani sciolti:
«Neffa sulla traccia chico senti come suona
vengo da una zona dove l'aria non è buona
fumo la mia porra non mi pungo con la spada
caccio la mia rima per i cani della strada
e intanto il numero dei cani sciolti sta salendo
se ancora non li vedi è una questione di tempo
cani sciolti nelle cittá alzano il volume con il bum bum cha
ci credi o no c.h.i.c.o. non lo so
so di f.i. doppia s.o. che ci sarò
però quel giorno quando viene sará come tanti
con le iene di dietro e i cani di sciolti davanti.»
«Cioè lo senti? Lo senti come suona?» mi aveva detto, quasi con una punta di scocciatura nelle parole «È 'na cantilena. Santo, diglielo, è 'na cantilena. E quelli sono considerati figli purissimi dell'hip hop! Ma se parli di espressione attraverso il rap, tecnicamente uagliò fanno non dico ridere ma quasi. Massimo rispetto per i concetti espressi, ma tecnicamente se tu prendi nu' scem di ragazzino che viene qua dalle borgate ti fa qualcosa di meglio in quanto a incastrare rime, assonanze, giochi di parole: suona/buona, spada/strada, tanti/avanti, ma scherzerai?»
«Ma il rap non è solo tecnica, il rap è espressione, è potere alla parola, è sovvertimento dell'ordine attraverso un nuovo modo di esprimersi» avevo detto, o forse avevo recitato.
«Si, come no, il potere della uallera. No, compà il rap è un modo di esprimersi, mettitelo in quella cazzo di testa. Domani si sveglia un cazzo di figlio di papà industriale con la fabbrichètta, impara la tecnica fottendosene di tutti 'sti negri di Queensbridge e Compton, impara solo la tecnica e ci rappa sopra nu'cazz di pezzo tipo "50 special", quello non sarà hip hop ma è rap, e non si discute» e poi, dopo una breve pausa, come se cercasse la similitudine, giusta, l'aveva sganciata «È come se mi dici ah Orlà ma mica Paolo Conte è jazzista che quello mica è un negro di New Orleans che suo padre piantava cotone.»
Questo mi aveva colpito, molto: essere intransigenti come mi era capitato svariate volte, sentirsi necessariamente parte di qualcosa dai contorni sfumati come l'hip hop non facevano di me un migliore esecutore di una forma espressiva. Avevo virtualmente tirato anche io le Mentos ad Albertino, avevo detto cose inenarrabili agli artisti che secondo me avevano svenduto il genere come i Gemelli DiVersi, ma ripensando alle parole che mi aveva rifilato Orlà, a quel «Domani si sveglia un cazzo di figlio di papà», avevo iniziato a provare una punta di vergogna, ed a interrogarmi veramente se fosse il caso di continuare ad inseguire l'hip hop puro sperando che questo mi donasse "the art of rap".
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