Mi cacavo il cazzo alla messa della domenica, non sapete quanto me lo cacavo. Mi ero messo ad ascoltare la scena romana, tipo un mixtape di due annetti prima che conteneva molti tizi che, nel bene e nel male, producevano hip hop a Roma e ne avevano esportato in tutta Italia lo stile. La banda der trucido si chiamava, lo sentivo e lo risentivo ma sembrava una cinquecento contro una Ferrari a confronto del suono che arrivava dagli States, che pure era slavato e ripetitivo da qualche anno. Eminem era bianco, non era nemmeno un culo negro, eppure incastrava pazzescamente.
Parentesi triste: Joe Cassano era morto, non lo so se lo sapete ma io lo sapevo bene. Joe era uno che se gli davi la ricetta del medico, se gli davi lo scontrino della spesa, se gli davi anche solo una cazzo di bolletta della luce, gliela facevi recitare su un beat, avresti sentito il flow. Avresti sentito un flow che in Italia non esisteva, il fluire delle parole perfettamente attaccate al beat, un'onda in piena di uno splendore che mai, in italiano avevo sentito. Potevamo chiudere il gap con l'America, o almeno stringerlo in maniera accettabile, con un paio di Cassano, in fondo negli ultimi quattro o cinque anni era uscito non molto, diciamo da Illmatic e i Morti Ammazzati in avanti. Se volete trovare qualcosa di zero innovativo, nel rap USA, pescate a caso lì, con fiducia.
In Italia, dati i ritardi sul tema, l'hip hop aveva dato invece il meglio proprio in quegli anni, ed era per quello che avevo coltivato con fiducia la mia attitudine che sapevo sarebbe diventata pazzesca. Ma quando l'avevo portata in piazza avevo trovato solo indifferenza. La nostra golden age si è chiusa con Joe Cassano.
Lui e un altro paio, erano i veri emcee. Kaos, un eterno chirurgo underground, con una timbrica da sborrare di piacere. E forse Zulù che però è sempre stato troppo comunista per i miei gusti, e forse quel Fibra degli Uomini di Mare. Ci voleva gente così, che se anche tutto inizia a far cagare, tiene la barra dritta. Invece è morto.
Mi facevo questi viaggi scazzatissimi in navata, mentre il tizio parlava delle solite cose. Vedere una messa è come guardare una partita di cui sai già il risultato.
Come al solito, all'uscita avevo calorosamente salutato chi dovevo. Mi ero fermato a scambiare due parole cordiali ma il più possibile distaccate con un uomo che avevo incontrato col Turci in una delle sere in cui ero dovuto uscire a cena con lui. La moglie decisamente più giovane aveva l'aria della zorra costretta in abiti non suoi, le tettazze scomodamente strette nella camiciola. Un paio di figli dall'aria assente, anch'essi scomodamente vestiti da damerini.
Ovviamente, in assenza del Turci, l'uomo mi aveva subito chiesto come andava la permanenza nell'Urbe da solo. Avevo inventato a piacere cazzate, con estrema professionalità per uno che voleva studiare arte e spettacolo. Erano residui di studi delle superiori ma erano bastati a gente che non distingueva il Colosseo dal Palaeur nonostante si dicesse orgogliosamente romana. La moglie no, avevo scoperto essere di origine americana, di nonni italiani, con una piccolissima carriera nel mondo del cinema, come ovvio.
L'invito a cena, per continuare a conversare, quasi per farsi fare lezione sulla loro città, era scattato automatico per quel giovedì, e se da un lato voleva dire che ero veramente bravo a darla a bere, dall'altra dovevo prepararmi a una devastante frullata di coglioni.
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