5.
Siccome Jane non ne poteva più di star seduta lì, in compagnia di uno spettro in carne e ossa, decise di fare qualcosa che la tenesse occupata in attesa che Mark tornasse. Recuperò il mocho dallo sgabuzzino e ripulì lo schifo per terra. Poi aprì il frigo e anche lì riordinò. D'un tratto non ne poté più e mormorò al signor Cohen di andare a mettersi in soggiorno, per guardare la tv, ma il vecchio scosse la testa. Jane capì che non voleva sedersi sulla poltrona dove stava quella creatura infernale e non se la sentì di biasimarlo.
Dopo aver rassettato, si fece coraggio e andò nella stanza da letto con la fiaschetta d'acqua benedetta stretta in mano. L'armadio non aveva dato più segni di vita ma il demone si era ficcato lì dentro, per cui...
Forse non è l'idea del secolo, si disse.
Nonostante ciò continuò ad avanzare. L'esperienza le aveva insegnato che se il cavallo ti disarciona, tu devi subito rimontare in sella. Più tempo attendi, più la paura si indurisce e alla fine scalfirla diventa complicato.
Si fermò a un metro dall'armadio. Non avvertiva alcuna sensazione medianica. Niente nodi allo stomaco, mal di testa o altro. Confortante, ma meglio stare all'erta. I demoni erano scaltri. Con il cuore che scalpitava come... be', come un cavallo, Jane afferrò il pomello di un'anta. La destra era ben levata dietro la testa, pronta ad innaffiare qualunque cose si decidesse a far capolino. Strinse le dita intorno al pomello e con uno strattone spalancò l'anta.
All'interno dell'armadio c'erano solo vestiti. Per lo più pantaloni e camicie appese alle grucce. I cassetti di certo contenevano la biancheria intima. L'insieme era piuttosto deprimente e l'odore non migliorava certo l'impressione generale. Ma a parte quello, si trattava di un normalissimo armadio. Jane abbassò la mano con l'acqua santa e chiuse l'anta sentendosi vagamente scema. Si voltò per tornare di là e vide, oltre la tendina, che il signor Cohen s'era voltato a guardare. Mise piede in cucina e mormorò: «Tutto bene.» Aveva capito che, se non si sforzava troppo e respirava piano, il dolore era sopportabile. Forse aveva una costola mezza incrinata o, Dio non volesse, rotta. Alla sua età, certi infortuni erano una brutta rogna.
Il signor Cohen parve rilassarsi, giusto un po'. Jane si riaccomodò e, proprio mentre sedeva, udì dei tonfi. Lei e il signor Cohen sobbalzarono. Si guardarono e Jane mollò un sospirone. Un fuoco le morse il fianco e le fece digrignare i denti.
S'alzò e andò alla porta. Guardò dallo spioncino e aprì. Mark sventolò il taccuino, fitto di appunti, ed entrò.
«Buone notizie», disse infilando il corridoio. «Il mio galoppino mi ha fatto un resoconto completo.»
Entrò in cucina.
«Come va, signor Cohen?» chiese con brio.
Cohen fece un gesto vago con la testa.
«Grande», rispose Mark e sedette.
Jane si accomodò alla sua sinistra. Mark schiaffò il taccuino sul tavolo.
«Andando a spulciare negli archivi della polizia è uscita fuori una storia interessante.»
«Ovvero?» mormorò Jane.
«Ehi, riesce a parlare.» Jane fece roteare la mano: va' avanti. «Okay, ho scoperto parecchia roba e molto inquietante.»
Il signor Cohen smise di contemplare il vuoto e sollevò la testa.
«Un tizio...» Mark buttò un occhio agli appunti. «Robert Conway, che è nel braccio della morte, ha fatto fuori una ragazza, Meg Lawson. Ora, a quanto pare questo Conway non ci stava molto con la testa, e non mi riferisco solo al fatto che uccideva ragazzine. Pare che intrallazzasse pure con una setta.»
«Setta? Che tipo di setta?» chiese Jane.
«Si fanno chiamare...» Una sbirciata agli appunti. «I figli di Carnacki, che non so chi sia, ma so che quelli che gli vanno appresso sono svitati col botto e tra questi c'era anche Conway. Quando gli sbirri hanno fatto irruzione qui dentro l'hanno beccato con un grosso libro, mentre leggeva robe senza senso e intanto intrallazzava col cadavere della ragazza. L'aveva piazzata in un cerchio rituale, che mo' non ricordo come si chiama...»
«Un pentacolo», mormorò Jane.
«Quello, e l'aveva riempito di cose assurde, tipo terra di cimitero, serpenti morti, teste di ratto e altra roba da manicomio. E in mezzo a quel casino c'era la ragazza che...»
Si fermò, gli occhi sugli appunti. Jane tamburellò con due dita sul taccuino per sollecitarlo. Mark sollevò il volto, un po' a disagio.
«Questa parte è meglio se se la legge da sola.»
Spinse il taccuino verso Jane come se fosse qualcosa di sporco e repellente al tatto. Jane sfogliò le pagine e lesse con attenzione. Mark aveva trascritto alcuni dettagli di cui anche uno stomaco forte come il suo avrebbe fatto a meno. A quanto pare Conway voleva trasformare l'armadio in un portale, ma per aprire quelli che lui chiamava I Cancelli dell'Inferno aveva bisogno di un sacrificio umano. Così aveva rapito Meg Lawson, l'aveva violentata – perché Carnacki rispondeva solo al richiamo della carne corrotta – e infine le aveva...
Jane spinse via il taccuino come aveva fatto Mark, piantò un gomito sul tavolo e si coprì il volto con una mano. Sospirò piano e chiuse gli occhi. Una ciocca di capelli bianchi si accomodò sul dorso rigato da venuzze blu appena visibili. Si prese qualche secondo mentre la mano di Mark trascinava via il taccuino e, quando riaprì gli occhi, vide che il signor Cohen stava leggendo il resoconto del giornalista. Jane attese che arrivasse al punto in cui Conway mutilava in modo indicibile la ragazza e lo vide alzarsi e lasciare la stanza per dirigersi in bagno. Si chiuse la porta alle spalle e Jane aspettò di sentirlo dare di stomaco, ma udì solo lo scroscio dell'acqua del rubinetto.
«Come lo rimandiamo all'inferno?» chiese Mark.
«Per sconfiggere un demone c'è bisogno prima di tutto di conoscerne il nome», disse Jane.
«Ce l'abbiamo il nome, si chiama Carnacki.»
Jane annuì. «Questo ci dà un potere sull'entità. Sapendo il suo nome, possiamo praticare un esorcismo.»
«Pensavo si facessero solo alle persone.»
«Pensava male.»
Gli occhi di Mark andarono alla valigetta, che conteneva anche un libro ciccione, dalla rilegatura rigida e rossa. Mark non riuscì a decifrare il titolo che era in latino.
«Ne ha mai fatto uno?» chiese a Jane.
Lei annuì. «E com'è andata?» Un'ombra passò negli occhi della scienziata dell'occulto. «Così male?»
Il signor Cohen uscì dal bagno. Aveva l'aria un po' sfatta. Riprese posto e Jane colse l'occasione per chiedergli: «Signor Cohen, quel... mostro, è la prima volta che si fa vedere, vero?»
Il vecchio sollevò la testa con un moto di sorpresa. Fissò per n lungo momento Jane e infine annuì con un certo sforzo.
«Ma perché ha scelto proprio stasera?» chiese Mark.
«Se ci pensa è piuttosto ovvio», disse Jane.
Mark rifletté, poi disse: «Perché ci siamo noi.»
Jane annuì. «Ha percepito un pericolo e ha subito messo le cose in chiaro.»
«Ma lei può scacciarlo, vero?»
«Posso provarci», disse Jane e si alzò.
La fitta al fianco le inviò una folgore e lei si piegò con un grugnito. Mark fu subito in piedi per aiutarla, ma Jane gli oppose una mano.
«Ce la faccio», disse. Si mise dritta, per quanto il dolore glielo consentisse. «Per questa cosa avrò bisogno di lei.»
Mark annuì due volte e la seconda sembrò più convinto. «Sì... d'accordo», disse. Poi chiese: «Sarà spaventoso?»
«Divertente non sarà. Signor Cohen, mi servirà anche il suo aiuto.»
Il vecchio sollevò la testa di scattò e stavolta parve terrorizzato, gli occhi grandi e le palpebre tirate su come tapparelle.
«Tranquillo, non dovrà fare nulla di che, mi basta solo che preghi mentre io recito la formula di rito.»
«Io... sono ebreo.»
«Va bene lo stesso, può recitare qualche verso della Torah.»
Sorrise nel vano tentativo di infondergli un po' di coraggio, ma il vecchio non recepì. Era invischiato nella ragnatela di terrore che la sua mente stava tessendo. Dargli un compito come quello di recitare una preghiera, sebbene inutile, serviva a distrarlo. I demoni si nutrivano di paura e Jane voleva evitare di servire a Carnacki un banchetto prelibato.
«Può farlo anche da qui», aggiunse come incentivo e Cohen annuì, un pelo più tranquillo.
«Posso stare qui anche io?» chiese Mark.
«No, lei mi serve di là», fece Jane. Pigliò la boccetta di acqua benedetta e gliela schiaffò in mano senza andare troppo per il sottile. «Ne abbiamo poca, perciò la usi solo se le cose si mettono davvero male.»
«E come faccio a capire se si mettono davvero male?»
«Lo capirà, si fidi.»
«Mi piace sempre meno.»
«Se vuole il Pulitzer deve stare in prima linea, mio caro. Ora mi ascolti con attenzione...»
Spiegò tutto a Mark, poi chiese al signor Cohen di mettere a bollire un po' d'acqua.
«Perché l'acqua calda?» chiese Mark.
«Per il tè», fece Jane.
«E a che serve?»
«Di solito lo bevo.» Mark la guardò perplesso. L'espressione smarrita fece sorridere Jane. «Bevo sempre una tazza di tè prima di affrontare un'entità.»
«Non ce l'ho il tè», fece il signor Cohen.
«Ce l'ho io, ne porto sempre una scorta.»
«Si porta appresso le bustine di tè?» fece Mark.
«Vero tè britannico. Trova strano che una vecchia signora del Sussex vada in giro con una scorta di infusi?»
«Dopo quello che ho visto stasera sto rivalutando il concetto di strano.»
Mentre l'acqua sobbolliva in un pentolino mezzo arrugginito, Jane prese un gessetto benedetto dalla valigetta e disegnò un pentacolo nella stanza da letto, proprio di fronte all'armadio. Posizionò poi delle tozze candele sulle cinque punte della stella e cosparse il cerchio esterno di sale.
«A che serve?» chiese Mark.
«A proteggerci quando il nostro amico ci attaccherà.»
Mark deglutì.
Jane tornò in cucina e il signor Cohen le porse l'acqua calda in una tazza bianca. Jane ci mise in ammollo un infuso alle erbe. Bevve e il calore del tè le riscaldò lo stomaco e tutto il corpo. Si sentì subito meglio, più presente e pronta a dare battaglia a quella creatura che si nascondeva nell'armadio.
«D'accordo, facciamolo», disse e si stupì nel constatare che la voce le funzionava di nuovo e la gola le faceva molto meno male rispetto a prima.
Miracoli del tè.
Si rivolse a Mark. «È pronto?»
«Non ne sono sicuro.»
«Riproviamo: è pronto?»
Mark sospirò. «Sì.»
«Con un po' più di convinzione?»
«Sì, sono pronto», disse Mark, un pelo più sicuro.
Accontentati.
Jane prese il libro rosso e con Mark si recò nella stanza da letto.
«Ora dobbiamo entrare nel cerchio», fece Jane. «Faccia attenzione a non pestarlo. Basta una piccola falla e l'intera barriera crolla.»
«Ci starò attento», promise Mark. Si girò un attimo a guardare il signor Cohen che li fissava dalla cucina. «Lui non lo facciamo entrare?»
«Non gli succederà nulla.»
«Ne è sicura?»
«No, ma il cerchio è già stretto così e non abbiamo spazio per allargarlo.»
Mark si rese conto che Jane aveva ragione. La stanza era piccola e il pentacolo rubava la maggior parte dello spazio disponibile. L'armadio era silente. Un semplice oggetto d'arredamento, utile a contenere abiti e non varchi dimensionali attraverso cui i demoni potevano accedere al mondo dei viventi. Si voltò un attimo per dire al signor Cohen di cominciare. Il vecchio, in piedi dietro la tendina, prese a mormorare sottovoce una litania per lo più gutturale mentre si tormentava le mani.
Jane si rivolse a Mark: «Pronto?»
Mark annuì. Fissava l'armadio, concentrato e teso. Jane sperò che tenesse botta e non finisse a strisciare sul sedere come la prima volta.
«Un'ultima cosa: i demoni si nutrono di paura, per cui si concentri su pensieri felici. È molto importante, mi ha capito?» disse Jane.
«Capito», fece Mark.
Jane prese un respiro e cominciò a recitare la formula in latino.
All'inizio non accadde nulla per un bel pezzo, poi un'anta dell'armadio si aprì con indolenza, giusto un po', come se qualcuno nascosto all'interno volesse sbirciare cosa accadeva lì fuori. Mark se ne accorse e anche Jane, che smise di recitare e lanciò un'occhiata a Mark. Lui annuì, come a dirle: sono sul pezzo, e lei riprese la cantilena in latino. Mark fissò la striscia di oscurità tra le ante, attento al più piccolo movimento. Stringeva la boccetta aperta d'acqua santa e aveva la fronte tutta piene di grinze da tensione. Jane non toglieva gli occhi dalla pagina. La sua voce suonava chiara e autorevole: ho il controllo della situazione, diceva quel tono.
Quattro dita scheletriche e grigiastre fecero capolino dalla striscia di buio e artigliarono l'anta. Parevano zampe di ragno: un grosso ragno grigio. Mark sentì i peli rizzarsi ma restò saldo, i muscoli tesi e pronti a scattare e le immagini felici proiettate sullo schermo nero della mente. Le dita di ragno restarono lì per un pezzo, immobili, poi si ritirarono nello spazio nero. Mark restò sorpreso e cominciò a rilassarsi istintivamente. Jane non ci cascò. Si sentiva invadere dalle stesse sensazioni medianiche che aveva provato quando erano rientrati nel condominio, dopo la cena frugale alla tavola calda. Sapeva che qualcosa stava per accadere e lo fece presente a Mark. Si interruppe per dire: «Si tenga pro...» e le ante dell'armadio si spalancarono. Un vento impetuoso e nauseante li travolse. Le camicie appese alle grucce ondeggiarono come lenzuola stese nel mezzo di una tempesta. Un paio volarono a terra. Le ante cominciarono a sbatacchiare a un ritmo indemoniato: SLAM! SLAM! SLAM!...
Mark teneva la bottiglietta sollevata dietro la testa, ma non poteva usarla perché non c'era nessun demone da inzuppare. Si chiese se non fosse il caso di innaffiare l'armadio, poi pensò a quel che gli aveva detto Jane e desistette. Non gli sembrava una situazione disperata. Assurda sì, ma non disperata.
Le ante andarono avanti a sbattere mentre Jane continuava a leggere, cercando di non farsi distrarre da quel casino. Ormai era quasi a metà della formula e non aveva dubbi che stesse funzionando. Quel casino ne era la prova. Continuò a leggere, più in fretta, stando attenta a non saltare le parole o incespicare. Il suo latino era un po' arrugginito, ma si stava sciogliendo e ora aveva preso sicurezza. Il suo tono di voce crebbe d'intensità mentre si avvicinava alla fine della pagina. Poche righe ancora. Le ante sbatacchiavano rabbiose, senza sosta,
(SLAM! SLAM! SLAM!...)
e la marea di sensazioni medianiche montava. Mark udì il nome del demone in quella sequela di parole per lui senza senso, poi Jane recitò l'ultima frase, urlandola, e nel momento in cui gridò la parola che chiudeva il rito di esorcismo, le ante si chiusero con un tonfo secco per non riaprirsi più. Il silenzio calò come un lenzuolo opprimente. Le sensazioni medianiche che invadevano Jane si dissolsero. Per un lungo momento nessuno parlò. Erano troppo scossi. Poi Mark mormorò: «Ha funzionato?»
«Credo...»
Le ante si spalancarono di colpo e dalle profondità nere dell'armadio emerse il demone. Si lanciò su Mark e Jane squittendo, bucò la barriera invisibile che si disgregò in una serie di piccoli lampi blu elettrico e con un manrovescio fece volare Mark contro la porta del bagno. Il giornalista sbatté come una palla matta e ricadde a faccia in terra. La boccetta rimbalzò lontano, versando a terra il suo prezioso liquido. Gli occhi morti del demone fissarono Jane. Il volto del demone, che conservava una fisionomia in parte umana come il frutto di un incesto blasfemo, si contorse in un sorriso feroce. Jane riconobbe le emozioni: rabbia mista a trionfo.
La mano scattò. Le lunghe dita serrarono il collo di Jane e la sollevarono. Bruciavano, quelle dita, come metallo lasciato al Sole. Il demone la attirò a sé. Jane provò a divincolarsi, ma la presa era salda come quella di un cappio stretto dal boia. Il demone la attirò tanto vicino da poterla annusare col naso camuso. Poi tirò fuori la lingua rossa e triforcuta e la assaggiò. La molliccia estensione strisciò sulla guancia di Jane, lasciando un residuo impalpabile di saliva appiccicosa. Jane gemette e al demone la cosa piacque parecchio, così come gli piacque il sapore della scienziata. Si leccò le labbra, sottili come un tratteggio di matita, ed esibì quel sorriso feroce. Spalancò le labbra e Jane quasi impazzì nel vedere le fila di denti pronte a mozzarle la testa. Tentò ancora una volta di divincolarsi, ma stava esaurendo energie e fiato. Con le ultime forze infilò una mano in tasca, recuperò la catenina e con più istinto che ragione ficcò la punta della piccola croce nella pelle morta della mano che la strangolava. Il demone strabuzzò gli occhi e squittì. Le dita mollarono il collo di Jane, che sbatté in terra come un sacco di patate. Il demone arretrò. Dal dorso della mano usciva un serpentello di fumo. I versi che faceva erano quelli di un coro di topi sofferenti. Gli occhi morti fissavano Jane e non c'era forse una luce di odio che faceva capolino in quella nebbia fitta?
Il demone allungò un dito scheletrico e lo infilò nella catenella. Diede uno strattone verso l'alto e squittì quando la piccola croce uscì dalla carne morta per cadere sul pavimento. Jane lo vide arretrare di un passo mentre si teneva il polso con l'altra mano ed emetteva piccoli ansiti doloranti, come i respiri di un uomo a corto di fiato. Alle sue spalle, le profondità nere dell'armadio succhiavano aria dal mondo dei vivi. Jane sentiva una sensazione fastidiosa allo stomaco, come di qualcosa che provasse a strapparle le viscere dal corpo. Il demone arretrò di un altro passo incerto e fu allora che Jane si alzò, quasi inciampò nei propri piedi, e si lanciò contro l'essere infernale come un giocatore di football pronto ad atterrare il quaterback. Spinse il demone nell'armadio mentre questi era distratto dal dolore alla mano e lo vide cadere squittendo e ruggendo nel nero senza confini, risucchiato in un vento caldo e maleodorante. Chiuse le ante e rinculò con un impeto che la fece ripiombare col culo a terra.
Restò lì ad ansimare e a pregare che le ante non si riaprissero. Poco distante c'era il crocefisso di sua madre. Lo recuperò, s'avvolse la catenina intorno alla mano, strinse la piccola croce nel palmo e mormorò un Ave Maria. Per un bel pezzo non accadde nulla, poi Jane udì un cigolio alle sue spalle: il signor Cohen che crollava su una sedia. Mark mugugnò e mosse la testa. Jane s'alzò e andò da lui. Si inginocchiò e lo voltò sulla schiena. Il giornalista aprì gli occhi, sbatté le palpebre e vide il volto teso della scienziata riempire il suo campo visivo.
«Mi ha investito un autobus?» mormorò.
Jane sospirò e si lasciò cadere a terra, stremata. Restarono lì, stesi come pelli d'orso sul pavimento di una baita, a fissare il soffitto e ad ascoltare i battiti del cuore nello stomaco.
«Sa dottoressa, non era esattamente la serata che mi aspettavo», disse Mark.
«Siamo in due, signor Stillson», fece Jane.
Ed entrambi risero. Fu una risata isterica, che indusse il signor Cohen a chiedersi se non fossero impazziti. Jane avrebbe voluto dirgli che ridevano proprio per non impazzire, ma non riusciva a smettere di ridere.
Alla fine avevano le lacrime agli occhi.
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