3. Amelia e Sophia


Volo fuori dal letto e mi catapulto davanti all'armadio.

Vestiti! Vestiti puliti!

Mi servono dei cazzo di vestiti puliti. Afferro un maglione di un grigio scolorito dal tempo e un jeans slavato, abbandonato da un secolo e mezzo in fondo al cassetto dei pantaloni.

Ho le tette gonfie e doloranti perché sta per tornarmi il ciclo e, per il medesimo motivo, due geyser dalla stessa circonferenza del sole mi sono spuntati sulla fronte. Ho le occhiaie, non dormo decentemente da settimane, e le labbra screpolate e livide agli angoli.

Sono orribile - da un punto di vista del tutto oggettivo - ho avuto tempi migliori, ma anche peggiori. Un po' di trucco qua, una linea tattica di eye-liner, del blush per ridarmi un po' di colore e del correttore per le occhiaie e imperfezioni.

Concludo raccogliendo i capelli in una mini coda bassa; ho a mala pena la lunghezza giusta perché non sfuggano dall'elastico. Non c'è tempo per una doccia e la frangetta sporca mi tocca fissarla agli angoli del viso con due mollette.

Afferro la giacca e la borsa e in soli dieci minuti sono sulla porta a indossare le scarpe.

«Dove vai così di fretta?»

Kyle - l'unico soggetto vagamente sopportabile in questa casa- allunga il collo verso di me. Mi squadra per un istante di troppo prima che la sua piccola bocca si pieghi in un sorriso.

«A derubare una banca,» rispondo mentre mi do un'ultima controllata sullo specchio all'ingresso.

Non attendo di ascoltare la sua replica. Allacciati gli stivali, prese le chiavi, schizzo fuori dall'appartamento in un nano secondo esatto.

L'indirizzo che mi ha mandato Soren porta fuori città e arrivarci a piedi richiederebbe troppo tempo. L'unica alternativa che ferma nelle vicinanze è la metro e in base al mio orologio passa esattamente tra sei minuti e dodici secondi.

Posso farcela.

Devo correre!

Allora corro. Chi se ne frega se sembro una papera! I miei stivali sono di seconda mano e di due numeri più grandi, ma sono di alta classe e li ho pagati più di quanto abbia mai speso per un paio di scarpe.

Mi annaffio di sudore, mi cola sulle sopracciglia e sulle tempie, e il reggiseno mi taglia sull'addome a ogni nuovo respiro. Eppure, arrivo alla fermata proprio all'apertura delle porte.

Un bambino mi fa una smorfia mentre prendo posto accanto a lui e a sua madre. Rispondo con una smorfia ancor più brutta e poi chiudo gli occhi per riprendere aria.

Ho corso per qualche metro e mi ritrovo già senza più fiato nei polmoni.
Se avessi i soldi mi iscriverei in palestra. No, non è vero. Detesto sudare perché mi sporca i capelli e detesto le palestre perché c'è sempre troppa gente.

E io e la gente... no, non sono fatta per starci in mezzo.

🛠️

Bellissimo.

Penso, ma in realtà sto girando in mezzo al nulla e qua non c'è proprio un cazzo di bellissimo.

Soren mi ha fatta finire in una zona di Minneapolis che non pensavo esistesse. C'è un lago nelle vicinanze - ovviamente - e ci sono degli alberi vecchi e squamosi che abbracciano la piccola valle. Il suolo è per lo più pianeggiante, un tappeto di foglie marroni ha ricoperto la terra e ogni nuovo passo è accompagnato da "crack" e "crick" che si perdono in un eco senza ritorno.

La stradina che mi ha portato fin qui è completamente sterrata, pietre grosse quanto i miei pugni segnano il confine con la boscaglia, e all'orizzonte non si vede l'ombra di un essere umano.

Il cielo sopra la mia testa è fatto di spicchi di nuvole e timidi raggi di sole; si avvicina il tramonto e a breve mi ritroverò al buio, con il cellulare scarico, a cercare chissà cosa nel mezzo di chissà dove.

Possibile che Soren mi abbia preso il culo?
Cazzo, sì! È assolutamente possibile.

Quando avevo dieci anni e lui quattordici, ricordo che si divertiva a nascondermi le bambole - che poi bambole non si poteva proprio chiamarle, erano solo pezzi di stoffa colorata e rappezzata insieme dalla vecchia signora Sullivan. Sta di fatto che quelle erano il mio unico gioco da bambina. Soren me le portava via e quando lo scoprivo e mi arrabbiavo, mi zittiva dandomi indizi per ritrovarle. Puntualmente, gli indizi si rivelavano falsi e io perdevo tutti i miei pomeriggio implorandolo di restituirmele.

Non lo faceva, Soren non mollava lo scherzo nemmeno quando mi vedeva piangere e singhiozzare.

Alla fine era Ivory, esasperato dai miei lamenti, a ritrovarle per me.

Amelia e Sophia, le avevo chiamate così. Amelia aveva una testa fatta di lana verde, i dettagli del suo volto erano stati cuciti con un filo di spago e il suo sorriso era tinto di pittura rosa. Sophia era completamente rossa. Non aveva espressione perché aveva solo due bottoni a farle da occhi, ma il suo vestito era più bello, fatto di pizzo bianco e fiocchetti, si apriva in un'ampia gonna e in un dolce scollo a cuore.

A dieci anni quelle erano il mio più grande possedimento. Ancora oggi - perché, pur non volendolo, sono comunque una sentimentale del cazzo - sento il groppo che sale in gola quando ci ripenso. Ma ormai sono andate perdute per sempre nell'incendio della nostra prima roulotte.

A seguire, la vecchia nonnetta Sullivan che viveva nella casa fatta in scatole di cartone volò in cielo. Non rimase più nessuno nel parcheggio a saper cucire bambole. E quando Ivory iniziò a far soldi con i suoi piccoli furti, i miei gusti erano ormai cambiati. Ero cresciuta, non avevo più bisogno di bambole, ma di vestiti e di un cellulare.

Ecco, vedete...

Soren è capace di riportare a galla dei ricordi che francamente preferirei rimanessero reliquie sotto l'oceano. Eppure, sono qua, a cercarlo, perché sono una cazzo di sfigata che non sa cos'altro fare e- c'è una casa!

Proprio in mezzo al bosco.

Suona come l'inizio di un film dell'orrore. Okay, non è esattamente una casa questa. Per essere più precisi; ha le parvenze di un vecchio capannone abbandonato perfino da Dio. Non è molto grande, l'ingresso è stato quasi completamente avvolto dalle erbacce e il tetto spiovente è di metallo, bucherellato e arrugginito. Non so di che colore doveva essere in origine, ora è del tutto marrone.

Un gruppo di uccelli cinguetta alle mie spalle, nel cuore della boscaglia, e questo mi da speranza. Non che abbia molto senso; io non ho ali per volar via, ma ho un paio di stivaletti che possono portarmi molto lontano... se non cado.

L'importante è non cadere.

Il cuore mi picchietta sulle vertebre, veloce e pungente, ancora e ancora.

Stringo la borsa al petto per darmi coraggio; il capannone tinge d'ombra il suolo che gli sta attorno. L'erba è scura e alta, mi arriva al ginocchio, e a ogni passo mi artiglia i polpacci quasi a volermi trattenere.
Faccio fatica a raggiungere la porta; devo staccarmi le spine dagli jeans una volta messo piede sull'attico. E poi... l'odore di benzina è la prima cosa che sento: intossicante e prepotente, mi invade le narici nell'esatto istante in cui socchiudo il portone.

Dentro c'è tanta luce, più di quanta avrei immaginato di trovarne. Sul soffitto intravedo le vecchie plafoniere a neon, alcune accese e altre spente, e l'interno ha le sembianze di un cimitero d'auto.

Ci sono pezzi di carrozzeria, ruote solitarie poggiate contro le spoglie mura, un motore completamente nudo abbandonato in un angolo.

Questo è decisamente il regno di Soren Pierce, solo lui potrebbe vivere circondato da pezzi di macchina e sentirsi felice.

«Soren!» chiamo ad alta voce.

Non ricevo risposta.

«Soren Pierce!»

Di nuovo, nessuna risposta.

Non ci credo che non è qui, lui deve essere qui! Mi addentro nel capanno e punto per prima la vecchia impala infondo a destra. È mezza smontata, le manca il paraurti e non una ma due gomme. La carrozzeria è di un intenso blu oltreoceano, ma è incrostata di ruggine e sembra aver perso la sua lucentezza da molto prima che venissi al mondo io. Sa di antico, di vecchio e inutilizzato, ha quel fascino che soltanto un fissato cronico potrebbe apprezzare.

Soren è uno di quelli; lo so perché ho vissuto quasi tutta la mia infanzia e adolescenza guardandolo trafficare con i suoi attrezzi da meccanico. Suo zio Vincent aveva un'officina nei bassi fondi di Minneapolis quando eravamo piccoli e Soren passava lì tutti i pomeriggi. Ivory spesso lo seguiva e io li andavano dietro; avevo sì e no otto anni, ma avevo già deciso di preferire la puzza di olio di motore a quella dell'alcol e dell'erba.

Eppure, non ho mai imparato un cazzo di auto.

Mi limitavo sempre a osservare e a commentare, quando potevo e volevo, per il semplice gusto di dar sui nervi a Soren. E Dio- si arrabbiava sempre così tanto!

Quando mi trovo davanti all'impala mi rendo conto che due gambe vestite di jeans sbucano da sotto il baule.

Lo sapevo!

Do un calcio a un piede e poi anche l'altro, soltanto al terzo calcio Soren scivola da sotto la macchina con la fronte corrucciata. Ha le cuffiette alle orecchie, la linea dura delle sue sopracciglia crea un solco perfetto che gli contorna gli occhi... non sembra molto contento.

Bene - penso - il sentimento è reciproco!

Soren si pulisce la mano sul davanti dei pantaloni e poi si sfila le cuffie.

«Mi ero quasi dimenticato di te, piccolo demonio,» dice con un sospiro.

Ecco... vorrei che anche questo fosse reciproco.


• ADR SPACE 🐠

Attenzione, Soren Pierce ha fatto il suo ingresso!

Ci piace? È ancora presto per dirlo. Nel dubbio, mi piacerebbe sentire un vostro parere su questi primi capitoli.

Se la storia vi sta piacendo lasciatemi anche una piccola stellina, significata tanto per me!

Al prossimo aggiornamento💋

Aylin D. Rosewood

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