Parte senza titolo 3


"Eccoci Nina. Forza, scendi dalla macchina."
Chiusi gli occhi sospirando forte.
Non mi piacevano i signori Morin. Non mi erano mai piaciuti.

Quando erano venuti all'istituto la prima volta, avevano osservato scrupolosamente ogni bambino, uno per uno in cerca di un qualche difetto.

"Ne voglio uno presentabile George!" Aveva sussurrato all'orecchio del marito la signora Morin.
"Abbiamo già avuto abbastanza seccature con gli altri."

Ti prego fa che non scelgano me, fa che non scelgano me.
Avevo supplicato implorante ad occhi chiusi.

Avevo tredici anni ormai e da dieci facevo avanti e indietro da un istituto all'altro, da quando i miei genitori erano morti e nessuno aveva voluto prendersi a carico la loro figlia.

Conoscevo fin troppo bene le dinamiche di quei luoghi, non era il primo affido al quale venivo assegnata e i signori Morin erano il classico prototipo di famiglia allo scatafascio.

Entrambi ceto medio, lei sosteneva di essersi licenziata per stare vicino ai bambini ma la verità era che probabilmente l'avevano liquidata e ora avevano bisogno degli assegni statali. Quali metodo migliore se non prendersi a carico qualche bambino dall'orfanotrofio?

In quegli anni c'era il boom degli abbandoni. Gli aborti non erano ancora molto praticati e tanti piccoli falliti come me finivano in istituto. Necessitavamo di stalli temporanei, non potevano tenerci tutti e questi candidi, amorevoli americani, venivano in visita da noi professando amore e gioia di accogliere un bambino in una grande famiglia.

Bugie. Erano tutte enormi bugie.

La realtà era che lo stato era molto generoso a quei tempi con chiunque volesse dare una mano a risolvere questo enorme problema. Poco importava quali fossero le sue credenziali, quali fossero i suoi principi e da cosa fosse mosso. Se la fedina penale era pulita, erano genitori perfetti per queste creature che d'altronde non avevano nulla.

Lo sapevo bene e per questo le mie gambe tremarono quando la signora Morin indicò me.

"È carina. Di che origini..?"
Chiese alla direttrice indicandomi.

"I genitori erano bulgari."
Rispose questa guardandomi con compassione. Anche lei aveva capito che fallimento sarebbe stato. Lo sapeva benissimo ma eravamo troppi, doveva alleggerire il carico o non sarebbe riuscita a mandare avanti l'istituto.

La signora Morin si abbassò allora davanti a me.

"Oh si bambina, vieni a casa con noi."
Disse masticandomi la sua gomma americana in faccia. Gli occhi erano vitrei, i denti gialli rovinati dal fumo. Qualcosa in lei mi fece accapponare la pelle fin dal primo incontro.

Ero carne da macello. Mi sentivo come in mezzo ad una compravendita, esposta, fragile e in balia della sorte. Non potevo rifiutarmi di andare, mi ci avrebbero mandata in qualche modo.


Di nuovo. E poi di nuovo in istituto perché "la bambina è poco collaborante", "sporca il letto", "urla di notte", "fatica a mostrare sentimenti".
Una sfilza di scuse per dire che l'impegno era troppo per quell', seppur corpulento, assegno statale.

Tempo pochi mesi e mi avrebbero mandata indietro come un pacco postale.

Meglio così in realtà. Al Groven mi trovavo bene. Certo, eravamo in tanti. Il cibo era poco e non molto di qualità, i dormitori erano affollati e molte volte era una lotta sopravvivere lì dentro ma gli operatori che ci lavoravano sembravano davvero avere a cuore quei bambini. Non alzavano mai la voce contro di noi, non ci sgridavano per cose futili e talvolta, se gli avanzava del tempo, si fermavano anche ad accarezzarci la testa.

Il mondo fuori dal Groven era molto peggio e io non immaginavo nemmeno quanto mentre scendevo da quella macchina e mi incamminavo verso la mia ennesima delusione.


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