On mord toujours la même pomme, le serpent danse alors que l'on s'enferme

1821

Avvengono inaspettatamente, così, tra lo stupore e l'emozione, gli incontri sconvolgenti.

Incontri che mai avresti immaginato si sarebbero verificati.

Eppure accadono.

Come botti di petardi scoppiettanti all'improvviso, permeanti l'aria di fumo.

Bussa alla porta un giovane elegante, di bell'aspetto, dallo sguardo malinconico e rade basette che spopolano tanto tra le brigate di aristocratici. La domestica lo prega di aspettare. Prima conviene che lo annunci alla Baronessa vedova.

«Non è un tipo loquace, sa...»

Già dal biglietto da visita consegnato dal giovane misterioso, però, la domestica accusa un sussulto. Santi e beati del paradiso, la padrona come reagirà? Digerire una venuta del genere! Speriamo che non accoppi quel vecchio cuore che ne ha già passate tante in settant'anni e passa di vita.

Franz Xaver Wolfgang Mozart, reca scritto il biglietto fatidico.

Franz Xaver Wolfgang, l'ultimo figlio di Wolfgang e Constanze, nato pochi mesi prima della dipartita del padre. Praticamente è cresciuto senza vederlo, imboccato a storie e resoconti ingigantiti, manipolati nel mito.

Cosa lo spinge a cercare un colloquio con l'anziana e decrepita zia? Nannerl non ha mai conosciuto i figli del fratello, né Wolfgang ha intessuto contatti con i suoi.

Quando la domestica riporta quel nome, Nannerl se lo fa, per precauzione, ripetere una, due, tre volte di seguito. Non può aver preso un abbaglio. Franz Xaver. Qui. A Salisburgo. Presso la sua dimora. È sicura? Ha udito bene? La domestica scandisce il nome sul biglietto da visita, una calligrafia arzigogolata, tutta garbugli, riccioli e spirali. È un bel ragazzo, dice, sulla trentina, scuro e minuto.

Franz Xaver. Nannerl sbircia alla litografia della Vergine affissa sopra il suo letto. È un disegno tramato dalle stelle? Dal cielo? Si ritocca frettolosamente alla specchiera, malgrado la vista calante, la crocchia grigia appuntata sotto una cuffietta in merletto da vecchia bacucca qual'è, scendendo poi in salotto.

Il nipote è rimasto nell'atrio. Si volta al fruscio delle sottane in cima alle scale, allo strusciare di dita inanellate e rugose sul corrimano, al bastone sui gradini.

Udito fine. Come Wolfie.

Franz Xaver Wolfgang - o può chiamarlo solo Franz? - si appropinqua a lei velocemente, come desideroso di ricucire una faglia famigliare durata troppi anni, le prende la mano tremante che Nannerl ha accostato alla pettorina ricamata, forse a ripararsi dalle emozioni travolgenti, un uragano di emozioni imperante nel cuore, e la trattiene per un signorile, galante bacio sul dorso striato di vene e incartapecorito dall'età. Nannerl si rimangia un singhiozzo strozzato.

Sorride. Il nipote le restituisce il sorriso. Ha mani callose di pianista. Percepisce la pelle coriacea, inspessita, sui polpastrelli che tanto martoriano i tasti.

Esattamente come Wolfie.

«Signora zia.» la omaggia, rispettoso, Franz, offrendole l'incavo del gomito piegato come appiglio verso il salotto. La domestica esce, si defila in cucina. Alla padrona la sua intimità. «Sono onorato di fare la vostra conoscenza.»

La conversazione tra zia e nipote, divisi da decenni di silenzio e diffidenza - una diffidenza astiosa di cui, chiaramente, Franz Xaver, quanto suo fratello, non ha nessuna colpa - si spalma su parecchie ore. Ma, prima di tutto, su richiesta esplicita di Nannerl, che stenta ancora a riprendersi dalla meraviglia, Franz avverte doveroso spiegare la motivazione che l'ha portato a questa visita priva di preannuncio.

È reduce da una tournée. Tournée, Nannerl freme alla parola fatale, una nuova linfa irrorata nelle vene. Tra le mete, continua Franz Xaver, ha toccato anche Monaco e aveva da tempo in programma di raggiungere Salisburgo, il borgo natale dell'illustre padre. Qualche settimana fa, a Francoforte, il 5 dicembre 1820, ha diretto il Requiem di Wolfgang.

Il Requiem, fucina di leggende. Un indizio si assomma a un altro. È un musicista. La notizia dell'esecuzione della messa funebre arriva dritta a lei, suscitando un fascio di brividi elettrici lungo la schiena ingobbita.

La musica di Wolfie vive in suo figlio.

Il maggiore, Carl Thomas, la informa Franz, si è stabilito in pianta stabile a Milano, assunto quale impiegato civico del Vicerè di Napoli nel capoluogo lombardo, prima in qualità di traduttore, poi di contabile di Stato, dedicandosi alla musica come diletto.

Franz Xaver Wolfgang è stato invece indirizzato alla musica dalla madre.

Dunque, cogita Nannerl, in questo giovane uomo fatto e finito, con una patina di tristezza aleggiante negli occhi scuri, suadente e teneramente timido, il sentimento per il genitore e per la musica è forte, importante, cardine del suo agire.

Un sentimento conquistante Nannerl. Franz Xaver le piace. La simpatia verso un nipote di cui ha ignorato l'esistenza e l'attività finora, e di cui spia i lineamenti, nella semi cecità opaca, per appurarne la somiglianza con il defunto fratello - scarsa nelle tonalità del crine e dell'incarnato, favorisce il lato materno - cresce, fino a trasmettersi, palpabile, anche a Franz, convincendolo a confidarsi. A dialogare con la zia. Sanare una frattura. Con rispetto. Con modestia.

Franz Xaver arrossisce. «Mi ritengo un umile musicista che sa bene dove può arrivare e che spera di non sfigurare quando si azzarda a eseguire la musica del Grande.»

Il Grande. Appella proprio così Wolfie: il Grande.

Non ne pronuncia il nome e non lo chiama papà.

Nannerl, in silenzio, lo incoraggia a proseguire. Schiarendosi la gola, Franz parla con affanno del suo accostarsi alla musica per volontà materna. Constanze, la moglie tanto amata da Wolfie e parimenti osteggiata da Leopold, coccolava il suo ultimo nato sopravvissuto come se in lui giacesse una particella del marito. Dopo aver comprenso quanto, benché si sforzasse, Carl non fosse destinato alla carriera musicale, decise di incentrare su Franz il dovere di elevare alto il nome del padre, avviandolo allo studio con i migliori maestri, Salieri incluso nel novero.

Racconta della timidezza iniziale, dell'imbarazzo delle prime esibizioni in pubblico a convegni e dibattiti sul genio paterno, la mamma che faceva il tifo per lui, le dita sudate che si appiccicavano ai tasti per la tensione. Di come abbia dovuto imparare, per superare ogni difficoltà e impedimento, una regola precisa, incisa in mente.

Non immaginare mai che il Grande Mozart fosse lì, nella stanza, ad ascoltare e giudicare la sua goffaggine, il gozzo deglutito in continuazione, l'imbarazzo, gli occhi del pubblico che lo suggestionavano, impacciandogli le mosse.

Il Grande. Di nuovo.

Nannerl non lo interrompe. Ma perché Wolfie avrebbe dovuto giudicare aspramente e correggere il suo stesso figlio? Franz ha dipinto i connotati da caporale di Leopold, non di Amadeus. Le... stona con l'indole di suo fratello.

Leopold e Wolfgang, Wolfgang e Franz.

Un malessere che si trascina nelle generazioni, come un morbo appestante la famiglia.

Di padre in figlio.

Parla, Franz Xaver, della ricerca della tomba del Grande, sepolto in un'anonima fossa comune, da squattrinato, da pezzente, e del suo cranio. Una ricerca reclamata da orde fameliche di giornalisti che non cessano di accampare nuove, delittuose ipotesi sulla fine incresciosa del genio salisburghese e sulle sue circostanze.

E di come pure lui, Franz Xaver Wolfgang, agognerebbe, come l'anima di suo padre, riposare in pace. Appartato dalla gogna mediatica, assatanata, dai paragoni svilenti con una figura soffocante, esaltata dalla madre. Invidia Carl e la sua esistenza borghese, accomodante, semplice.

A Vienna non facevano altro che accentuarsi, quei paragoni tra padre e figlio.

Le recensioni delle sue prime performance lasciavano a desiderare. Era un ragazzino, certo, ma anche destinatario di un'eredità immane. Di un nome immane.

Ineguagliabile.

«Possa lui.» recitava una testata giornalistica della capitale austriaca, sottintendendo al giovanissimo Franz Xaver. «Non dimenticare che per ora il nome Mozart ispirerà la clemenza, in futuro comporterà grandi aspettative.»

Sei bravo, ma non quanto tuo padre. Te ne manca di strada da intraprendere per possedere un'oncia del Grande! La mediocrità non si addice al figlio di un artista, di un genio immortale, lo sai?

Lo confessa: ha odiato la figura di Wolfgang, per un periodo.

Traspariva dai ricordi, dalle memorie - il fratello è tuttora l'unica fonte che reputi affidabile - ma era sempre in senso traslato. Adulterata. Abbellita. Enfatizzata nella pompa insuperabile del genio titanico a cui è stato, fin dalla culla, comparato.

La sua amata Josephine l'ha sostenuto in questo scavo nel passato.

Nannerl non afferra. «Josephine?»

«Josepha von Baroni-Cavalcabò, nata Castiglioni. La moglie del Cancelliere Imperiale stanziato a Leopoli, Ludwig Cajetan von Baroni-Cavalcabò.»

Fissa lontano, incantato, rapito da una visione.

Momento. Nannerl deve elaborare la cosa. Suo nipote coltiva una storia con una donna maritata?! E di estrazione sociale superiore, per giunta?!

«Suo marito è molto più vecchio di lei.» Franz spende poco a giustificarsi. «E poi che c'è da generare tanto scalpore? Anche Carl intrattiene una relazione con una donna sposata a Milano, la consorte di un colonnello.»

Il bis! Entrambi! Wolfie ne riderebbe.

Attraverso le ricostruzioni accurate dei testimoni, degli amici, soprattutto del fratello, Franz ha potuto finalmente esternare un affetto figliale taciuto troppo a lungo. Chi doveva amare? L'artista o l'uomo? E dove terminava uno e iniziava l'altro? 

«Chi sei veramente? Che ruolo hai nella mia vita?» ha pianto davanti a un quadro del genitore. Neanche dispongono di un cenotafio da incensare di profluvi di fiori e ghirlande e allori. Un quadro. «Come so che approveresti la mia musica? Come so... che mi vorresti bene? Ci sei e non ci sei. Onnipresente come Dio.»

Come Dio la sua onnipotenza melodiosa lo schiacciava.

Grazie a Carl, grazie all'incitamento di Josephine, prendendo le distanze dalla canonica versione propugnata dalla madre, Franz ha provato a ricercare la verità su Wolfie. Qualunque essa sia. Il padre dietro la sagoma del genio.

I suoi occhi, dunque, non vedono più ora solo il compositore acclamato dalle folle, il genio, il Grande, ma anche il bimbo solitario che scorrazza per tutta l'Europa come burattino di principi e re. L'adolescente che si innamora di una voce o di un corpo con la voluttà focosa della gioventù. Il ragazzo scapestrato, fanciullesco, che ama scherzi e giochi di parole, le battute mordaci e le allusioni alle chiappe e agli odori corporali.

Il giovane uomo che sfida i regnanti per rivendicare la propria libertà d'artista.

Nannerl reprime le lacrime, pizzicanti nelle orbite velate di cecità.

Lei non ha ragguagliato abbastanza forza nemmeno per sfidare il padre.

Carl, nella carrellata di ricordi, riprende il filo Franz Xaver, ne custodisce uno in particolare, riguardo all'ultimo periodo della vita di Amadeus.




Papà - Nannerl lo nota, non le sfugge l'inflessione della voce, il tono addolcito, e si chiede se la testimonianza del fratello rafforzi in Franz l'idea di un padre amorevole, giocherellone - che, nonostante la tosse persistente, i brividi, le febbri sempre più ravvicinate nel gelo d'inverno, nonostante quel lucore invasato, febbrile, nello sguardo incavato, incutente in Carl tanta paura e preoccupazione per le sue condizioni, una notte, in una pausa dal comporre ossessivo che si è impadronito di lui dall'autunno, s'intrufola nella camera nuziale a controllare che i suoi cari dormano sonni tranquilli.

Carl nel lettino, mamma nel lettone e Franz - Wowi - nella culla. Munito del candelabro, la fiammella traballante, Wolfie si aggira tra le coltri. Si profonde in un bacio a Constanze, che si stira e mugola tra i piumoni. Sbaciucchia Carl, raggomitolato nel lettino in un pandemonio di soldatini e balocchi. Carl rammenta la sensazione rasposa della barbetta di papà, non essendosi rasato, le labbra screpolate.

Papa, mein Zimmer ist nachts so finster. Jetzt bin ich wach und fürchte mich.

La carezza, uno sfioro coi polpastrelli impiastricciati d'inchiostro, il fiato fetido di vino.

Papà, la mia cameretta è così oscura di notte. Ora sono sveglio e ho paura.

Wowi, nella culla, frignante. Il vagito si tramuta in pianto. Wolfie si sporge su quel fagottino più vorace e rubizzo dei suoi fratellini e delle sue sorelline gracili, esangui. Depone il candelabro, preleva il bimbo, e con lui in un braccio e l'illuminazione nell'altro, ripercorre la rotta verso il clavicembalo, sommerso dagli spartiti.

«Ssh, Wowi, papà è qui.»

Carl, di nascosto, scalcia l'ingombro delle lenzuola avviluppanti e si trascina fino alla porta. La schiude. Tanto basta perché, dalla fessura, scorga papà davanti al cembalo, Franz assiso sulle sue ginocchia - ormai è abbastanza grande per stare ritto e seduto nel seggiolone - e il bagliore delle candele squagliate riverberare tra le bottiglie e le tazze sporche di caffè. Le bottiglie intorno a papà crescono come la sua foga estenuante nello scrivere. Costantemente. A qualsiasi ora del giorno e della notte. È sopraffatto dal lavoro, il papà, tra cui una messa sinistra.

O, almeno, lui vaneggia così. Mamma rimbrotta che si sta scavando la fossa.

«Sei diventato schiavo della tua musica!» Mamma scoppia frequentemente a piangere, le spalle scosse dai singhiozzi. «Stai impazzendo!»

«La Morte ripaga, però, Stanzi...» biascica papà, gli occhi rossi e cerchiati dalla stanchezza, ingollando e scrivendo, tossendo e scrivendo.

Scrive persino sui tovaglioli delle osterie, se lo fulmina l'ispirazione. Mentre mangia i fegatini a pranzo, mentre è al cesso.

L'altro giorno è svenuto. Si è accasciato sul tavolo da biliardo mentre componeva. Mamma e Süßmayr, l'allievo, l'hanno rianimato. Un capogiro, ha minimizzato papà, e si è recato, subito dopo, alle prove per il Flauto Magico. Mamma l'ha minacciato che, se accuserà un altro malore, gli confischerà carta e penna e lo obbligherà a riposare.

E mamma non scherza.

«Buono, Wowi, buono. C'è papà.»

Comunque, stanotte Wolfgang suona una ninnananna al figlioletto piagnucolante. Un classico del suo repertorio. Le dodici variazioni sul brano Ah, vous dirai-je Maman, spaccato in tredici sezioni. Quel ritornello puerile diffuso nei paesi anglosassoni come Twinkle, Twinkle little star. Papà suona, le dita dolcemente titillanti i tasti come le pelle serica di un'amante, schiocca un bacio sulla testolina di Franz.

Ah! Vous dirai-je, maman,
Ce qui cause mon tourment?
Depuis que j'ai vu Silvandre
Me regarder d'un air tendre
Mon cœur dit à chaque instant:
«Peut-on vivre sans amant?»

Il pianto tace. Wowi è incantato. Wolfgang, di colpo, smette, una brusca sospensione di note. Quelle note magnifiche sboccianti tra le sue dita. Si affloscia in avanti, spossato, tossendo. Un raschiare di muco.

Wowi emette un gorgoglio. Carl è teso. Papà si sente ancora male?

D-Deve... deve avvisare la mamma?

«Papino è solo un po' stanco, Wowi.» lo calma Amadeus, roco.

Una stanchezza che non gli impedisce di riprendere a suonare.




Origliare è moralmente errato. Lo fanno i bambini discoli. Carl non si considera un bimbo discolo, sebbene non gli piaccia molto andare a scuola e il suo rendimento... be', potrebbe migliorare. Ma mamma e papà stanno litigando. A porte chiuse, nella sala del biliardo. Di nuovo. Una cacofonia di mobili spostati, di sedie stridenti all'indietro. Un tintinnio di vetri e bottiglie. Il papà deve stare trincando. Di nuovo.

Accovacciato davanti alle porte laccate in legno bianco con rilievi in oro, Carl accosta l'orecchio.

«È una febbriciattola, Stanzi.» Un secco colpo di tosse. «Un'innocua febbriciattola...»

«Non mi pare tanto innocua a giudicare da come ti sta riducendo.»

«Stanzi...»

«Rettifico: da come ti stai riducendo.»

«Stanzi Manzi Marini Bini Gini, mogliettina del mio cuore, io ti amo tanto, ti amo di mille baci viscidi e moccolosi e infuocati, ma ho del lavoro da sbrigare, se non ti dispiace.»

«Del lavoro per un fantasma.»

«Quell'uomo era reale! Te lo ripeto!»

«Una reale fuoriuscita di zucca.»

«Stanzi!»

«Quell'uomo non esiste, Wolfie.» si addolcisce la mamma. «È un tuo delirio, un'allucinazione! Il tuo corpo non sostiene più questi... questi ritmi folli, te lo dico!»

«E io ti dico che li reggo.»

«Certo, quando sei sbronzo.»

«Mi ha pagato. Quell'uomo mi ha pagato. Cinquecento ducati sonanti.»

«Mostrameli.» Un tono di sfida.

«Che?»

«Mostrameli questi soldi. Questa prova. Coraggio, stupiscimi.»

Il papà tentenna, il cozzare di vetri si acuisce. Come se cercasse di arraffare una bottiglia a caso, sua scappatoia dall'alterco.

«E-Ecco... io... l-loro... in v-verità li ho... è b-buffo perché...»

«Li hai dilapidati.»

«N-No! D-Diciamo che l-li ho-»

«Spendi più di quanto guadagni. Dovevo immaginarmelo. Che stupida! Sei incapace di amministrare le tue finanze!»

«Da che pulpito viene la predica! E comunque li ho... l-li ho oculatamente investiti.»

«In cosa? In sollazzi e ubriacature?»

«In vivande.» ringhia papà, irritato. «Per te e per i bambini.»

«Non adoperare questo tono con me!» lo apostrofa la mamma.

«Tu non scocciarmi! Devo lavorare.»

«Lavoro, lavoro, lavoro! Rimugini solo sul lavoro! Ti barrichi in queste stanze, non dormi, pilucchi due bocconi in croce, i tuoi figli a malapena ti vedono! Ti ricordi di avere dei figli, Wolfie? Due figli e una moglie. Una vita.»

«È proprio per assicurare loro una vita dignitosa che vorrei lavorare in santa pace senza i tuoi strilli isterici da casalinga instabile!»

«Instabile?» La mamma è offesa. Giustamente. Papà l'ha sempre trattata con i guanti di velluto. Che gli sta capitando adesso? «Instabile a me?! Ma ti sei visto?»

«Stanzi...»

«Sei una bestia da soma per quell'attoruncolo che non ti sgancia neanche un tallero!»

«Schikaneder è un impresario teatrale e il Flauto Magico riscuoterà un successo strepitoso, vedrai!»

«Quello che sto vedendo adesso è la degenerazione di mio marito.»

«Stanzi, basta, ti prego. Devo lavorare.»

«Devi riposare

«Riposerò quando sarò morto!» urla il papà, allo stremo, in un fruscio di spartiti.

Silenzio. La mamma sta assimilando la reazione fuori dalla norma.

«Tu hai bisogno di aiuto, Wolfie.» mormora esterrefatta.

«Per finire il Requiem?» Papà ride, il suo risolino perfora timpani. Carl dubita che la mamma intendesse in quel senso. «L'uomo mascherato voleva me e nessun altro. Un autentico Mozart, certificato, senza contaminazione.»

«Un tempo riuscivi a comporre un'opera intera in tre settimane e adesso non sei capace di terminare una misera messa funebre?!»

Un aspro tossire. Papà tossisce ancora, espettorando muco. A lungo. Carl teme che possa sputare più di grumi di catarro.

«È... È un p-periodo un po'...» rantola papà.

«È la febbre, Wolfie. Ti sta arrostendo il cervello.»

Papà deve scansarla, crede Carl, dai rumori recepiti. Piantarsi sulla sedia. Il picchiettare del pennino contro il calamaio. Sta riprendendo a scrivere.

«Lasciami lavorare, Stanzi...»

«Domani chiamo il dottore.» sentenzia laconica la mamma.

«No!» geme il papà. «Il dottore no!»

«. Sei al limite, ti stai spompando. Ho paura per te, Wolfie. Ribadisco: hai bisogno di aiuto.»

«Domani ho la festa alla Loggia! Devo dirigere la mia cantata Das Lob der Freundschaft! Ti prego, Stanzi! Domani no!»

«Domani sì, caro mio. Vedrai, il dottor Closset ti monterà una bella ramanzina.»

«Devo finire di lavorare! I-Io sono...» Sta piangendo? Papà piange? Il suono ovattato, mugolante, si riconduce al pianto. «Io sono condannato, Stanzi, p-però... però devo dimostrarlo... devo di-dimostrarlo a p-papà. Sono un bravo b-bambino...»

«Che c'entra tuo padre?»

«Quello era un emissario dall'Oltretomba... e-e quella e-era l'anima inquieta di m-mio padre... lo so... me lo sento d-dentro...»

Adesso è la mamma a piangere. Un suono tremolante, nervoso, di lacrime imbottigliate in gola. Stropiccio di vesti, sospiro di sottane merlettate. Si devono star abbracciando.

Si sono riappacificati. Menomale.

«Wolfie, amore mio. Cosa ti sta succedendo?»

Già... cosa prende al suo papà?

Qualche ora dopo Carl scova papà ronfante tra gli spartiti, pallido, sudato e dalle occhiaie marcate, la chioma bionda spettinata. È crollato, poverino. Mamma arriva, gli segnala di non fiatare una sillaba, dito sulle labbra. Lentamente avvolge le spalle esili del marito in una vecchia e rabberciata coperta di lana, spizzicandogli un bacio sulla nuca.

Papà farfuglia nel sonno, ma non si sveglia.

«N-Non è finita... n-non è... più t-tempo...»

Non è finita cosa? La messa su cui si scervella tanto?

«Andiamo tesoro.» Mamma lo prende per mano e lo invoglia a tornarsene in salotto, da Wowi e dalla sua scatola di soldatini. Ha disposto un plotone in difesa della culla del fratellino. «Papà è esausto. Lasciamolo dormire.»

Ma Carl vorrebbe giocare con papà! È ingiusto!

Perché non può tornare a passeggiare con lui e Wowi, a fare volare in aria e riacciuffare il suo fratellino mentre tutti si sganasciano dal ridere e a issare Carl sulle spalle, a cavalcioni, mentre imita il verso di un pennuto tra boccacce e pernacchie e strepiti?

Perché lavora sempre? È quella messa che lo tiene incollato agli spartiti?

«Papino...» bisbiglia, voltandosi prima che i battenti si chiudano.

Tende la mano, smanioso, quasi possa destare papà anche senza toccarlo.

Le porte si serrano. Mamma le chiude mooolto lentamente.

E papà continua a dormire.




Wolfie e la famiglia. Nannerl è a corto di parole. Wolfie e la nuova famiglia, formata da Constanze e dai piccoli. Due su sei. Quattro piccole bare bianche, non diverse da quelle dei cinque loro consanguinei, su cui cadeva un pugno di terra. Wolfie e Constanze si abbracciavano alle esequie e, tornati a casa, si riabbracciavano a letto, per ritentare, per non darla vinta alla mortalità infantile e alla sua strage.

Una nuova famiglia, risarcimento affettivo di quella vecchia - il padre scorbutico e la sorella sua complice - rea di averlo tradito.

La crepa si è forse aperta alla morte della mamma? O prima? Prima, quando Wolfie, seppur lontano, le dedicava minuetti per celebrare il suo onomastico e si premurava della sua salute, esigendo sue notizie, novità succose, facezie?

«So bene che, come me del resto, tu non ami le parole altisonanti e sei certa che ti auguro con tutto il cuore la felicità che desideri, non solo oggi, ma ogni giorno, e che te l'auguro sinceramente, quanto può essere sincero un fratello che tiene al bene della propria sorella. Mi spiace non poter scrivere un brano musicale in tuo onore, come alcuni anni fa. Spero, d'altra parte, che non si sia allontanato quel momento felice in cui un fratello e una sorella, un tempo così uniti e affezionati, possano di nuovo dirsi quello che pensano e hanno nel cuore. Per intanto addio, stammi bene, e voglimi bene come io voglio bene a te. Ti abbraccio con tutto il mio cuore, con tutta la mia anima e rimango per sempre il tuo fratello sincero e leale.»

Era il 1778. Lui e la mamma soggiornavano a Parigi, dove Anna Maria ci sarebbe restata secca. Wolfie si ricordava di lei.

Quando l'ostilità è giunta al culmine?

Nella sua nuova vita movimentata, burrascosa, sempre indebitato, mendicante denaro e debiti da saldare, spesso il suo godereccio fratello rimaneva solo con il piano, la musica fermentante in lui, gli spartiti e i suoi animaletti.

Cani, gatti, un cavallo. Ha scritto una composizione di miagolii felini.

Prediligeva i canarini. Quei batuffoli piumosi, quegli scampoli esotici di natura gorgheggianti sui trespoli, nelle loro gabbiette. Ilari, vivaci canarini. Ne ha posseduti ben trenta e li curava personalmente. Si sincerava di loro quando gli impegni lo conducevano lontano, spediva medicamenti, mangime e uova di formica che avrebbero spiluccato nella loro ciotolina. Quando morì il suo prediletto stornello compose addirittura un'ode correlata di marcia funebre.

Qui riposa un caro piccolo matto
Il mio stornello.
Nel meglio della sua vita
Ha incontrato
Un giorno la morte.
Il mio cuore sanguina
Quando ci penso.
Donagli, o lettore, anche tu una piccola lacrima.
Non era cattivo,
Ma solo un po' troppo allegro
E di solito anche
Un caro e delizioso monello, e pur mai uno stupido...

Constanze, incinta con regolarità e afflitta da un'ulcera alla gamba nell'ultimo periodo, spesso si recava in sanatori termali per curarsi, portando con sè i bambini. Wolfie, allora, rimaneva solo, ma prendeva volentieri la penna e scriveva con trasporto. Con amore. Tempestava la moglie di bacetti invisibili, un turbinio di baci. Nannerl se lo immagina. È sempre stato sentimentale, Wolfie. Sentimentale e sensibile.

Temeva il deserto che si apriva nella casa disabitata. Temeva gli abissi in cui precipitava nelle pause o nelle incertezze del lavoro. I debiti stroncanti. La ricezione insoddisfacente della massa viennese alle sue opere. Gli obblighi incalzanti di trovare soluzioni adeguate per provvedere al suo nido famigliare.

Un senso angosciante di ansia, esacerbato dalla solitudine, che ha perseguitato suo fratello fino all'ultimo giorno del suo pellegrinaggio terreno.

«Vorrei essere al tuo fianco. Quando penso a quanto siamo stati allegri insieme a Baden, proprio come dei bambini.» scriveva a Constanze, in cura a Baden e agli sgoccioli della gravidanza di Franz Xaver, pochi mesi prima della morte, nel luglio del 1791. «Non so spiegarti le mie sensazioni, è una specie di vuoto che mi fa proprio male, un desiderio che non viene mai appagato e quindi non si placa mai...»

Il vuoto dell'assenza, pensa Nannerl. Ormai si considera un'esperta.

Con quel cratere ha imparato a conviverci.

Il filo di quel vuoto partiva da un gomitolo lontano. A Salisburgo. Si intrecciava ai nuovi amori sorti in seno alla famiglia da lui e Constanze costruita, sciorinandosi lungo le rotte degli anni e le altalenanti vicende della vita. Lana consumata dai giorni magici dell'infanzia. Lana fanciulla. Lana in fibre d'un amore ormai spento.

Lana tagliata definitivamente da Nannerl, a cominciare dalla disputa sorta sull'eredità paterna.

Praticamente Leopold aveva diseredato il figlio, lasciando buona parte del patrimonio a Nannerl. Non avrebbe tollerato che neppure un centesimo di quanto faticosamente accumulato in una vita di fatiche e sacrifici finisse tra le grinfie avare di quella carogna impalmata da quel furfante di Amadeus.

Wolfgang fece valere i propri diritti ereditari. A penna.

Quando Leopold morì, nel 1787, Nannerl non si premurò di informarne Wolfgang. Perché avrebbe dovuto? Lui aveva tranciato i rapporti. Lui aveva disonorato la stirpe e il comandamento biblico riguardante il trattamento da riservare ai genitori. Lui. O si beveva la versione distorta dall'ira cocente del padre? Wolfie, però, se n'era infischiato dei consigli paterni. Aveva seguito il suo cuore più del suo senno.

Mentre Nannerl era rimasta. Statica. Inchiodata a Salisburgo, incagliata al relitto affondato della pompa passata. Alla tomba della musica. Al padre.

Figlia diligente. Figlia devota.

Impossibilitato a lasciare Vienna - non poteva assentarsi dal suo Don Giovanni in cantiere - la pregò di fargli recapitare una copia accurata della dispositio paterna inter liberos, il testamento, non potendo rinunciare a prenderne visione con i suoi stessi occhi. Non si fidava delle intenzioni del suo stesso sangue. Dichiarò di approvare la sua proposta di vendere all'asta gli oggetti di maggior pregio. Nannerl però gli fece sapere che poteva anche bellamente scordarsi di ottenere la metà del ricavato. Non se li meritava. Non dopo l'affronto al papà.

Il 16 giugno lui le inviò poche, secche righe. Una scudisciata su carta.

«Se tu fossi ancora senza una sistemazione, come ho detto già mille volte, ti lascerei tutto con vero piacere. Ma giacché ora tu non hai, per così dire, alcun bisogno materiale, mentre io ho delle precise necessità, ritengo mio dovere pensare a mia moglie e a mio figlio.»

Preferì negoziare con il cognato, ben più propenso al dialogo. Le trattative si tirarono per le lunghe, finché i beni furono, più o meno, equamente ripartiti. Nannerl, in una sorta di rivincita, si tenne però numerosi oggetti di valore, tra i quali alcuni strumenti musicali e i gioielli ricevuti in dono durante le tournée degli anni dell'infanzia, reticente a restituire al fratello alcune partiture delle sue composizioni.

Le missive si fecero sempre più rade. I toni più freddi. Fino a cessare del tutto.

Il filo era stato reciso.

Da loro... o da Leopold? Aveva disegnato due esistenze diverse, il loro signor padre, disgiunte dall'unico organismo a quattro mani che aveva stregato le corti d'Europa durante la stagione dei successi della loro fanciullezza. Wolfie all'Olimpo della musica. Nannerl vestale del focolare domestico. Aveva impugnato le forbici e reciso il cordone che li avvinghiava, lacerato la placenta delle note.

Inconsapevolmente, spera Nannerl, aveva trucidato nell'odio il loro legame.

Si recita mentalmente le poesia ribalda mandata da Wolfie in occasione del suo matrimonio, nell'agosto 1784.

Nel matrimonio molto imparerai
di ciò che mezzo enigma era per te,
per tua esperienza presto ora saprai
ciò che fece Eva in un lontano giorno
perché Caino poi venisse al mondo.
Ma cotesti doveri coniugali
li assolverai, sorella, di buon grado,
perché, credimi pure, non sono gravi...

Caino. Il fratello dell'abietto crimine.

La tua passività ha consentito la morte del nostro legame, Nannerl...

Ma, tutto questo, Franz Xaver non può saperlo. Non completamente.

«Zia? State bene?»

«Prosegui pure...»

Ricomincia, suo nipote, dopo che l'ha vista tentennare. Sorseggia il tè servito dalla domestica e ricomincia. Riposare in pace, quelle sue parole di prima hanno colpito Nannerl. Un desiderio che le squarta le viscere.

Con un'irruenza gentile Franz vira su argomenti che, di primo attrito, Nannerl non connette subito a Wolfie. Parla di malformazioni. Un tipo di malformazione riscontrato fin dalla nascita. Di un orecchio sinistro, mancante il lobo che finisce prima rispetto a un orecchio sinistro normale. Aggiunge sintetiche informazioni su altre invisibili particolarità, non comuni, di un apparato uditivo reso oltremodo sensibile.

Si tocca il ciuffo di capelli all'altezza dell'orecchio, distogliendo lo sguardo, a disagio, ma non lo solleva.

«Si tratta.» mormora sottovoce. «Della medesima malformazione caratterizzante il mio compianto padre.»

Nannerl aggrotta le sopracciglia, sgrana gli occhi. Afferra. L'orecchio di Wolfie. Quell'orecchio accartocciato, privo di lobo. Tramandato al figlio. Padre. Un dettaglio che coglie. Franz Xaver si è rivolto a lui usando l'appellativo di padre. Non dev'essere casuale. È la rampa di decollo di altro. Che cosa?

Anni dopo la scomparsa del marito, illustra Franz, mentre il figlio minore studiava musica e si allenava per emulare la gloria paterna, grazie o a causa di quelle malformazioni, Constanze accostò, nei registri anagrafici, i nomi di Wolfgang Amadeus a quelli di Franz Xaver. Come un clone. Un doppio. Un riflesso risorto. Prese a chiamarlo con lo stesso nome del compositore.

«Wolfgang.» mormorava la madre, carezzandolo commossa, la voce intrisa di nostalgia. Franz si chiedeva se in lui rivedesse suo padre. «Il mio piccolo Wolfgang Amadeus. Il mio piccolo Wolfie

Wolfie. Nannerl si irrigidisce.

Non avrebbe voluto sentire questo risvolto della storia.

Franz Xaver lo giura. Costanze l'ha soprannominato Wolfie, un'abbreviazione di Wolfgang. Internazionalmente è conosciuto quale Wolfgang Amadeus il Giovane. L'erede spirituale del padre, successore al timone del suo lascito.

Nannerl si sente defraudata di uno dei diminutivi inventati tra di loro da bambini. Ma questo secondo Wolfie, non più Wowi, Wolfie, usurpatore per volontà di Constanze, non si accorge della fitta di dolore provocata nella vedova che gli siede di fronte. Racconta altro. Omette gli incubi di Carl Thomas, i suoi terrori notturni su papà nella bara, nell'uniforme grigia con cappuccio dei massoni, sul feretro inghiottito nella nebbia decembrina. Sul messo in neri paludamenti e il suo Requiem. Tralascia come, ancora oggi, suo fratello sia terrorizzato dalla prospettiva di venire sepolto vivo.

«Raccomando premurosamente al detto Sig. Wagner, mio esecutore testamentario, come altresì alle persone di mia Casa di sorvegliare affinchè il mio cadavere, apposto liberamente non chiuso nella stanza; sia fatto rimanere nella mia abitazione per tutto il tempo consentito dai regolamenti e non gli venga data sepoltura prima dei manifestatisi segni evidenti della seguita indubbia morte.» porrà per iscritto Carl nel suo testamento, redatto a Milano, decenni più tardi.

Segreti tra di loro.

Descrive un concerto, uno dei suoi primi, a quattordici anni, a Praga, costretto dalla mamma e dalla zia Aloysia. Un'esibizione ridicola, pietosa. Franz Xaver, intonante un'aria di Papageno, una scimmietta con le piume in testa a mo' di pennacchio cavalleresco, tra l'esultanza della zia, le lacrime intenerite di Constanze e gli applausi di un pubblico in delirio, ammaliato dall'erede di Mozart.

Una scimmia ammaestrata.

Si augura, dopo questo resoconto, Nannerl, che l'incontro termini il più rapidamente possibile. Il suo cuore non può reggere oltre. Lo fa intuire con discrezione, con cortesia, ma Franz intende, e forse è vittima di un secondo di pentimento prima di decidere di levare gli ormeggi. Si alza, si riassetta la giacca, scruta l'orario dall'orologio da taschino, espleta i convenevoli con infiocchettati saluti di circostanza e trattiene, a lungo, le mani di Nannerl nelle sue, baciandole.

«Signora zia, è stato un piacere incontrarvi e conferire con voi. Spero di potervi abbracciare nuovamente in futuro.»

Nannerl non proferisce favella. I suoi occhi lucidi sono sufficienti al nipote per intendere il fiume di parole non dette, ma intercorrente nel silenzio.

Prima di accomiatarsi Franz Xaver nota il piano occultato dal telo e si sofferma a osservarlo. N'è affascinato. Palpa la stoffa.

«Posso?» chiede educatamente. Non attende risposta. «Voi non suonate più, non è vero?»

«Io e la musica abbiamo divorziato molti anni fa.»

Franz annuisce pensieroso. In un baleno scansa il drappo, apre con delicatezza il coperchio, lambisce i tasti. Nannerl, in un grugnito, manifesta la sua disapprovazione. Quella porta sui tasti, quel portale di fantasia, deve restare sigillata. Ermeticamente. Eternamente. Ha cagionato troppo dolore. A lei, ai suoi genitori. A suo fratello.

Soprattutto a suo fratello.

Il nipote, assorto, non la sente. In un impeto, l'impeto del musicista, pigia un tasto. E poi un secondo. E un terzo. Dita nevrotiche che si accavallano, si sovrappongono. Si appropria di un posto sullo sgabello. Franz Xaver preme la tastiera, infierisce. Le ginocchia di Nannerl cedono. Una melodia colma la casa.

Spodesta l'egemonia del silenzio.

È come un disgelo, la primavera scalzante l'inverno. Non accadeva da anni. Persino la domestica accorre, frastornata. Che sta succedendo?

Le note sono un dolce amplesso, un carosello fantasmagorico. Riconosce la canzone.

Ah, vous dirai-je Maman, anche intitolata Twinkle, Twinkle Little Star.

Ha giurato di non farlo. Doveva essere un addio, non un arrivederci. Ciononostante le sue dita consunte dall'artrosi lambiscono un tasto. Lo premono. Con un rinnovato vigore Nannerl ne preme altri. E altri. E altri.

Sta suonando.

Le note si dissolvono in fretta. Hanno finito. Di già?

Nannerl rabbrividisce. Una sensazione atavica, una sensazione che pensava inerme, s'è scongelata, scaldandole il cuore.

Ha suonato. Dopo tanto tempo ha suonato di nuovo al pianoforte.

Stille di sale le rigano le gote. Baluginano gli occhi di Franz. Per la prima e unica volta in questa visita la zia protende il braccio tremante, scosta i capelli, percorre, con il polpastrello, le sinuose concavità di quell'orecchio malformato.

«S-Signora zia...?»

«Assomigli a lui.» gracchia rauca.

Wolfie.

Franz Xaver Wolfgang, dopo i convenevoli e una promessa di prossime venute, si congeda dalla zia e dal sua casa infestata dai ricordi.





Note

Non io che sono convintissima che la paternità dell'ultima figlia di Josephine e del marito, Julie Baroni-Cavalcabò coniugata von Webenau, poi affermata pianista e compositrice ottocentesca, sia da attribuirsi in verità a Franz Xaver.

L'anno di nascita di Julie e quello in cui lui si trasferisce a Leopoli e incontra Josephine, possibilmente dando il via (se non era già iniziata, non lo sappiamo, potrebbe benissimo esserlo) alla loro relazione GUARDA CASO coincidono. È il 1813 e Julie nascerà il 16 ottobre. Josephine fu l'anima gemella di Franz, si amarono a dismisura. Sappiamo che lui, sempre in quell'anno, cominciò a darle lezioni di pianoforte. Ore, dove, ci viene espressamente detto, i due GUARDA CASO restavano da soli. Come, pensate un po', esattamente Carl e Costanza Casella moglie del colonnello. Il copione si ripete. Motivato dall'amore per Josephine Franz comprò una dimora più vicina possibile al palazzo di lei e, GUARDA CASO, quando Julie crebbe di chi fu allieva?

Proprio di Franz Xaver.

Gli altri due figli più grandi di Josephine, Adolf e Laura, a differenza sua, non studiarono musica e, soprattutto, non sotto la guida di Franz.

Perché lui tra tutti? 🌝 E perché, STRANAMENTE, proprio Julie gli venne affidata?

Anche la piccola Costanza Casella, figlia omonima dell'amante ricambiata di Carl, divenne allieva dell'insegnante della madre. Che coincidenza, eh... donne sposate allieve dei fratelli Mozart che affidano l'educazione musicale delle loro ultime nate a quest'ultimi... che FORTUITA COINCIDENZA...🌝

Inoltre, quando, nel 1844, tre giorni dopo il suo cinquantatreesimo compleanno, Franz morirà di cancro allo stomaco a Karlsbad, Josephine fu l'unica persona che gli rimase accanto, accudendolo al suo capezzale. I due vollero sempre ardentemente sposarsi, ma, data la posizione sociale di lei e il suo stato di maritata, non riuscirono mai a coronare questo sogno. GUARDA CASO Franz nominerà sua erede nel testamento proprio Josephine e, GUARDA CASO, proprio lei intreccerà un legame epistolare con Carl, consolidando un'amicizia (in una missiva del 1851, datata 24 gennaio, si rivolge a lui chiamandolo "il mio più caro amico" e definendosi "la sua più fedele amica") che, aldilà dell'affetto da entrambi nutrito verso lo scomparso Franz per ovvie ragioni, non avrebbe avuto molto senso di perdurare se non, a parer mio, ci fosse stato... qualcosa o qualcuno... in ballo...

Non è che in quelle lezioni di pianoforte Franz Xaver e Josephine hanno suonato qualcosa di più di qualche melodia?🤭🤭🤭

Eeeeh, Franz birichino come tuo fratello!

Le mie sono solo supposizioni, logico. Non ho prove effettive su cui fondarmi se non questa sequela insolita di coincidenze, ma mi piace pensare che, avendo avuto Julie figli (una sua nipote, spirata nel '53, Vilma, fu anche lei compositrice) ci siano in giro discendenti non ufficiali di Mozart.

Sulla piccola Costanza Casella abbiamo certezze - è Carl stesso, anni dopo la sua dipartita, in una lettera intrisa di dolore, a confermarcele - ma su Julie? E su quelle lezioni di pianoforte con Josephine?

Non sapremo mai cosa sarà avvenuto a porte chiuse...😏

A proposito di Costanza junior, un affranto Carl (come già detto in altri lidi, non si riprese mai dalla morte precoce della piccola prodigio) la descrive in questi termini agli amici lontani, in una lettera spedita da Caversaccio il 21 settembre 1858, in provincia di Como, dove possedeva una villa in cui si rifugiò negli anni successivi alla pensione.

Ricordiamo che Carl morì il 31 ottobre di quell'anno, con in pugno una miniatura del padre. E il 31 ottobre sapete che santo si festeggia?

San Wolfgango.

Wolfgango... Wolfgang... il papà era veramente ansioso di riabbracciarlo a quanto pare!🥹❤️

"Ho avuto una figlia, cari amici, la mia cara e amata figlia, Constanza, che l'Onnipotente ha scelto di togliermi mentre era ancora una bambina. Non posso spiegarvi il profondo dolore che ho provato per aver perso il mio prezioso tesoro, Constanza. Anche la mia cara madre è stata devastata dalla morte della sua unica nipote. Lei amava quella bambina profondamente quanto me! Ha trovato però conforto nella sua profonda fede religiosa."

Unica nipote... nei sei sicuro, Carl?😏

Non so se Franz e affini sapessero - se le mie ipotesi strambe sono fondate - di Julie oppure no, credendola il frutto legittimo dell'unione di Josephine con l'attempato marito. La risposta, probabilmente, è negativa. Magari, e sottolineo magari, Josephine ha preferito tenere il segreto per sè, avrebbe senso. O, magari, nemmeno lei sapeva con sicurezza chi fosse il reale padre della creatura.

Preferisco la prima ipotesi, dato che così si spiegherebbe perché Josephine abbia sollecitato la sua ultima nata a studiare con il proprio amante, incoraggiando il suo estro musicale: era un modo per farle frequentare il padre reale, un padre che non sapeva di esserlo, forse, vicino a una figlia che ignorava di essere sua figlia. Forse.

I misteri della Storia!

Altro fun fact: quando Stanzi rientrò da Baden coi pargoli nell'autunno del 1791 e si rese conto che, durante la sua assenza, la salute del suo maritino workaholic si era aggravata (Wolfie era assorbito dal lavoro come non mai, ce lo testimoniano pure i suoi amici nelle ultime settimane di vita, al punto da restare alzato fino a orari disumani per comporre e rifiutare distrazioni dal suo Requiem come dare lezioni, overworked nel vero senso della parola) chiamò immediatamente il sopracitato dottor Closset, medico di fiducia. Questi, visitato Wolfie, prescrisse subito riposo assoluto e pause da ogni tipo d'impegno.

Wolfie, com'è intuibile, pare fosse già tormentato da ombrosi pensieri di morte, ma, almeno per un pochino, Stanzi riuscì a distrarlo da questa cupezza. Gli vietò di lavorare al Requiem. Avete presente la scena di Amadeus dove lei si appropria della partitura funeraria davanti a un attonito Salieri e la chiude nella vetrina, dicendo al marito che "non ci lavorerai mai più, ti fa star male." ? Ecco, possiamo dire che sia avvenuta veramente🤣

Ma poi, quando Wolfie sembrò risanare lievemente, gli restituì gli spartiti.

E lui che fece? Ricominciò a lavorare come un matto di nuovo, ovviamente!🌝

Il resto, come si suol ripetere, è storia.

Btw, eccovi l'unico ritratto che sono riuscita a reperire di Josephine (credo che sia anche l'unico che ci è giunto fino a noi) nelle vesti, nientepopodimeno, che di Santa Cecilia, conosciuta universalmente come la patrona della musica.

Il marito avrà sentito non so che formicolio sulla crapa💀💀💀lì dove spuntava un palco di corna ahahaha.

Eeee, dulcis in fundo, abbiamo anche Julie! In età giovanile e in età avanzata. Morì nel 1887. Julie Antonia Ludovica il nome completo 🌝solo a me sembra che, tra le altre cose, lei e Franz abbiano lo stesso naso?

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