Il risveglio

Sbuffai roteando gli occhi quando vidi l'ennesimo errore da correggere. Mi avvicinai a Federica e le misi una mano sulle spalle per farle capire che le teneva troppo alzate. Lei rilassò i muscoli e continuò a eseguire l'esercizio alla sbarra.

Rimasi fermo, con le braccia incrociate sopra al petto, a osservarli tutti.

Quanto mi annoiavo. Guardai l'orologio per vedere quanto tempo mancasse ancora alla fine della lezione. Detestavo le lezioni così, ma non potevo non fargli fare almeno un'oretta alla sbarra, era necessario per fargli perfezionare la tecnica, ma in giorni come quello, giorni in cui ero particolarmente nervoso, li avrei cacciati a calci nel culo dalla sala.

Ogni volta che mi giravo ad osservarli, infatti, intravedevo un errore; a volte bastava che io urlassi per correggerli, a volte dovevo andare da loro e sistemare io l'errore.

Mi sentivo così nervoso e anche un po' stanco che avrei voluto sedermi in un angolo e arrendermi al fatto che tanto anche con le mie correzioni avrebbero sbagliato ancora, ma non potevo: era il mio dovere insegnare, anche se non lo avevo scelto io.

Sospirai e cominciai a camminare con le braccia dietro la schiena osservando le ragazze.

Guardai le loro punte e, per terra, sul parquet, notai un filo nero. Mi abbassai per raccoglierlo e andai a buttarlo nel cestino dell'immondizia, poi ritornai al mio lavoro.

A un tratto sentii ridacchiare delle ragazze dietro di me, mi girai di scatto per fulminarle: le occhiatacce erano la mia specialità.

Silvia e Roberta trattennero di nuovo un risolino quando le fissai, allora mi avvicinai lentamente a loro e, quando fui sicuro di essere a pochi centimetri da loro, chiesi: «Che avete tanto da ridere?»

Roberta, che era davanti a me, scosse la testa trattenendo un'altra risata. «Osservavamo il panorama» farfugliò Silvia dietro di lei.

«Il panorama?» chiesi alzando un sopracciglio.

Silvia ridacchiò ancora mentre Roberta, di fronte a me, arrossiva ma continuava a eseguire l'esercizio cercando di non scoppiare a ridermi in faccia.

«Che cosa vuol dire?» chiesi, ancora.

«Che ti stavano guardando il culo!» esclamò Daniele dall'altra parte della sbarra.

Scoppiarono tutti a ridere e io sospirai cercando di mantenere la calma.

Cristo santo! Ma quanto sono arrapate le ragazzine?

«Esilarante» dissi alzando la voce per farmi sentire mentre ancora ridevano. Per fortuna bastò quella mia parola per farli smettere.

«Roberta e Silvia» dissi. «Adesso voi fate una bella cosa: andate nell'angolino lì in fondo.» Indicai la fine della stanza. «Vi stendete a terra e fate cinquanta addominali.»

L'espressione sul viso delle due ragazze cambiò visibilmente, avevano capito che non avevo per niente voglia di scherzare.

«Su-sul serio?» balbettò Silvia.

Annuii sorridendo di sghembo.

«Per aver pensato che ha un bel culo?» mi disse Roberta.

«No.» Scossi la testa. «Per esservi distratte durante la lezione.»

Restarono a fissarmi, indecise sul da farsi. «Forza, muovetevi» dissi e loro mi ubbidirono. Andarono a stendersi a terra e cominciarono a fare gli addominali. Le osservai per qualche secondo, poi ritornai al mio lavoro.

Passai dalla parte dei maschi. Mi avvicinai a Daniele notando che teneva la gamba di terra un po' piegata.

«Stendi la gamba» gli dissi restando alle sue spalle.

Daniele corresse subito l'errore; di solito era uno dei pochi che non ne commetteva di così gravi.

Stavo per sorpassarlo quando mi disse: «Io comunque non penso che tu abbia un bel culo.»

Qualcuno ridacchiò sommessamente.

Mi fermai, tornai dietro di lui e gli strinsi una mano sul collo; lui si lamentò leggermente e lo vidi stringere gli occhi: sapeva che mi stavo arrabbiando.

«Non credere che te la faccio passare solo perché sei mio fratello. A fare gli addominali anche tu, muoviti» gli dissi accompagnando la frase da uno scappellotto dietro la testa.

«Ma dai, Corrado, stavo scherzando!» esclamò mentre, però, già si muoveva per andare a stendersi a terra. «Non si può neppure scherzare più.»

«Non qui, no.» replicai.

Daniele sbuffò e si stese a terra ridacchiando ancora.

«Daniele!» urlai. Non ne potevo davvero più di quell'atteggiamento. «Alla spalliera!»

«Che?» chiese alzandosi e mettendosi a sedere.

«Vai a fare gli addominali alla spalliera!»

Daniele frignò come un bambino lamentoso mentre si alzava per andare alla spalliera. A nessuno di loro piaceva fare gli addominali, era per questo che spesso la usavo come punizione. «Imbecille» farfugliò arrampicandosi al legno.

Mi avvicinai a lui. Daniele si girò dando le spalle alle sbarre di legno e tirò su le gambe per iniziare a fare gli addominali. Gli fermai le gambe facendole restare piegate. «Sessanta» gli dissi scadendo bene e assicurandomi che capisse cosa volevo dire.

Daniele stava per replicare, ma lo anticipai. «Non farmi arrivare a cento, lo sai che ne sono capace.»

Daniele deglutì. Sapeva che ne ero capace, eccome. Non era la prima volta che a causa della sua irriverenza era finito attaccato a quella spalliera. Ci ero finito di certo più volte io da ragazzino, e papà non era solito darci tanti avvertimenti quanti io ne davo a lui, ma di certo io non ero neanche un minimo severo rispetto a nostro padre.

Gli lasciai andare le gambe e lui cominciò a fare gli addominali in silenzio.

Ritornai a fissare i ragazzi che erano alla sbarra, ma non prima di lanciare un ultimo avvertimento.

«C'è qualcun altro che vuole divertirsi?» chiesi alzando il tono di voce. La mia voce risuonò possente nella sala.

Nessuno mi rispose, ovviamente, eseguivano solo l'esercizio in silenzio e seriamente.

Sospirai. Ero riuscito a riportare l'ordine.

Quando finì la lezione, Silvia e Roberta vennero a chiedermi scusa; dissi loro che non dovevano più azzardarsi a distrarsi. In giorni normali avrei anche accettato che si scherzasse sul mio fondoschiena.

Tutti i ragazzi uscirono dalla sala, tranne Daniele, che ancora attaccato alla spalliera.

Sbuffai e andai da lui.

«Quanti ne hai fatti?»

Daniele strinse gli occhi, sofferente. Era molto più difficile e faticoso fare gli addominali in quella posizione. «Qua-quaranta» balbettò.

«Bene» dissi. «Te ne mancano venti.»

«Non puoi farmi lo sconto famiglia?»

«No» risposi secco, poi uscii dalla sala lasciandolo lì. Non avevo bisogno di controllarlo, sapevo che avrebbe portato a termine la punizione, ci avrebbe messo un po', ma alla fine li avrebbe fatti tutti.

Uscito dalla sala mi recai nella zona segreteria: dovevo sistemare delle carte che Donato aveva lasciato lì prima di andare in ospedale da Martina.

«Dov'è Daniele?» mi chiese Simone scendendo dall'ufficio che una volta era di nostro padre.

«In sala» risposi, per poi riabbassare la testa sulle carte.

«Ma non hai finito di fare lezione?»

Simone si avvicinò a me per osservare cosa stessi facendo. «Sì, ho finito» risposi, poi alzai la testa per guardarlo e indicai la porta della sala, che avevo lasciato aperta.

Simone si girò a guardare, poi alzò gli occhi al cielo e sbuffò. «Ne dovrebbe fare ancora una ventina, circa» gli dissi.

Guardai Daniele: era fermo e stava riprendendo fiato. «Certo di questo passo ci metterà tutta la serata» dissi sogghignando un po'.

«Non puoi dirgli di smetterla? Devo portarlo dal giudice per le carte per la tutela e dobbiamo sbrigarci perché poi dobbiamo andare in ospedale.»

«No, li deve fare tutti, è una punizione.»

«Ho capito, ma avrà imparato lo stesso la lezione, non puoi essere più accondiscendente?»

Alzai la testa di scatto a quelle parole. «Accondiscendente?» ripetei furioso. «Daniele è attaccato a quella spalliera perché tu sei stato troppo accondiscendente con lui.»

«Non è vero.»

«Ah, no? Quand'è stata l'ultima volta che l'hai punito? Scommetto che neanche te lo ricordi! Siamo sempre io e Donato che dobbiamo pensarci.»

Non ero per nulla d'accordo su come Simone si era comportato negli anni con Daniele, era troppo buono e gliene aveva fatte passare troppe. Daniele era un bravo ragazzo, ma a volte esagerava con le parole e se aveva quella lingua lunga era solo perché Simone gliel'aveva permesso.

«Ho agito come meglio ritenevo, non sono affari tuoi» mi rispose lui, e capii dal tono che aveva usato che si era risentito per quello che gli avevo detto.

«Sono affari miei se poi mi tocca fare quello» dissi indicando ancora la sala. «E appena ti sarai sposato lo saranno ancora di più, te ne stai lavando la mani.»

«Come...» cominciò, ma fu interrotto da Daniele.

«Corrado?» mi chiamò. Daniele aveva gli occhi bassi ed era molto sudato e provato. «Ho finito» aggiunse con un filo di voce.

Annuii. «Vatti a cambiare» ordinai e lui sparì dalla mia vista in un attimo.

***

Ero in macchina con Daniele e stavamo andando dal giudice. Non riuscivo a non pensare alle parole che mi aveva detto Corrado poco prima, ero davvero stato troppo buono con Daniele?

Avevo sempre cercato di fargli passare qualche sua marachella perché non mi piaceva essere troppo severo, non ne ero in grado, ma mi chiedevo se fosse stata quella la scelta migliore.

Guardai di sottecchi Daniele mentre cambiavo marcia: aveva la testa girata verso il finestrino, stava seduto scomposto sul sediolino e si teneva gli addominali con entrambe le mani, evidentemente gli bruciavano.

«Perché Corrado ti ha punito?» mi venne spontaneo chiedergli.

Lui alzò le spalle senza girarsi a guardarmi. «Lo sai com'è Corrado» rispose.

Respirai a fondo. «Sì, lo so com'è, ma lo voglio sapere lo stesso.»

«Perché lo vuoi sapere?»

«Perché sì.»

«Vuoi farmi una ramanzina anche tu?»

«No, voglio solo sapere.»

«È una storia lunga, e poi che ti frega? Tanto tra poco non sarai più il mio tutore legale.»

D'accordo adesso basta.

Fermai la macchina sulla destra, tirai il freno a mano e mi girai a guardare Daniele; le parole di Corrado risuonavano prepotenti nella mia mente.

A quel punto Daniele si girò e finalmente incrociò il mio sguardo da quando era entrato in auto. Si sistemò sul sediolino e lo vidi guardarsi intorno, sconcertato, non si aspettava quella reazione da me.

«Che-che ti prende?» balbettò continuando a guardarsi intorno, allarmato.

«Devi togliere quest'atteggiamento.»

«Quale atteggiamento?»

«Questo che hai con me. Che cosa vuoi che faccia? Vuoi che rimandi il mio matrimonio? Ti senti abbandonato? Ti prego spiegami, perché non ti capisco più.»

«No, non voglio che rimandi il matrimonio» bisbigliò lui, per poi abbassare lo sguardo.

Restai in silenzio, aspettando che mi rendesse partecipe dei suoi sentimenti.

«È che...» Mi guardò, poi deglutì. «Mi sento perso, solo. Donato e Martina sono andati a vivere da Mirko, tu stai per sposarti, Corrado deve badare a Francesco, Giovanni probabilmente andrà via di nuovo, e Andrea... beh, Andrea è Andrea.»

Quando finì di parlare Daniele si girò di nuovo verso il finestrino.

Gli toccai il braccio per farlo girare di nuovo verso di me. «A casa mia sto facendo fare una stanza per gli ospiti, ma quando vorrai venire sarà tutta per te, la mia porta è sempre aperta per quando ti sentirai solo.»

Daniele annuì solo.

Lo tirai a me e lo abbracciai, Daniele rifugiò la testa nel mio petto e ricambiò il mio abbraccio.

Poteva anche essere vero quello che diceva Corrado, probabilmente Daniele avrebbe dovuto avere qualche punizione in più, ma era anche vero che io non ero stato in grado di educarlo così, ero, però, sempre disponibile nel dargli l'affetto di cui aveva bisogno. E, ritengo, ne aveva più bisogno in quel momento.

Ci staccammo dall'abbraccio e io rimisi in moto la macchina. «Ti porto in un posto» gli dissi.

«Non andiamo dal giudice?» mi chiese, e lessi nel suo tono di voce un pizzico di felicità.

«Ci andiamo un'altra volta.»

Avevo bisogno di condividere con lui qualcosa che non avevo condiviso ancora con nessuno dei miei fratelli.

Quando spalancai la porta di quella che presto sarebbe stata casa mia e di Beatrice vidi Daniele trattenere il respiro.

Entrò guardandosi intorno stupito.

«È bellissima» disse mentre girava in tondo andando a vedere ogni piccolo dettaglio della casa. «Oooh... ma è a due piani!» esclamò mentre saliva le scale che portavano al piano di sopra.

Corse di sopra e io lo seguii; lo osservavo mentre entrava e usciva dalle varie stanze.

«Allora? Che te ne pare?» gli chiesi.

«È veramente un sogno, te la meriti» mi disse.

Gli sorrisi. «Grazie» risposi. «Ora andiamo, però.»

Daniele annuì e mi seguì, prima di uscire, però, diede un'ultima occhiata alla mia casa e io la diedi a lui.

***

Entrai nella stanza di Martina e chiusi la porta alle mie spalle lentamente. Non sapevo neppure io perché ero entrato nella stanza: non ero un parente, non mi era permesso, e probabilmente i suoi sette squilibrati fratelli mi avrebbero ammazzato, eppure ero lì.

Mi guardai intorno scrutando la stanza, Martina era stesa nel letto con gli occhi chiusi, attorno a lei aveva una serie di macchinari che le monitoravano il battito del cuore, e aveva una flebo attaccata nel braccio sinistro.

Mi faceva strano vederla così indifesa, così debole. Non ci ero abituato, ero abituato alla sua lingua biforcuta, al suo atteggiamento di sfida nei miei confronti, all'espressione di superiorità che cercava di celare quando eravamo in sala e io ero il maestro.

Non la odiavo, non la odiavo affatto, anzi, la rispettavo. Era una delle poche persone che aveva avuto il coraggio di essere sincera con me, nemmeno mio fratello lo era. L'unica cosa che mi dava fastidio del suo carattere era che non aveva timore di farlo uscire anche quando non doveva, quando avrebbe dovuto stare solo a sentirmi e rispettarmi. Odiavo essere preso poco sul serio, o fare la parte di chi si fa mettere i piedi in testa. La mia reputazione mi precedeva e di certo non potevo permettere a una ragazzina di rovinarla.

Mi avvicinai a lei e la osservai da più vicino, respirava piano e la vidi spostarsi leggermente con la testa.

Girò completamente il viso verso di me e iniziò a muovere gli occhi, si stava svegliando?

Mi guardai intorno indeciso sul da farsi, dovevo andare a chiamare qualcuno? O era meglio se nessuno sapesse che ero lì?

«Ilian» mi sentii chiamare.

Non capii subito che era lei, la sua voce sembrava diversa.

«Ilian» ripeté e io mi girai a guardarla.

«Sei sveglia» le dissi.

Lei si mosse appena, tossì, poi sbatté ancora gli occhi e poi scrutò tutto ciò che c'era intorno a lei.

A un certo punto la vidi allarmarsi. «Dove... Dove siamo?» chiese.

Riflettei un attimo prima di rispondere, ma proprio non mi veniva la parola italiana.

«Bol'nitsa» farfugliai tra me e me.

Lei mi guardò stringendo la fronte. «Ah?»

«Oh...»

Cazzo! Perché non mi veniva?

«Sono in ospedale?» mi chiese guardandosi ancora intorno, sconcertata.

Per fortuna c'era arrivata da sola.

«Sì» confermai. «Non ti ricordi niente?»

Lei scosse la testa in segno di diniego. «Non ricordo come ci sono finita qui, cos'è successo?»

Ebbi un tentennamento, non era mio compito dirle il motivo per cui si trovava in ospedale (dannata parola che non mi veniva), avrebbero dovuto farlo i medici o i suoi fratelli per lo meno, io ero estraneo a tutto quello.

«Sei stata in coma» dissi, alla fine. Temevo che si sarebbe messa a urlare o che si sarebbe spaventata, ma per fortuna non fece niente di tutto ciò.

Si rannicchiò di nuovo nel letto. «Mi hanno investita» borbottò.

Annuii. Mi guardai intorno: dovevo avvisare qualcuno del fatto che era sveglia. «Devo chiamare i tuoi fratelli» le dissi.

Mi sentii sfiorare le dita della mano destra, Martina mi prese per mano e io mi girai a guardarla. «Ilian, no» mi disse, poi mi strinse la mano e chiuse un attimo gli occhi. «Non li chiamare ancora, voglio dormire un altro po'.»

Chiuse definitivamente gli occhi senza lasciarmi andare la mano. Non sarebbe stato da persona responsabile non avvertire i suoi fratelli o i medici del suo risveglio, ma quando mai avevo seguito le regole alla perfezione? Così rimasi ancora un po' a osservarla dormire.





Ciao a tutte ragazze, oggi ho avuto un piccolo problema con wattpad e ho dovuto ricondividere il capitolo... Comunque, eccoci qua! Come sempre spero che il capitolo vi sia piaciuto, molte di voi la scorsa volta mi hanno fatto notare che è stato difficile capire chi descriveva, spero che stavolta sia stato più chiaro. Nel caso non l'avesse capito erano: (nell'ordine) Corrado, Simone e Ilian. 

Che ne pensate? Cosa pensate che accadrà dopo? Fatemi sapere! Un bacio

Mary <3 

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