Martedì 1 maggio 2001

Bene. La notte del concerto del primo maggio a Piazza San Giovanni avevo fatto a botte di brutto: mi ero appiccicato con uno che continuava a parlare del fatto che il rap vero non doveva mischiarsi a quelle cazzate di concerti senza senso ma doveva venire su con le sue forze tagliando i rami degli artisti commerciali eccetera eccetera.

Sei mesi prima io sarei stato lui, ma a quel punto sul palco ero stato contento di vedere Frankie Hi-NRG pur giudicandolo piuttosto mediocre in quanto a tecnica. Aveva cose da dire e le diceva, e lo faceva vivendo veramente l'hip hop e noi chi eravamo per dire il contrario?

E insomma alla fine mi ero pigliato pure una bottigliata sopra il sopracciglio, con tanto di punti di sutura, che ovviamente avevo dovuto comunicare a casa onde evitare che lo venissero a sapere da fonti terze e che si precipitassero a Roma scoprendo ad esempio il restyling di casa. Che, a dire la verità, un po' di apprensione me la creava.

Il Turci mi aveva infamato soprattutto perchè, con un sopracciglio marcato a quella maniera perdevo un po' dell'aura di bell'ambasciatore a cui lui teneva tanto e che, in quei mesi, gli era servita quando facevo da galoppino portando documenti, lettere, inviti, auguri e minchiate varie a gente che mi stava pure sul cazzo.

Le bottigliate mi avevano fatto capire che la questione più annosa dell'hip hop, nel nostro paese, era evitare che si autodistruggesse con faide interne come quelle tra il rap commerciale e l'underground. Preferivo di gran lunga il secondo, più vero, meno costruito, capace di dire più brutalmente cose che altri generi nemmeno sfioravano oppure toccavano in maniera molto leggera, diluendole, rendendole innocue. Quello che mi piaceva del rap vero era che non era innocuo, era tutt'altro che innocuo e alla meno peggio, se proprio non aveva nulla di serio da dire, era in grado di offendere con stile come nessun'altra musica era in grado di fare.

Finché esisteva l'underground, finché esisteva un serbatoio che produceva talento e tecnica, ci si poteva permettere una scena commerciale fatta di sonorità diluite e testi pressoché vuoti. Il problema era che, nelle jam hip hop avevo l'impressione di vedere spesso le stesse facce, di finire a fare gli stessi discorsi, a litigare per gli stessi motivi, a guardare di sottecchi i nuovi perchè «Non sai un cazzo della storia dell'hip hop.» Lo avevo vissuto sulla mia pelle: di storia dell'hip hop ne sapevo e nemmeno poca, grazie a tonnellate di materiale che avevo ascoltato negli anni precedenti, ma ero una faccia nuova, e quindi automaticamente ero nuovo.

«Stepz ma tu come lo vedi 'sto hip hop, cresce o no?» avevo chiesto a uno dei miei interlocutori preferiti, forse perché era pressoché l'unico che mi dava corda in quei dialoghi filosofici.

«Vedo tanti ragazzi entusiasti, che si avvicinano, essere a Roma è un privilegio, qui la cultura è radicata, è più facile avvicinarsi dai lati giusti. Ci sono i sucker, quelli che scambiano continuamente hip hop e rap e pensano che sia la stessa cosa, o quelli che vogliono rubare stilemi come le scuole di ballo che propongono danza hip hop, ma è normale. Il bello di questo movimento è che per definizione non è mai fermo, e quando pensi di riuscire a inscatolarlo quello scappa passando tra le sbarre ed è già due gradini sopra» mi aveva risposto, mimando i due gradini con le mani.

«E gli aspetti commerciali, come li vedi?» lo avevo incalzato, proprio per capire cosa ne pensava di quello che era il fulcro di molti dibattiti.

«Non me ne frega, ci saranno sempre quelli che ci vogliono fare sopra i soldi ma ti dico una cosa: guarda 'sta città?» mi aveva chiesto, allargando lo sguardo all'orizzonte, verso il centro storico, «vedi quanto è monumentale? Quanto è bella e nello stesso tempo senza senso? È la degna capitale di un paese ipocrita e corrotto: il centro monumentale e scintillante, le borgate lasciate ad andare a male. Presentarsi bene e nascondere l'immondizia lontano dai turisti, da chi viene a vedere. L'hip hop non lascia passare queste contraddizioni, le cavalca, le racconta, le esplode, le trascina sotto gli occhi di tutti, e chi pensa di poter portare tutto questo "in classifica" è un illuso, perché la gente non vuole sentire le voci di chi ha le pezze al culo. Chi vuole essere commerciale dovrà scendere a patti con i gusti del pubblico che guarda Sanremo e, automaticamente, sarà fuori dall'hip hop.»

«Ma magari farà rap» avevo replicato, cercando di inserire nel discorso, il pensiero di Orlando che tanto mi aveva colpito.

«Ma non sarà un bboy, sarà qualcos'altro, sarà una scimmietta ammaestrata buona per scrivere i jingle della pubblicità. Te la ricordi la Uno Rap?»

In un vecchissimo spot di inizio anni '90, la Fiat aveva piazzato una banda di breaker attorno a una sua macchina dallo stile un po' "giovane", con la nonnina che prima si mette le mani nei capelli poi finisce tenendo il tempo con la testa.

Era un rap banale con una rima terribile «Uno Rap è la Uno che mi acchiappa di più / sembra fatta per me, sembra fatta per tu», c'era da riderci sopra, avevo riso anche al ricordo di Stepz.

Ma nel profondo cominciavo ad avere veramente dei dubbi su come trattare l'argomento dell'hip hop, su tutte le rigidità che avevo avuto nel tempo sin da Cesena, quando persino una crew che conteneva tutte le discipline per me era un posto troppo morbido. Dove non si facevano le cose abbastanza underground. Dove non si cercava mai abbastanza di sovvertire il sistema. A Cesena dedicavo un sacco di tempo al writing, i rap che scrivevo erano avvelenati, basati più su un incanalare l'odio verso il sistema che sulla tecnica, e l'unico contatto con il pubblico diverso dagli amanti del genere era stato disastroso.

Roma in questo mi aveva cambiato. Le jam mi avevano cambiato. Il fortissimo senso di inferiorità nei confronti di chi sapeva rimare così meglio di me mi aveva cambiato. Ormai, dopo quasi un anno di capitale, avevo finito di prendere in giro quelli che avevano la maglia di Aldair ai concerti rap, bollandoli come gente finita lì per sbaglio, che non sapevano un cazzo di quella cultura.

Ma quello che continuavo a chiedermi era perchè quelli con la maglia di Aldair si erano messi a fare rap, ed erano sempre di più, tra collaborazioni, mixtape, pezzi caricati sulle piattaforme o mandati alle radio locali, CD smazzati fuori dalle jam e dai concerti. Ogni personaggio famoso, ogni gruppo, ogni collettivo si caricava di svariate facce che facevano rime, incidevano demo, in un fiorire di produzioni indipendenti che per la maggior parte passavano il tempo ad autoincensarsi sul fatto che erano indipendenti ed underground.

Mi sembrava di stare a scuola.

«Ragazzi, tema di oggi: quanto sono figo perché sono underground, e quanto sono traditori dell'hip hop quelli che hanno contratti con le major.»

E migliaia a fare svolgimento.

Questo metteva in crisi la mia idea di ricominciare a registrare seriamente, sostenere le spese per lo studio e tutto il resto. L'estate così era iniziata con una sorta di apatia, di voglia di non avere voglia, riempita di pesi, un tatuaggio Homo homini lupus, un altro con la data di nascita in numeri romani, e di sere passate più alle feste a smerciare e intortare liceali che a fare pezzi sui muri.

Diverse "liceali", avevano le carte in regola per far girare la testa a qualche personaggio che bazzicava nel mondo dello spettacolo e che puntualmente, non si sa come, era invitato a queste feste, a queste serate in discoteca.

"Non si sa come" era un modo di dire: erano gli stessi gestori, erano i proprietari di casa, erano gli "addetti ai lavori" che facevano entrare gli impresari che cercavano tipe carine, possibilmente gentili e disponibili, e in misura minore tipi carini, possibilmente gentili e disponibili. Che poi arrivasse veramente la chiamata dal mondo dello spettacolo non era detto, intanto si testava la gentilezza e la disponibilità.

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