Giovedì 12 ottobre 2000
Il quartetto abitava in una zona veramente di un altro pianeta rispetto ad esempio a dove c'era il deposito della metro. Sembrava di parlare di due città diverse, e successivamente avevo capito come in effetti fosse proprio così. Nella zona del Pincio i palazzi erano di uno stile decisamente più importante, ed entrando mi ero chiesto, per la prima volta, se sarei stato all'altezza.
Ma non tanto all'altezza delle pretese del Turci, a cui serviva mantenere buone relazioni sorridendo e rimanendo sullo standard del romacittàeterna-iltempononsirimettealbello-noncisonopiulemezzestagioni, ma a all'altezza di quello che volevo: essere in grado di sostenere la conversazione in una certa maniera creativa. Essere in grado di potermi distinguere agli occhi della gente: non più una emanazione del Turci, ma una persona in grado di gestirsi nei fatti e nelle parole.
Ci ero perfettamente riuscito, soprattutto grazie agli agganci che mi aveva fornito la signora di casa: l'America, il neoclassicismo, le periferie, gli spazi diversi, i contesti sociali diversi, il rap.
Si, belli miei, mica dico cazzate, avevo parlato di rap in un "Salotto Buono", avevo buttato lì la questione dei ghetti e delle rivolte razziali, avevo aspettato le inevitabili risposte, le critiche al modello mainstrem, ed avevo detto la mia, citando qualche rima, intelligentemente scelta nel mio appartamentino che puzzava già di erba.
Questo mi aveva permesso di ottenere diverse cose:
1) non avevo dovuto far finta di essere un figlio devoto. Il Turci era stato quasi completamente espunto dalla conversazione, così come il commercio di bare.
2) non avevo fatto la figura dell'inetto che faceva il finto studente a Roma tutto spesato.
3) il Turci si era complimentato perché, informato della cena, aveva poi parlato con il mio ospite che mi aveva dipinto come brillantissimo.
4) avevo iniziato a scopare la moglie americana.
Mi potrei gloriare eternamente di questo quarto punto, ma mi limiterò a parlarne subito dopo aver parlato della questione del graffito, rimasta in sospeso. Nove lettere, otto minuti a lettera, massimo nove. Mezz'ora di osservazione del deposito, di controllo del luogo, poi via, ero partito, agile come un furetto.
Non ero proprio un furetto, non giocavo a basket da play, ero un'ala grande alla Tim Duncan, con la lingua più tagliente.
La carrozza era lì, tutta per me, non era nuova ma doveva essere stata ripulita: alla poca luce si intravedevano segni di bomboletta attorno alle guarnizioni dei finestrini. Non osavo chiedere tanto: l'arte a cui viene tagliata una testa ma, come l'Idra di Lerna, se la fa ricrescere. Avevo impostato il timer, poi via, rapido il più possibile nonostante l'intricato lettering che avevo progettato.
Le L, le R, la Z, lettere spigolose che si prestavano ad incrociarsi nervosamente, ad allungarsi, dilatarsi, curvarsi a mio piacimento. Sudavo, sentivo l'odore della vernice sotto la mascherina, mi inebriava e mi sballava. Se sulle prime lettere ero stato un po' troppo lento, sulle ultime, con un gran senso di urgenza e con le braccia che prendevano il ritmo, ero stato una scheggia, finendo tutto in un'ora e quattordici minuti. Scavalcando la rete per uscireavevo sentito un cane abbaiare, una scarica di adrenalina mi aveva percorso un corpo già pieno di adrenalina. Non vedevo l'ora di veder passare la carrozza in qualche modo, ero carico a palla, non avevo dormito quella notte: Roma iniziava ad essere mia, quello era il mio biglietto da visita.
A proposito di biglietti da visita: per quanto riguarda l'americana, la roba era andata facile facile. Si inaugurava una personale di uno scultore orribile che Giacometti a confronto faceva i pupazzi per Disneyland. Lei mi aveva invitato, mi aveva tampinato, e nei suoi occhi avevo visto molto chiaramente le necessità, che aveva, e che mi erano sembrate da subito molto simili, come forma, al mio pisello.
Scopare una tizia d'accento americano con Ja Rule sparato dallo stereo mi aveva cortocircuitato. Con lei non parlavo molto ma nelle mie parole riguardanti il rap d'oltreoceano aveva trovato argomento interessante, tanto interessante da trovare anche me interessante.
La faccio facile perché era stata facile, era stata facile facile, e per motivi diversi non davamo l'idea di avere i rimorsi che forse avremmo dovuto avere. Lei sapeva perfettamente della preferenza del marito per ragazzine aspiranti star della TV come era stata lei dieci o quindici anni prima, io perché in fondo stavo creando nuove relazioni per il Turci, sebbene un po' sdrucciolevoli.
Ma sapete? Chi se ne frega. Era divertente, era un modo per passarmela bene, così avevo iniziato a giocare qualche partita in meno a basket ed a farmi una cultura sui bisogni delle donne annoiate della classe altoborghese romana, su cui avevo scritto le prime rime veramente porno.
Quello che mi aveva colpito era lo stato d'animo con cui raccontava quelle vicende: una voce lavorata attraverso una scuola di dizione, che aveva perso gran parte dell'accento, che parlava con disincanto, con annoiata indifferenza, di una carriera mai avviata, trasformatasi in una sorta di prigione dorata nel centro di Roma.
... it's like that, and that's the way it is.
Lo ammetto, andavo un sacco su e giù in metro per veder passare il mio graffito, per cogliere gli sguardi di chi se lo vedeva passare sotto. Sorridevo ad ogni «gajardo!» che sentivo dire, ma in cuor mio sapevo già che lo ero, che ero forte, che ero tosto.
A casa usavo ancora il liquidator sui gatti della gattara, davo mani di vernice bianca sui precedenti graffiti sul muro di casa e riprovato HELLRAZOR all'infinito, cronometro alla mano.
Mi godevo la Roma di ottobre attraversandola su e giù, in metro, in pullman, in bici. Il centro monumentale era imponente, era veramente monumentale, lontano dalla rappresentazione del tessuto urbano proveniente dal rap americano. Ma spesso si trovavano ragazzi che ballavano la break in giro: viale Regina Margherita, i portici di piazza San Giovanni Bosco, L'Air Terminal di Garbatella, vicino allo Stadio Olimpico. Faceva un sacco spicco questa cosa, o almeno la faceva a me: una cultura antimonumentale, estemporanea, così legata al qui e ora, fatta per durare il tempo della sua espressione, come lo era agli inizi, che si esprimeva in mezzo a una città piena di cose in piedi da duemila anni a celebrare i fasti di almeno un paio di imperi. Viale Regina Margherita ad esempio era una produzione dell'Impero fascista, i ragazzi che ballavano erano l'esatto opposto sulla scala dell'arte. Era fighissimo, ballare sui resti vuoti di zio Benito.
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