5. Tu non meritavi una come lei
https://youtu.be/Ifwf8RrU-94
Una flebo tiepida nel braccio, chiacchiericcio diffuso, odore di disinfettante. Per le numerose volte in cui avevo accompagnato mia madre, senza aprire gli occhi, sapevo già di essere in ospedale.
Quel peculiare odore, aspro e pungente, è qualcosa che ti rimane impresso nella memoria, fissandosi assieme ai ricordi di quando hai dovuto sentire la notizia che una persona a te cara non è più sana. Dimentichi i volti, le voci, gli ambienti, ma quella puzza è come se ti parlasse dal passato e ti dicesse che nulla sarà mai più come prima, che è ora di mettersi il cuore in pace, che vedrai la vita di chi ami sgretolarsi poco alla volta e non potrai fare nulla.
Aprii gli occhi e sospirai. Dove altro avrei potuto essere visto che ero stato rinvenuto sulla spiaggia mezzo morto? In discoteca? A casa di una bella donna desiderosa di curarmi con erbe, brodo di pollo e lacrime?
«Buon giorno. Come ci sentiamo?» domandò un'infermiera di mezza età mentre mi tastava il polso e controllava meccanicamente la flebo. Mi prese la temperatura con un termometro che mi puntò alla fronte e scosse il capo.
«Abbiamo ancora la temperatura bassa. Riusciamo a parlare? Riusciamo a capire cosa ci stiamo dicendo?»
Quest'ultima domanda me la scandì come se fossi ritardato e avrei voluto, a mia volta, chiederle perché parlasse in prima persona plurale.
Non mi mossi né risposi, ma richiusi gli occhi sperando che svanisse.
Sentii una carezza sulla fronte, risollevai le palpebre timoroso di incontrare lo sguardo della donna, ma vidi quello di un'infermiera più giovane. Quando le accennai un sorriso, arrossì e si leccò il labbro inferiore con la punta della lingua. La collega tossicchiò, lei riacquistò una certa compostezza, ma mi accarezzò la bocca col pollice non appena l'altra si voltò di spalle. Conoscevo fin troppo bene lo sguardo con cui mi salutò prima di tornare ai suoi doveri.
Dopo la morte di Lara ho avuto una crisi profonda, definiamola così, crisi profonda...
Tutto iniziò qualche mese dopo la disgrazia.
Ero pieno d'alcol, quella sera avevo sfidato i limiti del coma etilico - diamine - non so nemmeno come riesca ancora a ricordare la serata! Avevo in corpo cinque birre, un paio Cuba libre e mezza bottiglia di vodka, il tribunale mi aveva assolto giudicando la morte di Lara un incidente e non mi guardavo allo specchio da mesi perché non sopportavo la faccia dell'unico responsabile di quanto era successo.
Una bionda di vent'anni mi seguì dopo essere uscito da un bar di Genova. La rifiutai, ma lei tornò alla carica con una sua amica, una moretta procace.
Domandarono qualcosa di futile e io risposi distaccato, loro non erano interessate né al tempo né a discorrere, allungavano le mani sul mio petto come se fosse loro concesso tutto. Cercai di allontanarle: il ricordo di altre mani, così diverso e pieno di erotismo, mi aveva fatto fare un passo indietro nonostante fossero assai carine.
La consapevolezza di quanto avevo perso e dell'irreversibilità di quanto era accaduto quella notte mi schiacciò tutto a un tratto, senza pietà. Fino al momento in cui il giudice aveva pronunciato la sentenza avevo vissuto nell'illusione che Lara si fosse salvata e che sarebbe potuta tornare. Del resto il corpo non era mai stato trovato e io continuavo ad avere la certezza che fosse viva.
Sentii come vero e inconfutabile che non avrei mai più potuto fare l'amore con Lara, non l'avrei più sentita gemere, chiamarmi per nome, non avrei più potuto provare piacere assieme a lei.
Com'era possibile tollerare anche solo l'idea di non poterla più avere accanto per il resto della vita?
La moretta parlò di una cosa a tre, io avrei assunto qualsiasi droga in quel momento pur di dimenticare il dolore, anche solo per qualche ora. Ma non offrivano nessun stupefacente, a parte qualche ora di sesso.
Bastò un momento di incertezza. La bionda mi baciò per prima, aveva l'alito acre di vino, forse più del mio, non mi importava. Mi trascinarono in un appartamento, si spogliarono e iniziarono a baciarsi come se non fossi nemmeno lì.
Il rimorso mi attanagliò lo stomaco, feci per andarmene, ma si avventarono su di me. Ero la loro preda, il loro strumento. A loro non interessavo io, ma solo ciò che potevo offrire. Quello non era ciò che c'era stato con Lara...
Mi dissi che lei non c'era più - che avrei sentito meno dolore - che era meglio di finire morto chissà dove con una siringa di eroina mal tagliata ancora conficcata nel braccio.
Mi vedevo da fuori, la scarica ormonale era così forte che non sentivo più nulla. Ero lì che armeggiavo con due corpi senza volto né nome, privi di passato e futuro, due corpi diventati entità da riempire di cui non mi importava nulla ed era come se fossi seduto sul divano a osservare me stesso esprimere il peggio di me. La lussuria mi anestetizzava e distraeva dal senso di vuoto incolmabile che la perdita di Lara mi aveva lasciato.
Dopo quella prima esperienza, entrai in altri corpi senza volto, privi di futuro e desiderio. Era un atto meccanico, un impulso da assecondare, una scarica che mi permetteva di non pensare a nulla. Durante i secondi dell'orgasmo, la mente si alleggeriva di ogni peso, il cuore sembrava dimenticare la perdita e quell'adrenalina mi permetteva di andare avanti, trovare il coraggio di aprire gli occhi ogni mattina.
L'amplesso era una droga e, come tale, l'effetto iniziò a scemare sempre più in fretta, lasciandomi la voglia di averne altro unitamente alla volontà di smettere.
Ero spezzato in due.
Dopo ogni orgasmo fuggivo da quelle stanze che puzzavano di sesso e sogni infranti, ma non facevo in tempo a ripromettermi di smettere che subito adocchiavo un'altra donna da usare e da cui essere usato.
Non ero mai stato degno di Lara, men che meno lo ero in quei giorni.
L'ultima mia conquista fu l'estate scorsa.
Una turista mi aveva notato mentre ricucivo le reti in porto, passammo la notte insieme e il giorno dopo mi venne a cercare finita la pesca.
«Dicono che tu abbia ammazzato la tua ragazza» mi sussurrò in un orecchio, nella voce nessuna accusa. Io non la volevo attorno, innanzitutto perché non volevo mai stare due volte con la stessa donna, poi perché era visibilmente eccitata all'idea che le voci che aveva sentito fossero vere.
«Mi hanno assolto.»
«L'hai fatta franca. Mi piace ancora di più.»
Smisi di cucire le reti, mi alzai per mettere la più grande distanza tra noi, ma lei si avvicinò fino a sfiorarmi col seno prosperoso.
«Fammi del male. Tu godi nel farlo, te lo si legge negli occhi.»
«Vattene.»
«Voglio che tu sia violento.» Mi prese la mano e la portò alla sua gola. «Soffocami, fammi soffrire. Mi piace che tu sia un assassino...»
«Non ho ucciso nessuno.»
«Tutti ti odiano, ma a me piaci così come sei. Violento e assassino.»
Tornai a casa.
Mia madre stava fissando il mare all'orizzonte e, quando entrai, spostò lo sguardo su di me portandosi una mano alla bocca. Cosa aveva visto?
Io abbassai lo sguardo e scappai in bagno per sciacquarmi il viso, poi mi fissai allo specchio. Il bel volto gocciolante era quello di sempre, ma gli occhi erano di un disperato.
Sentivo che il buio era entrato dentro di me e nessuno avrebbe mai potuto scacciarlo.
Mi facevo schifo.
Giurai che non sarei stato con nessun'altra donna e, quella volta, mantenni la promessa.
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