Domenica 3 settembre 2000

A settembre ero andato persino un po' al mare, in mezzo a tutti quegli zarri ed alle loro famiglie casinare. Mi aveva invitato uno dei soliti amici di mio padre che si stava premurando che non rimanessi troppo solo a Roma. I temi sul tavolo di quella giornata erano diversi, ovviamente:

1) farmi vedere quanto era figa la sua villa a Santa Marinella, facendo capire indirettamente al Turci quanto fosse potente e quindi quanto fosse importante averlo come amico.

2) avere un resoconto meno filtrato di che tipo fosse veramente il Turci, e di quanto valesse suo figlio.

3) cercare di piazzare sua figlia, assolutamente inscopabile, che faceva la ribellina con la maglia di Che Guevara che sarebbe stata larga persino a me, da quanto era chiatta.

Ovviamente lei aveva provato a farsi montare, con tutti quei discorsini tipo cosa studiavo, cosa volevo fare, per poi partire a parlare per un tempo che mi era sembrato infinito più dei peggiori pezzi degli Oasis. Ero riuscito a stare talmente sul vago che lei probabilmente mi aveva considerato quasi tonto, o comunque non alla sua altezza. Roba da sbudellarsi dal ridere.

Me la ridevo, mentre tornavo in macchina sull'Aurelia, verso l'appartamento, ma alla vista di un campetto di basket 3x3 a due passi dalla spiaggia mi ero fermato. Non giocavo a basket da un botto, mi ero gasato tra giugno e luglio dell'anno prima per l'impresa di Myers e soci, e avevo voglia di un pallone tra le mani. Avevo osservato giocare i più o meno ragazzi, e così come succedeva da noi ci si sfotteva. Ma il modo pungente e grasso con cui lo facevano loro mi aveva incantato.

«A Beverly Hills! Hai fatto tilt come i flipper?! Pari 'na statua.»

Si, è vero, mi ero incantato. Poi mi ero guardato: avevo ancora addosso quella roba da villa figa che non mi si addiceva.

«Mai statue quanto voi, a giocare parete la moviola di Biscardi.»

Insulti, calcio, risposta pronta. O scoppiava la rissa, o mi tiravano il pallone accettando la sfida.

«Mo' vediamo se sei gallo o pollo» aveva replicato un tizio con la maglia di Scottie Pippen.

Avevo giocato due ore a torso nudo facendo cinque litri di sudore e sfoggiando le peggiori esultanze da niggaz della NBA. Quando fu chiaro a tutti che ero semplicemente nella media e il mio era stato un modo per entrare nel gioco, il livello degli insulti riprese magicamente quota. Ero dentro un flow fantastico. Finito tutto, avevo sentito l'esigenza fortissima di fumare e ascoltare un beat. Dovevo scrivere, dovevo assolutamente scrivere barre usando le similitudini legate al basket.

«'A Brandon Walsh, non vai a casa?»

Avevo fatto fumare anche un paio di tipi mentre prendevo il block notes e scrivevo barre che mescolavano pallacanestro e insulti. Si erano interessati di quel mio scrivere fitto e altalenante.

«Prendi appunti per l'Eurolega?» avevano insistito, sbirciando.

«No, scrivo rap.»

«Yo!»

A quel «Yo!» avevo tirato giù le serrande diventando refrattario a qualsiasi altro discorso. Odiavo quando mi facevano «Yo!» tenendo pollice, indice e mignolo aperti verso il basso, in una posa che, se mai era andata in auge nel nostro cazzo di genere, in quel momento era fuori moda quanto le voci in falsetto dei Pooh. Avevo più o meno scritto fino a che il colore del cielo lo aveva permesso. Poi ero rientrato e dal balcone avevo sparato col Liquidator ai gatti che vedevo passare. Mi sentivo gangsta il giusto. L'estate romana, sebbene appena refrigerata dal ponentino, non era così male.

E così avevo trovato il passatempo di metà estate: in una Roma calda, giravo i campi da basket, sfidavo i locali, perdevo e vincevo, diciamo 45-55, e facevo incetta di insulti da riutilizzare. In capo a due settimane avevo un vocabolario di sfottò che mi entusiasmava, una voglia smodata di scrivere ed una altrettanto smodata voglia di fumare. Preparavo punchline che spaccavano e gremavo cannoni, facendo finta di credere che la messa mi purificasse e mi facesse uscire uomo nuovo.

Avevo fatto conoscenza con un paio di tipi che rimediavano il fumo a prezzi eccellenti per uno che a Cesena lo pagava di più. Ero contento, anche se i soldi che spendevo erano più del previsto. Quando avevo sentito il Turci, gli avevo fatto presente che i conti della diaria erano sbagliati perché io non sapevo cucinare e i pasti fatti in giro avevano asciugato in fretta il portafoglio. Era una scusa banale, ma non del tutto campata in aria, dato che a casa non cucinavo certo io.

Lui come al solito aveva rotto il cazzo iniziando a dire che potevo andare a Porta Portese a rivendermi qualche pezzo dell'impianto musicale.

«Non dire cazzate. Quello per me è importante come per te una epidemia di Mucca Pazza» avevo risposto, tagliente.

«Fai quadrare meglio i conti, signorino» aveva detto, con piglio scocciato da precettrice di Heidi, fingendo di ignorare la mia battuta perfetta, «Non sono disposto a mandare soldi supplementari.»

Che puntualmente erano arrivati da mia mamma, duecento carte sul conto, subito spese per metà in fumo. Vista la differenza di prezzo, avevo anche pensato che potevo rivenderla a Cesena e farci la cresta, ma sarebbe diventato complicato mantenere un giro di rifornimenti da una volta al mese o poco più.

I locali un minimo alternativi che frequentavo mi piacevano più per la musica che per la gente, però. Ho già detto che avevo un carattere difficile, ma tutto quello starnazzare mi dava sui nervi: finchè si trattava di sfidare e insultare tipi su un campetto da basket, era divertente fare la ruota come i pavoni. Ma farlo dentro una discoteca, per quanto alternativa, era da grezzi del cazzo. E quello che mi lasciava più stupito era che quel grezzume piaceva anche alle ragazze, che nel brodo di borazzo ci sguazzavano, masticando cicche peggio di un film di Verdone anni '80.

A uno dei meno peggio che avevo beccato sui campetti, con le movenze e la faccia alla Gregor Fucka, avevo chiesto dove trovare locali veramente hip hop a Roma. Me ne aveva nominati un paio, con una musica molto figa ma pieni di gente che era hip hop quanto io ero negro. Mi dava sui nervi tutto questo, mi sembrava di vivere l'ennesimo mondo alla rovescia: tutti si credevano fenomeni perché avevano inciso un demo o erano comparsi su un mix o avevano rimato con questo e con quell'altro.

Un bla bla bla continuo che mi irritava.

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