Domenica 24 dicembre 2000
Da bamboccio mi sentivo un alieno, amavo il rap e andavo matto per i jeans larghi e le felpe giganti, sgargianti, possibilmente di squadre di NFL come gli Oakland Raiders o i Pittsburgh Steelers, o NBA tipo Lakers o Pistons. Chiedevo dei CD di tutti i gruppi ed i rapper che arrivavano dagli Stati Uniti, e di tutti quelli italiani che si riuscivano a reperire. Ero rimasto affascinato da Tupac e dal suono della west coast, più che da quello canonico della scena newyorkese. Stavo un sacco di tempo a scoprire le canzoni di qualsiasi rapper, ogni giorno memorizzavo rime per me nuove, affascinato tanto da voler fare partecipi anche i compagni di scuola, che invece si erano limitati a prendermi per il culo. Mi dicevano che non era musica e che lo facevo solo per fare l'alternativo del cazzo, rimanevo pur sempre il figlio del beccamorto. Bella roba, loro si imbottivano di eurodance fatta con lo stampino, senza sapere che l'anima del campionamento era la medesima. Oggi il rap è ovunque e quella nicchia composta da sfigati coi calzoni larghi è diventata la massa che in discoteca si muove ascoltando trap con un drink in mano.
In quest'epoca strana dove si inaugura la classifica dei dischi di vinile più venduti e nello stesso tempo di dichiara che centotrenta ascolti streaming valgono quanto una copia venduta di un singolo/album, siamo passati dai baggy agli occhialini della DPG e dalle rime che parevano filastrocche cantilenate ad incastri complessi, per poi scoprire che in fondo, le rime se poi non le chiudi non è così importante.
Credo che un po' tutti quelli che si sono appassionati al rap nei primi vent'anni della vita di questo genere, abbiano sempre sperato di sentirlo in radio, di guardarlo nelle tv e di vederlo sempre più diffuso. Ma oggi quell'atmosfera sembra essersi persa come il groove di quegli anni. Nonostante l'ostentazione e il fascino del bling bling ci siano sempre stati e siano tratti distintivi del rap, oggi, come in tutta la musica, è preponderante il personaggio che si va a creare rispetto alla cultura e alla minuzia verso gli aspetti tecnici e i contenuti.
Conta il personaggio, e sebbene ci avessi messo troppo, in primavera lo avevo ormai capito, interiorizzato e sfruttato quanto bastava per mettere il piede saldamente sul primo scalino. Ma andiamo con un certo ordine, perché di roba ne devo dire parecchia.
A natale non ero tornato a casa a Cesena perché quel periodo era per me, già da qualche anno, la fiera dell'ipocrisia.
Si passava il tempo a vedere, in casa o fuori, gente cerimoniosa con cui intrattenere discorsi vuoti che servivano a camuffare dei meri rapporti commerciali in sincere amicizie, magari un po' rarefatte, ma pur sempre amicizie. Il Turci raramente mi permetteva di evitare quelle scartavetrature di palle, perchè doveva a tutti i costi presentarmi come un trofeo nella gara degli ottimi genitori, facendo quasi passare per meriti suoi i pochi miei interessi che per lui erano passabili, e sfoggiando idee di futuro luminoso perseguendo le mie aspettative.
Quante cazzate. Lo sapevo solo io perché lui mica se ne accorgeva o forse addirittura era in buona fede, o forse pensava fosse per una buona causa. Quante volte a domande idiote come «E a fidanzate come siamo messi?» avrei voluto rispondere «A che serve una fidanzata quando tua moglie mi fa dei bocchini leggendari?» Posso assicurarvi che il labbro quasi tremava per la voglia che avevo di dirlo, ma mi ero sempre trattenuto ripetendomi che non era il mio mondo e se era popolato da gente di merda, non sarebbe stata una battuta, per quanto devastante, a farlo cambiare.
Quindi, benvenuto natale romano! E poi, senza distogliere gli occhi dal lato economico, con tutti i ricevimenti e le varie feste "in società", il giro delle pippatrici rendeva un sacco di soldi senza fare null'altro che passare a fare un saluto e bere un caffè. Il Turci era felice perché non erodevo la sua solidità economica, il mio lavoro di pubbliche relazioni era buono, facevo bene i compitini ed in alcune occasioni avevo persino scambiato qualche parola con i figli dei personaggi che avevo incontrato, trovando una diffusa voglia di evasione.
"Evasione", potevo immaginarmelo.
In chiesa facevo finta di ascoltare. In realtà mettevo in fila le cose da fare e i conti da sistemare, tanto a nessuno fregava nulla della mia totale assenza in quell'ora di rottura di cazzo. All'università ci andavo per passatempo e raramente, e sempre più spesso sentivo lamentarsi i ragazzi di questioni di affitto, mentre arrivavano i mesi più complicati, che ti costringevano in appartamento per via della pioggia o del freddo.
Affitto, affitto.
Padroni di casa merdosi, truffe, appartamenti fatiscenti, affitto, infissi rotti, puzza di fritto, impianti che non riscaldavano, affitto, affitto, coinquilini rompicazzo, discussioni per i cibo.
Affitto, affitto, affitto.
E così, perchè no? Tirare su tre o quattrocentomila lire al mese con un coinquilino non era una brutta idea: avevo buttato là anche io un avviso "posto letto in appartamento" vergandolo con un lettering urgente e appiccicandolo alla bacheca. Era la prima volta che scrivevo qualcosa dentro le aule universitarie.
Se si escludono le tag nei cessi.
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