La scuola di danza


«E cinque, sei, sette e otto!» esclamò Corrado e noi, attaccati alla sbarra, cominciammo ad eseguire gli esercizi che ci aveva assegnato: Corrado era il nostro insegnante di danza classica. A mio parere era il miglior insegnate che ci fosse al mondo, ma, il mio parere, era fortemente soggettivo.

Quando i miei fratelli, dopo la morte dei nostri genitori, avevano preso le redini della scuola di danza, si erano divisi i compiti. Così come per mantenere la casa, anche per la scuola di danza ognuno di noi svolgeva il proprio ruolo. Donato, essendo il più portato per la danza moderna, aveva scelto di insegnare proprio quella disciplina; Simone, invece, insegnava danza jazz e contemporanea; Corrado danza classica; e, infine, Giovanni insegnava danza hip-hop. Io e i fratelli più "piccoli" e ancora non diplomati eravamo i loro allievi e, a volte, li aiutavamo come assistenti nei corsi delle classi dei primi anni.

Tutti i miei fratelli, esclusa me, erano stati obbligati da mio padre a ballare. I miei genitori avevano aperto la scuola di danza dopo essersi conosciuti e innamorati frequentando i corsi alla stessa scuola di danza. Mio padre non aveva dato alternative ai miei fratelli; tutti furono costretti a ballare. Lui voleva che tutti i suoi figli seguissero le sue orme, e che diventassero dei ballerini professionisti, o che, quantomeno, lo aiutassero nella gestione della scuola di danza. Per i miei fratelli, però, a causa di questa costrizione, fu difficile innamorarsi di quest'arte meravigliosa che è la danza. Considerando, poi, che mio padre era un insegnate molto severo, e che pretendeva sempre il massimo da loro. A loro non andava proprio giù di dover mettere da parte la loro vita per diventare dei ballerini professionisti. "La danza è disciplina e rigore" diceva sempre nostro padre, o almeno, è quello che mi hanno raccontato i miei fratelli.

Per quanto riguarda me, nessuno mi ha costretto a iniziare a ballare. I miei genitori morirono quando avevo appena tre anni e non avevo di certo ancora l'età per decidere se volevo diventare una ballerina o no. Quando ho potuto farlo, i miei fratelli lasciarono a me la scelta e io scelsi di ballare.

Corrado ci aveva disposti, come al solito, attaccati alla sbarra: ragazzi da una parte e ragazze dall'altra. David si era posizionato strategicamente accanto a me dall'altra parte della sbarra, così da trovarci faccia a faccia quando non ci trovavamo di spalle.

«E... pliè, quinta e sulle punte!» urlò Corrado, mentre passava con le mani dietro la schiena per controllare che eseguissimo alla perfezione i movimenti. «Ragazze sulle punte, non sulle mezze punte, se non sapete la differenza vi rimando al primo corso!»

Salimmo tutte sulle punte con la mano sinistra attacca alla sbarra e la destra in quinta posizione.

«Tenete la posizione...» Corrado continuava a passare accanto a noi, aggiustando la posizione a chi la stava sbagliando. «Gambe tese, Giorgia. Paolo stai diritto con la schiena...» Passò accanto a me e mi alzò il mento con l'indice. «Testa alta, signorina, non guardarti i piedi.» Andò dall'altra parte della sbarra, dai ragazzi. «Daniele più alto il braccio...» Daniele fece quanto gli disse. «Ecco, bravo, così...» Si avvicinò a David; lo guardavo con la coda dell'occhio cercando di non abbassare la testa. «David devi fissare il punto, non mia sorella.» Lo rimproverò girandogli la testa dall'altra parte. Cercai di trattenermi, ma mi scappò comunque un sorriso.

Corrado continuò a girare come un falco per controllare che tutti eseguissimo l'esercizio alla perfezione, non ci avrebbe fatto staccare dalla sbarra se così non fosse stato. Mio fratello Corrado era l'insegnante più esigente della scuola, nonostante insegnare non era quello che avrebbe voluto fare nella vita. Era l'unico di noi che aveva il fisico perfetto del ballerino di danza classica: alto, magro e con muscoli lunghi e non troppo muscolosi. Probabilmente sarebbe potuto diventare un ballerino professionista e, anche se non l'avrebbe mai ammesso, la morte dei nostri genitori non gli aveva permesso di coltivare il suo sogno.

Quando finalmente fu soddisfatto, ci fece scendere dalle punte. Ci fece posare la sbarra, anzi, fece posare la sbarra ai ragazzi e poi ci fece mettere al centro della sala per provare la variazione per il saggio di fine anno. Quell'anno avremmo messo in scena "Romeo e Giulietta".

Corrado andò a sedersi sulla sedia posta accanto allo specchio e allo stereo, prese il telecomando dello stereo e ci fissò.

«Allora» disse. «Mi raccomando, non mi fate ripetere sempre le stesse cose. Gambe tese, punte tese, braccia dure, leggeri e non abbozzate i movimenti. Prego.»

Fece partire la musica e in sincronia, o meglio, cercando di muoverci in sincronia gli uni con gli altri, iniziammo a ballare. Ma non passarono neanche trenta secondi che Corrado spense la musica, irritato. «No, no e no!» esclamò scuotendo la testa e sbuffando. «Dovete essere più eleganti, più aggraziati. Quando salite in arabesque dovete farlo lentamente, ma non a rallentatore. Lo fate così velocemente che quasi non si vede il movimento, non state facendo una gara, cercate di non pensare troppo a quello che viene dopo. Da capo.»

Annuimmo promettendoci di fare quello che ci aveva chiesto, anche se sapevamo benissimo che non sarebbe andato bene comunque; la ricerca della perfezione è quasi impossibile.

Ci sistemammo di nuovo in posizione aspettando che facesse partire di nuovo la musica, ma, prima di farlo, si fermò.

«Roberta che stai facendo?» chiese alla ragazza dietro di me. Io ero sistemata in prima fila, come sempre; David era dietro di me e, accanto a lui, c'era Roberta. Roberta si scrutò, poi rivolse a mio fratello uno sguardo confuso, non riusciva a capire da cosa era dipeso quel richiamo. «Che cosa hai fatto?» le chiese, ancora, Corrado. Roberta ci guardò quasi in cerca d'aiuto. La stavamo guardando tutti, immaginavo l'imbarazzo che stesse provando: il suo volto era dipinto di un rosso tenue.

«Io...» cominciò, ma Corrado la bloccò.

«Hai aggiustato la posizione.» le disse.

Roberta fu sollevata, tirò un respiro di sollievo, forse pensando di non aver fatto nulla di grave. «Sì, non ero nella posizione giusta.» Cercò di sorridere.

Corrado ci guardò. «Non lo fare mai più. Tutti i tuoi compagni erano fermi, se avessi fatto una cosa del genere sul palco di fronte a trecento persone, sarebbe stato orribile da vedere. Non eri nella posizione giusta, è vero, ma dovevi stare ugualmente ferma e cercare di riacquistare la posizione a musica iniziata, non prima. Azzardati a fare una cosa del genere al saggio e ti ammazzo.» Roberta si paralizzò impaurita al suono di quelle parole. Corrado era l'insegnate più esigente, ma anche quello più duro, le sue ramanzine avevano il pregio di essere calme, ma efficaci allo scopo. «Capito?» le disse in cerca di consenso. Roberta annuì velocemente. «Vale per tutti, ovviamente.»

Nessuno di noi rispose, la tensione che si respirava in quella sala era evidente.

Corrado riaccese la musica e ricominciammo a ballare, ma c'era sempre qualcosa che non andava bene, così prese la decisione di farci provare la variazione divisi a gruppi di cinque. I primi cinque fummo: io, David, Roberta, Paolo e Jessica.

Ci posizionammo più distanti li uni dagli altri, in questo modo poteva guardarci con più attenzione. Dopo la seconda volta, però, Corrado fermò di nuovo la musica.

«Quando vi trovate in questa posizione» disse, mentre veniva al centro della sala e si posizionava in terza posizione. «E poi c'è il giro, chassè e arabesque, dovete fare dei movimenti più fluidi e restare un po' in arabesque.» disse, eseguendo alla perfezione tutti i movimenti. «Vi è chiaro?» ci chiese. Dalla posizione in cui si trovava poteva fissarci tutti negli occhi. «Sì.» rispondemmo.

Eseguimmo la variazione ancora e ancora, non le contavo più le volte che l'avevamo ripetuta. Avevo le gambe stanche e i piedi mi facevano malissimo. Per fortuna, però, dopo aver richiamato David che per poco non mi veniva addosso, e me che mi guardavo i piedi, ci lasciò andare e fu il momento del secondo gruppo.

Ci sistemammo a bordo sala a osservare mentre gli altri andavano al patibolo. Il secondo gruppo era formato da: Francesco, Daniele, Ivan, Manuela e Barbara.

Corrado fece partire la musica, ma stavolta li fece ballare un po' più, prima di fermarla. Si mise le mani sul volto terribilmente annoiato, si sciolse il codino – nel quale teneva legati i suoi scurissimi capelli – e si aggiustò i ciuffi sfuggiti ad esso.

«Ragazzi, che cosa ho detto al gruppo di prima?» chiese. Nel suo tono di voce c'era un'evidente voglia di mettersi a piangere per l'esasperazione.

Tutti e cinque si guardarono perplessi. Andiamo è facile! Nessuno di loro rispondeva.

«Francesco?» domandò a mio fratello.

Francesco aprì la bocca e cominciò a guardarsi intorno in cerca di risposte, che non trovò. «Di tenere le punte tese?» chiese.

«No.»

«Oh... di essere più aggraziati!» esclamò con aria trionfante, ma non era quello che voleva sentirsi dire Corrado.

«Ancora no. Daniele, te lo ricordi tu per caso? Visto che, come al solito, Francesco è disattento.»

«Hai detto che quando eseguiamo il giro con chassè e arabesque dobbiamo fare movimenti più fluidi e restare un po' in arabesque.» rispose Daniele con una punta di saccenteria nella voce.

Daniele era l'allievo preferito di Corrado. Era il più bravo tra noi ed anche il più educato e attento, per questo Corrado, quando eravamo in sala, lo adora. In casa era diverso, in casa Daniele era più sfacciato. Era sempre educato, ma se aveva qualcosa da dire non riusciva a trattenersi certo. Quando Daniele era arrabbiato c'era solo da scappare, non lo tratteneva più nessuno. In sala, però, era una persona totalmente diversa, forse perché il più bravo e il meno ripreso tra noi, viveva i momenti in sala più serenamente.

«Esattamente.» confermò Corrado guardando Francesco. «Da capo.» disse e loro ripresero a ballare.

Approfittando della distrazione momentanea di Corrado, David mi venne vicino. Eravamo in un angolo della sala, in piedi, appoggiati alla sbarra a muro.

«Per quanto sei ancora in punizione?» mi chiese bisbigliando.

Aspettai qualche secondo, prima di rispondere. «Quattro giorni.»

David storse la bocca a quelle parole. «Vuol dire un altro weekend senza vederci?» Le sue parole trasmettevano amarezza. Anche io non vedevo l'ora di uscire con lui. Due settimane senza vederci erano pesanti. Certo, ci vediamo tutti i giorni alla scuola di danza, ma non era la stessa cosa, non potevamo stare da soli come avremmo voluto.

Annuii, lui sbuffò.

«Perché non chiedi il permesso per uscire lunedì? Non ce la faccio ad aspettare al prossimo sabato!»

«Lo sai che ho il permesso di uscire solo nel weekend.» Le regole in casa erano chiare: in settimana non si usciva, il giorno dopo c'era la scuola e la danza.

«Lo so, ma potresti inventare qualche scusa, qualche festa di compleanno o... non lo so...»

Inventare una scusa con i miei fratelli per uscire? Non so se avrei retto. Quando dicevo una bugia mi si leggeva in faccia.

«David, non lo so...»

«Almeno provaci.»

«Va bene, io...»

«Martina e David!» ci rimproverò Corrado. Saltammo entrambi dalla paura. «Volete stare zitti?»

«S-scusa.» balbettammo.

Sorrisi a David e lui mi fece l'occhiolino. Avrei provato a chiedere ai miei fratelli il permesso per uscire in settimana, lo amavo tanto e anch'io avevo voglia di passare del tempo sola con lui.

Quando finì la lezione di danza, mi cambiai velocemente e andai a cercare uno dei miei fratelli, uno qualsiasi. Avevo deciso che, al primo che avrei incontrato, avrei chiesto il permesso, anche se quello che contava davvero era uno solo: Donato.

Appena fui fuori dallo spogliatoio, il primo che incontrai fu, sfortunatamente per me, proprio Donato. Se avessi chiesto il permesso a Simone o a Corrado, o ancora meglio a Giovanni, sarebbe stato tutto più facile, ma Donato era un osso duro.

Donato era seduto dietro la scrivania che avevamo adibito a una specie di luogo d'accoglienza. Lì ci occupavamo delle iscrizioni, dei pagamenti del mensile e così via.

Mi avvicinai velocemente a lui, che era sommerso da carte e stava facendo un conto con la calcolatrice. «Donato, posso parlarti un attimo?» gli chiesi.

Donato non alzò la testa dalle carte. «Non ora, ho da fare.»

«Cinque minuti.»

Finalmente alzò la testa e mi guardò. «Tra un momento.» disse.

Aspettai in silenzio che finisse il suo lavoro e quando finalmente ebbe concluso, si alzò dalla sedia e mi squadrò da capo a piedi. Conoscevo benissimo quello sguardo, credeva che avessi combinato qualcosa e, probabilmente, si aspettava di dovermi punire ancora, perciò cominciai ad agitarmi.

«Allora? Che avevi da dirmi?»

«Ecco, vedi... io lo so che non mi è permesso, ma non te lo chiederei se non fosse importante, io...» Cazzo, stavo già sudando.

Donato mi guardava alzando un sopracciglio perplesso, stavo farfugliando parole senza senso presa dall'ansia. Mi fermai. Tirai un respiro profondo e aprii di nuovo la bocca alla ricerca di parole sensate, mentre qualcuno, nel frattempo, bussava alla porta della scuola di danza. Donato fece scattare il pulsante per l'apertura, senza nemmeno guardare chi fosse, dopodiché ritornò a guardare me.

«Buonasera.» ci dissero.

«Buonasera.» risposi io, mentre Donato si girò a guardare la persona che ci aveva salutato. «Ilian!» esclamò.

Mi paralizzai all'istante, quel nome mi faceva sempre rabbrividire.

Donato uscì dalla zona "segreteria" e andò adabbracciare Ilian, il fratello di David.    


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