Silenzio

Per poco non dovemmo chiamare un'ambulanza per Ilian. Donato ci andò giù pesante: era furioso, forse di più di quando scoprì che Giovanni si portava a letto Laura.

Ilian era ridotto male, così tanto che David aveva dovuto aiutarlo ad alzarsi da terra. Pensai che se avesse reagito non sarebbe andata così, invece, inspiegabilmente, reagì a stento alla furia di Donato, incassando solo colpi. Forse non si aspettava che Donato stesse parlando del loro bacio e non del nostro.

Donato era così incazzato che furono vani tutti i tentativi dei miei fratelli di calmarlo, urlava come un forsennato e così tutta la scuola di danza, e ovviamente i miei fratelli, seppero che avevo baciato Ilian.

Ilian era ridotto male, Corrado aveva un occhio nero per essersi messo in mezzo, tutta la scuola di danza sapeva che avevo baciato Ilian, ma cosa più importante: Donato non mi parlava più.

Dopo aver scaricato tutta la sua ira contro Ilian, aveva deciso di smettere di parlare con sua sorella e di farmela pagare in questo modo, con il silenzio. Non poteva punirmi per quello che avevo fatto, perché la colpa non era solo la mia, perché sapeva come agisce quell'uomo, ma poteva farmi sentire di merda, buttandomi in faccia il suo disgusto nei miei confronti con un silenzio che valeva molto più di mille parole.

«Vado dai ragazzi» dissi alzandomi da tavola dopo cena.

Era il giorno dopo l'accaduto, era un giorno in settimana e non mi era permesso uscire, ma lo stavo facendo di proposito, per avere una qualche reazione di Donato.

«A-a quest'ora?» mi chiese Mirko. Guardò il suo fidanzato che, con la testa china nel piatto, continuava a mangiare come se niente fosse.

«Sì, vado a piedi, faccio una passeggiata» continuai imperterrita.

«Ma è buio» mi disse Mirko per farmi cambiare idea.

Alzai le spalle. «Non fa niente» dissi e mi mossi per prendere tutto quello che mi serviva per uscire di casa.

«Ti accompagno io» mi disse Mirko alzandosi di scatto dal tavolo a sua volta.

«Mirko, non serve, posso andare da sola.»

«No, non è un problema, ti accompagno io, devo solo...» borbottò guardandosi intorno. «Donato, dove sono le chiavi della macchina?» chiese a mio fratello.

A quel punto Donato alzò lo sguardo su Mirko, lo fissò senza dire niente.

Mirko deglutì, poi si grattò la testa leggermente imbarazzo e mi sorrise. «Andiamo a piedi?» mi chiese.

«Mirko, posso andare anche da sola» ripetei.

«No, mi fa piacere accompagnarti. Dai, andiamo.»

Mirko salutò Donato prima di uscire, ma non ottenne nessuna risposta. Si stava mettendo nei guai con Donato per colpa mia.

«Mirko, non serviva che mi accompagnassi, davvero, così si arrabbia anche con te» gli feci notare.

Lui sbuffò. «Avrei voluto che ti accompagnasse lui, così magari parlavate.»

«È inutile, adesso deve farmela pagare per quello che ho fatto.»

«Forse se tu...»

«Non gli chiederò scusa» anticipai Mirko, che si zittì all'istante, evidentemente aveva proprio questo da suggerirmi. «Non ho niente di cui chiedere scusa, sono io la vittima qui. Sono io che ho perso il mio fidanzato a causa di quel bacio. Non ho intenzione di chiedere scusa per questo.»

«Mi dispiace. Non mi hai riservato questo comportamento, perciò non so che consigli darti.»

Gli sorrisi. «Non sentirti in obbligo nei miei confronti, gli passerà» dissi poco convinta, non ci credevo tanto al fatto che Donato avrebbe ripreso a parlarmi, perlomeno non subito.

Quando arrivammo dai miei fratelli mi accolsero tutti con molto affetto, a differenza di Donato, loro erano riusciti a passarci sopra molto più facilmente.

«Come stai?» chiesi a Corrado dandogli un bacio sulla guancia.

Lui storse la bocca a quella domanda e io guardai meglio il suo occhio sinistro: si stava formando un livido scuro attorno all'occhio, che sembrava un po' gonfio.

«Bene» disse.

«Sicuro?»

Corrado mi accarezzò la guancia prima di sussurrarmi: «Non è colpa tua.»

Annuii. Già, non era colpa mia, eppure mi sentivo da schifo per quello che era successo.

Mirko decise di restare con me per tutta la serata perché non voleva che ritornassi a casa da sola, ignorando il fatto che probabilmente uno dei miei fratelli mi avrebbe accompagnato.

«Mirko, pensavo...» gli dissi avvicinandomi a lui che era seduto sul divano a parlare con Giovanni. «Di dormire qui stanotte.»

Mirko mi guardò quasi con lo sguardo implorante, forse aveva capito che avevo intenzione di restare a dormire con i miei fratelli senza chiedere il permesso a Donato.

«Martina, lo sai che non posso darti il permesso» mi disse dolcemente.

«Non ho bisogno del permesso per dormire dai miei fratelli» affermai alzando le spalle e cercando con lo sguardo quello dei miei fratelli per avere l'appoggio da loro.

«No,» disse Simone, «non ne hai bisogno, ma forse Donato andrebbe messo al corrente.»

Sbuffai e Simone prese il telefono per chiamare Donato e informarlo che era mia intenzione restare a dormire da loro.

Quando Simone concluse la sua telefonata ritornò in salone, dove eravamo tutti, con una strana espressione. Aveva la fronte corrugata e restò in silenzio a fissare me e Mirko, prima di dirci che aveva detto Donato.

«Forse è meglio se tornate a casa» ci disse.

«Perché?» chiese Mirko.

«Donato ha detto, e cito testualmente, che per quanto gli riguarda potete restare qui anche per sempre, tutti e due.»

Mirko si passò una mano sul viso e chiuse gli occhi, sofferente. «Merda» imprecò. «Dai, andiamo a casa» mi disse alzandosi.

Scossi la testa. «No,» dissi, «non voglio dargliela vinta.»

Ed era vero, ero stanca di assecondare Donato quando era arrabbiato o di stare attenta a cosa dire o a cosa fare per non farlo arrabbiare.

«Dargliela vinta?» ripeté sconvolto Corrado.

«Sì, voglio restare qui, punto e basta.»

«Martina, non fare la bambina» mi rimproverò Simone.

«Io la bambina? E lui che non mi parla nemmeno? Ho deciso: io resto qui.»

«Ti prego, andiamo a casa e mettiamo fine a questa cosa» mi disse Mirko.

«È questa casa mia!» sbottai arrabbiata per l'insistenza. «Non la tua.»

«Martina!» urlò Corrado.

Tutti i miei fratelli mi guardarono male dopo aver detto quella frase, forse avevo esagerato, ma proprio non volevo che Donato avesse la meglio, non quella volta. Poteva fare l'offeso quanto gli pareva. Mi dispiaceva solo che ci stesse andando di mezzo Mirko.

«No,» disse Mirko a Corrado, «è vero, ha ragione: è questa casa sua. Allora hai deciso?»

«Sì. Ho deciso.»

«Bene» commentò, poi ci salutò e tornò a casa sua senza di me.

***

La mattina dopo mi sentivo terribilmente in colpa per aver parlato in quel modo a Mirko, e mi ripromisi di chiedergli scusa. In tutta quella storia lui era l'unico che aveva provato a stare dalla mia parte.

La colazione con i miei fratelli fu la parte più divertente di tutta la giornata, avevo dimenticato, infatti, il caos che erano capaci di creare per riuscire a uscire tutti insieme alla stessa ora da casa.

Dovetti ammettere, mio malgrado, in quell'occasione, di sentire la mancanza di Donato: ci fosse stato lui, i miei fratelli non avrebbero fatto tutta quella confusione.

«Dove cavolo sono i miei calzini?» urlò Giovanni mentre io cercavo di fare colazione.

Francesco mi guardò, poi si rivolse a Giovanni: «Stai parlando davvero dei calzini o dei preservativi?»

Dal ridere per poco non mi affogai con il latte. «Dei miei calzini, deficiente» gli rispose Giovanni.

«Ieri ho fatto la lavatrice,» si inserì Corrado, «se non sono tra i vestiti puliti, lo sai tu dove li hai messi.»

«Eccoli!» esclamò Simone entrando in cucina con una cesta pieni di calzini e mutande pulite dei miei fratelli.

Tutti loro cercarono frettolosamente in quella cesta la propria biancheria intima, per poi fuggire in bagno a prepararsi, chi arrivava prima ai bagni era sicuramente quello più avvantaggiato perché aveva più tempo per prepararsi.

Io, invece, avevo messo la sveglia mezz'ora prima dell'orario in cui di solito si svegliavano loro ed ero già pronta, avevo solo bisogno di lavare velocemente i denti.

Guardai sogghignando, da dietro la tazza, Daniele che batteva i pugni sulla pronta perché Giovanni era riuscito a entrare prima di lui.

Gli osservai, divertendomi tantissimo, fin quando non furono pronti e potemmo uscire tutti insieme di casa, come i vecchi tempi.

La giornata trascorse tranquilla, il pranzo lo avevo trascorso di nuovo con i miei fratelli e anche la giornata alla scuola di danza era andata a meraviglia: Donato non c'era. Non avevamo né la sua lezione e né lui si era fatto vivo, ma finita la lezione di Giovanni, Mirko e Lucia mi vennero a prendere per portami a casa.

Storsi la bocca quando li vidi aspettarmi nella zona segreteria, per quanto mi riguardava avrei benissimo potuto restare per sempre a casa con i miei fratelli, ma a quanto pareva, secondo Mirko e Lucia, avevo un conto in sospeso con Donato, che non ero per nulla pronta a saldare. 

***

Appena io Mirko e Lucia mettemmo piede in casa, Donato accolse Mirko e Lucia calorosamente.

«Ciao, Lucy!» le disse abbracciandola, un abbraccio del quale fu sorpresa anche la stessa Lucia, mentre scoccò a Mirko un dolce bacio sulle labbra, il quale sorrise arrossendo.

A me non disse nemmeno "ciao", continuava a ignorarmi.

«Ho fatto il pesto!» annunciò allegro come una pasqua.

Lo trucidai con lo sguardo, io odiavo il pesto e lui lo sapeva benissimo: l'aveva fatto di proposito.

«Mi piace il pesto» disse Lucia sorridendogli.

«A me no, mi fa schifo» dissi.

«Davvero?» mi chiese Lucia, sbigottita.

«Davvero» ringhiai guardando Donato negli occhi, lui si limitò ad alzare le spalle, indifferente.

Mi morsi l'interno della guancia per evitare di esplodere, avrei voluto prenderlo a parole per quello che stava facendo, ma evidentemente era il suo modo per farmela pagare senza parlarmi, dargli soddisfazione avrebbe significato farlo vincere.

Ci sedemmo a tavola e Donato servì la pasta. Scambiai, senza che lui mi vedesse, il mio piatto con quello di Lucia, perché mi aveva fatto una porzione decisamente esagerata. Lucia mi guardò aggrottando la fronte, perplessa, e io le feci segno di tenermi il gioco.

La cena non fu per niente silenziosa, solo che io non avevo nulla da dire, e mi stavo sforzando tantissimo di mangiare la pasta con il pesto senza vomitare.

Quando Mirko accompagnò Lucia a casa, io e Donato restammo da soli.

Donato si alzò da tavola, e dopo aver raccolto tutti i piatti iniziò a lavarli.

Decisi a quel punto che avrei giocato sporco anch'io, volevo ancora fare pace con lui e dovevo cercare in tutti i modi di avere una qualche reazione da lui.

La giornata passata interamente con i miei fratelli mi aveva fatto rimpiangere i momenti trascorsi in quella casa, ne sentivo la mancanza, ma non volevo ritornare a vivere con loro. Decisi, invece, che avrei fatto credere il contrario a Donato.

«Donato?» lo chiamai avvicinandomi a lui.

Donato era girato di spalle, aveva indossato il grembiule per pararsi dagli schizzi dell'acqua e si era infilato i guanti.

Ovviamente non mi rispose.

Deglutii e mi feci forza per cominciare a parlare. «So che hai deciso di non parlare con me,» cominciai, «ma magari puoi ascoltare e rispondere solo sì o no. Non è tanto difficile, giusto?»

Aspettai qualche secondo, ma non ebbi risposta. «Bene. Chi tace acconsente. Pensavo... so che magari sarà difficile, ma possiamo sempre provare. Mi piacerebbe tornare a vivere con i ragazzi. Lo so che sei il mio tutore legale e tecnicamente dovrei vivere con te e bla bla bla, ma magari possiamo chiedere al giudice il permesso, che ne pensi?»

Donato sciacquò l'ultimo piatto e chiuse l'acqua, si tolse i guanti e si appoggiò con entrambe le mani al lavello. Sospirò.

«Va bene» sussurrò.

Si tolse il grembiule e lo gettò su una sedia, poi si mosse per andare a sistemare il salone.

«Cosa?» scattai, non era quello che mi aspettavo.

Donato prese i cuscini del divano e cominciò a sprimacciarli. «Ho detto che va bene, domani chiamo il giudice e gli chiedo se è possibile.»

«Stai scherzando?»

«No, non sto scherzando, sono serio.»

Merda! Avrei voluto prenderlo a schiaffi. «Cazzo, Donato! Cosa cavolo devo fare per avere una reazione da te, eh?»

«Come?» chiese con estrema calma.

«Non voglio ritornare a vivere con i ragazzi, volevo solo sfidarti, spingerti a urlarmi contro che sei il mio tutore legale e che devo fare quello che mi dici, così io avrei urlato a mia volta che non puoi decidere della mia vita e tu mi avresti ribadito che quello che fai lo fai sempre per il mio bene, e saremmo tornati a essere quelli di sempre» urlai a pieni polmoni. «E invece hai detto sì, e subito! Che cosa devo fare? Chiederti scusa? Non voglio chiederti scusa, non posso chiederti scusa.»

«Non voglio le tue scuse.»

«E cosa vuoi?» gli dissi guardandolo con lo sguardo implorante, non ne potevo già più di quella situazione.

«La verità.»

La verità? Che cosa voleva dire?

Lo guardai senza capire, mentre andava a prendere due bicchierini dalla credenza e li posizionava sul tavolo della cucina insieme a una bottiglia di vodka liscia.

«Giochiamo» disse indicando il tavolo. «A quello stupido gioco, io e te.»

Per stupido gioco Donato intendeva "non ho mai", il gioco che ci aveva ridotto a quel silenzio.

Scossi la testa. «No, non voglio giocare, chiedimi quello che vuoi e ti risponderò, non ha senso così.»

«O lo facciamo così o non lo facciamo proprio» s'impuntò, poi si andò a sedere al tavolo.

Pensai se accettare di farlo oppure no, ero arrivata fino a quel punto, potevo mai fermarmi?

Mi accomodai sulla sedia di fronte a lui e lo osservai riempire i cicchetti di vodka, pensavo che fosse veramente impazzito se voleva farmi bere vodka liscia.

«Inizio io» disse, e io alzai gli occhi al cielo. Ci avrei giurato. «Non ho mai fatto sesso con Ilian.»

Ruotai gli occhi e sbuffai. «Oh Dio, Donato!» esclamai. «Te lo ripeto: se vuoi chiedermi qualcosa chiedi e basta.»

«Non ho mai fatto sesso con Ilian» ripeté e il suo tono non ammetteva obiezioni.

Lo guardai fisso negli occhi e allontanai da me il cicchetto, non avevo fatto sesso con Ilian, non avrei bevuto.

«Non bevi?» chiese.

«No» risposi.

«Va bene, allora...»

«No, no, no» lo bloccai, «Le regole del gioco non te le ricordi, per caso? Devi bere tu perché hai detto una cosa che io nemmeno ho mai fatto, e poi tocca a me.»

«Cosa?»

«Sono le regole del gioco» dissi sogghignando.

Donato sospirò, poi bevve il cicchetto in un sorso, strinse gli occhi disgustato quando la vodka scese nella sua gola.

«Non ho mai provato niente per Ilian» dissi sorridendo.

Era chiaro che quel "non ho mai" sarebbe stato in versione "Ilian".

«Cosa? Stai mentendo! Mi hai detto di non odiarlo, me lo ricordo.»

«Questo non significa che ho mai provato qualcosa per lui.» Ed era vero, non avevo mai provato nulla per quell'uomo, se non tanto odio.

«Oh, Dio» imprecò Donato prima di riempirsi il bicchiere e bere di nuovo.

Mi portai una mano sulla bocca per trattenermi dal ridere.

Donato respirò a fondo, quasi per riprendersi dall'aver bevuto due cicchetti di vodka di seguito.

Rifletté prima di parlare. «Non ho mai visto Ilian di nascosto» disse.

Stavolta aveva fatto centro, toccava a me bere e confessare.

Avvicinai il cicchetto alla bocca, ma Donato mi bloccò il polso. «Ferma» mi disse. «Non c'è bisogno che bevi, racconta e basta. Non ho intenzione di farti sentire male, che razza di tutore legale sarei?»

Gli sorrisi appena appoggiando di nuovo il bicchierino pieno sul tavolo.

«È successo un paio di volte, ma non per mio volere» inizia a raccontare. «Una volta ero andata a casa di David per parlare con i suoi genitori e siamo rimasti soli io e Ilian, e un'altra volta è venuto all'ospedale, fuori dall'orario di visita, perché gli avevo chiesto di darmi spiegazione sul prestito.»

«E come si è comportato?»

«Bene, entrambe le volte.»

Era vero, quelle rare volte che io e Ilian eravamo rimasti soli si era comportato bene con me, quasi dolcemente.

Donato annuì, poi abbassò lo sguardo e si fece forza per alzarsi dal tavolo.

«Volevo solo questo, che tu mi dicessi la verità, nulla di più.»

«Donato, come potevo dirti che Ilian mi aveva baciato?» mi difesi. «Ti saresti arrabbiato e io non...»

«È questo quello che mi dà fastidio. Hai paura di dirmi alcune cose e io non voglio che tu abbia paura di dirmele, perché vuol dire che hai paura di me.»

«Io non ho paura di te, ho paura solo di deluderti.»

«Non lo ritengo possibile.»

Sorrisi più a me stessa che a lui. «Vai a studiare, sono due giorni che non fai i compiti» disse e io scoppiai a ridere, consapevole del fatto che in quei due giorni non gli ero stata tanto indifferente. 

***

Ero seduta alla scrivania nella mia stanza quando mi arrivò una chiamata che mai mi sarei aspettata, quella di David.

Presi il telefono tra le mie mani e lo guardai, mentre sullo schermo lampeggiava la scritta "David" con sotto ancora la foto di noi due abbracciati.

Non risposi subito, perché nella mia mente in quei pochi secondi passarono una serie diversi di scenari possibili, e tutti mi facevano paura.

«Pronto?» dissi rispondendo dopo il sesto squillo.

«Martina» gli sentii dire quasi in un sussurro.

«David» dissi a mia volta.

Ci fu silenzio, silenzio che ero decisa a non riempire io anche perché aveva chiamato lui.

«Come stai?» chiese.

Aspettai prima di rispondere. «Bene, tu?»

Sembrava una conversazione tra estranei e non tra due persone che erano state insieme e che si erano amati.

David sospirò. «Martina, vorrei parlati.»

«Ti ascolto.»

«Ehm, io... ho pensato che... ecco, io... vorrei, ehm...»

Aggrottai la fronte a sentirlo così titubante: non era da lui.

«Vorresti?» lo aiutai.

«Io vorrei...» si bloccò d'improvviso. «Con chi stai parlando?» sentii dire a Ilian, poi la conversazione fu interrotta bruscamente. 


Eccomi! Spero che il capitolo vi sia piaciuto, come sempre lasciatemi i vostri commenti! Al prossimo giovedì! 

Mary <3 

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