Il compleanno di David


Quel giorno era arrivato, finalmente era il compleanno di David, il giorno che avrebbe compiuto diciotto anni. Ventisei maggio risuonava nella mia mente costantemente e anche in quella dei miei fratelli. Come lo sapevo? Semplice: per tutta la giornata del ventisei maggio non avevano fatto altro che trovare modi per distrarmi, per non ricordarmi che David aveva compiuto diciotto anni e io non ero con lui.

Quella mattina Mirko aveva portato me e Lucia a fare un giro al parco, poi a mangiare un gelato, e poi di nuovo a fare una passeggiata sulla spiaggia, sfinita avevo chiesto di pranzare a casa dai miei fratelli, perché ancora c'era dell'astio tra me e Donato, e dopo aver pranzato nella confusione che solo i miei fratelli erano in grado di creare, era tornato il silenzio che tanto temevano. Quel silenzio che fa mettere in moto i pensieri.

In cucina non c'eravamo tutti, Simone era uscito per comprare cose per la sua nuova casa, Donato era rimasto a casa a pranzare con Mirko e Andrea era rinchiuso nella sua stanza. Era uno di quei pomeriggi morti. Io mi ero ritirata da scuola, la scuola di danza era chiusa e io ero curiosa di sapere cos'altro si sarebbero inventati.

Daniele e Francesco erano seduti al tavolo in cucina, Daniele aveva davanti a sé il PC e tentavano di scrivere le loro tesine per l'esame di Stato, perché per fortuna anche Francesco era stato ammesso. Corrado era in piedi e si aggirava attorno a loro come un falco, attento che non perdessero tempo anziché scrivere la tesina, ma erano Daniele e Francesco e modi per perdere tempo li trovavano sempre. Giovanni era seduto più distante da loro, aveva davanti a sé un piatto di ciliegie che mangiava con una lentezza esacerbante.

Io e Lucia, invece, eravamo sedute sul divano in silenzio, ed era strano per una persona tanto logorroica come Lucia, ma evidentemente anche lei era sfinita.

«Dany!» esclamò d'improvviso Francesco. «Sai a che pensavo?»

Daniele si fermò dal tastare e lo guardò interrogativo, aspettando di sentire l'idea "geniale" di Francesco.

«A che?»

«Ibiza...» disse Francesco lentamente come se volesse creare suspense e accompagnando la parola da un gesto con la mano.

«Cazzo, sì!» urlò Daniele sbattendo la mano sul tavolo e facendo sobbalzare me e Lucia, poi diede il cinque a Francesco. «Grande!»

«Ma te lo immagini?» continuò Francesco. «Noi, la spiaggia, i cocktail, le ragazze...»

«I soldi che non avete...» disse Corrado concludendo per lui.

Io e Lucia ridacchiamo sommessamente, Giovanni si alzò dal tavolo e scuotendo il capo per l'incredulità andò a gettare gli ossicini nell'immondizia.

«Beh, me li dai tu!» disse Francesco a Corrado. «Sono stato ammesso all'esame di Stato, merito un regalo.»

«Tu meriti solo di essere preso a calci in culo, non di avere un regalo, e poi... vorrei ricordarvi che a settembre nostro fratello si sposa, perciò dobbiamo comprare i vestiti, fargli il regalo... Non ci andremo in vacanza quest'anno.»

Corrado non aveva tutti i torti, il matrimonio di Simone avrebbe portato molte spese e probabilmente non saremmo potuti andare in vacanza, per non parlare delle spese che i miei fratelli avevano affrontato quell'anno tra il mio incidente, la partenza di Giovanni, il viaggio in Russia...

Strinsi gli occhi e scossi la testa come a voler cacciare quel pensiero dalla mia testa, forse i miei fratelli non avevano tutti i torti: avevo bisogno di distrazioni.

«Che si fottesse, lui e il matrimonio» rispose Daniele a Corrado.

Corrado si avvicinò a Daniele e fu tentato dal dargli una sberla dietro la testa, ma alzò gli occhi su Lucia ricordandosi che fosse lì con noi, riuscì a fermarsi in tempo e poggiò la mano sulla nuca di Daniele e sembrò quasi una carezza la sua. «Sei il testimone» gli ricordò.

Daniele alzò la testa per guardare Corrado. «E 'sti...» iniziò a dire, ma si bloccò quando Corrado lo fulminò. «Che palle» disse alla fine.

Corrado diede un piccolo colpetto dietro al collo a Daniele prima di staccarsi da loro.

«Questo discorso mi ha fatto venire in mente una cosa: andiamo a fare shopping!» disse Giovanni a me e a Lucia.

Avevamo appena finito di dire che non potevamo andare in vacanza e lui voleva andare a fare spese!

«Va bene!» disse Lucia contagiata dall'entusiasmo di Giovanni. Giovanni estrasse il suo portafoglio dalla tasca dei jeans e tirò fuori una carta di credito. «Si dà il caso che io abbia la carta di credito di Donato...» gongolò alzando le sopracciglia e ammiccando.

«E come ce l'hai?» chiese Corrado.

«Potrebbe avermela data per fare delle compere per la scuola di danza e potrei non avergliela più restituita» disse, poi scoppiò a ridere. «Che ne dite?»

Guardai Lucia: lei annuiva sorridendo. «Okay» acconsentii anch'io.

«Che fate?» disse Andrea entrando in cucina e restammo tutti in silenzio a guardarlo. Andrea aveva un paio di pantaloncini, le infradito ed era a torso nudo, e la cosa bella era che non si era reso conto della presenza di Lucia.

Lucia appena lo vide arrossì e si girò dall'altra parte.

«Volevamo uscire a fare shopping,» gli disse Giovanni, squadrandolo, «vuoi venire con noi? Suppongo che tu abbia bisogno di vestiti.»

«Oh, okay...» Si girò per andarsene e vide Lucia; arrossì anche lui. «C-ciao Lucia» farfugliò.

I miei fratelli ridacchiarono sommessamente. «Ciao» farfugliò a sua volta Lucia.

«Vado...» disse Andrea indicando la sua stanza. Non aggiunse altro: era troppo in imbarazzato per farlo.

«Tesoro,» disse Daniele a Lucia, «lascia stare, è un caso perso... Io sono single!»

Lucia ridacchiò.

«Anche io!» esclamò Corrado alzando la mano.

«Anche io!» affermò a sua volta Giovanni.

Lucia ridacchiò ancora e anche io risi con lei.

***

 «Ti vuoi muovere?» urlò Giovanni ad Andrea.

Ci eravamo presi una pausa dallo shopping, io avevo comprato una gonna nera, una maglietta a righe blu e bianca e un costume; Andrea dei jeans e Lucia una camicetta rosa. Tutto rigorosamente con la carta di credito di Donato. Spendere i suoi soldi non mi dispiaceva per due motivi: era il mio tutore legale e non poteva certo negarmi di comprarmi dei vestiti, e fargliela pagare per quello che aveva fatto.

«Vuoi fare qualcosa?» disse ancora Giovanni ad Andrea riferendosi a Lucia, che era andata al bagno. «Vuoi chiederle il numero? Vuoi chiederle un appuntamento? Vuoi fare qualcosa?»

«Non so come...» bisbigliò Andrea.

«Non sai come?» lo rimbeccò Giovanni. «Non sai come chiedere un appuntamento a una ragazza?»

«No...» disse Andrea. «Cioè sì, lo so.» Si grattò la nuca e abbassò lo sguardo. «Solo che non so come fare con lei...» Andrea alzò gli occhi e la sua espressione era quasi paragonabile a una persona che vuole farsi perdonare per qualcosa che ha fatto.

Giovanni sbuffò, spazientito. «Ascolta, sono mesi che la conosci, ti piace e lei è cotta di te, che aspetti a fare il primo passo?»

«Non lo so...» disse Andrea sempre più imbarazzato per quel discorso.

«Martina, dammi il tuo telefono» mi disse Giovanni allungando la mano verso di me, ma tenendo sempre lo sguardo fisso su di Andrea.

Presi il mio telefono dalla tasca e lo porsi a Giovanni. «Ecco,» disse lui passando il telefono ad Andrea, «prendi il numero di Lucia dal telefono di Martina e stasera la contatti.»

«Cosa? No! Così no!»

«Non è una cattiva idea...» mi intromisi io.

Ci avevo pensato già da tempo a dare il numero di Lucia ad Andrea, ma non volevo impicciarmi nei loro affari e Andrea quando voleva sapeva essere davvero permaloso.

Andrea mi guardò, poi sbuffò. «Va bene» acconsentì. Segnò il numero di Lucia nella sua rubrica.

Quando Lucia uscì dal bagno volevamo continuare a fare shopping, ma la chiamata di Donato ci aveva fatto desistere. «Sei un uomo morto» aveva detto a Giovanni. Aveva scoperto che stavamo usando la sua carta di credito e non era il caso quindi di continuare a fare compere.

Rientrai in casa comunque con il sorriso sulle labbra, quella giornata non era stata male dopotutto. Gettai le buste nell'ingresso di casa di Mirko e urlai per far sapere a quei due che ero in casa. Nessuno dei due mi rispose, così mi mossi per andare alla loro ricerca, ma il persistente suono del mio cellulare mi fece desistere. Lo presi dalla tasca pensando che fosse uno dei due, ma era un numero che non conoscevo, con un prefisso strano tra l'altro...

Pensai che fossero quei call center fastidiosi che chiamavano a ogni ora del giorno e della notte, e pensai di attaccare la chiamata e non rispondere, ma alla fine decisi di vedere chi fosse.

Mi portai il telefono all'orecchio e risposi: «Pronto?» 

***

Diciotto anni. Maggiorenne. Maggiore età. Diritto di voto. Patente di guida. Libertà. Gongolavo tra me e me pensando a tutte le cose che da quel giorno avrei potuto fare, me ne venivano in mente così tante che non sapevo da quale avrei cominciato, ma poi qualcosa mi scosse, facendomi ritornare alla realtà.

Il maestro mi tirò per la canotta, quello era il suo modo per dirmi che dovevo farmi più dietro, in effetti non me ne ero accorto e stavo andando a finire sul compagno che avevo davanti. Quell'uomo mi disse anche qualcosa, ma lo ignorai. Annuii per fargli capire che l'avevo ascoltato e lui passò oltre.

Sbuffai. Quante cose avrei potuto fare e intanto ero ancora lì.

Quando il maestro si girò di spalle, mi passai una mano sulla fronte per togliere il sudore e mi spostai i capelli dagli occhi: erano cresciuti troppo e mi davano un fastidio tremendo. Non gli tagliavo da un po' e qualche ciuffo mi ricadeva sugli occhi. Durante una delle ultime lezioni il maestro aveva chiesto a una ragazza di mettermi delle forcine nei capelli per non farli ricadere durante i giri e avevo praticamente trascorso tutta la lezione con due forcine tra l'ilarità generale.

Ma avevo sopportato tutto quello e stavo ancora sopportando solo perché sapevo che prima o poi sarei stato libero.

Il maestro ci disse di staccarci dalla sbarra e di andare a prepararci per fare la diagonale. Prepararci significava bere, asciugarsi il sudore e mettere la pece. Fui felicissimo quando iniziai a tracannare l'acqua: avevo un caldo tremendo, e il prossimo imbecille che diceva che in Russia fa sempre freddo giuro che l'avrei preso a pugni.

Mi asciugai ancora una volta il sudore e poi mi guardai nel riflesso del vetro che dava sul corridoio dell'accademia.

Ero un disastro.

I miei capelli erano per metà asciutti e per metà bagnati di sudore, la canotta bianca era attacca al mio busto, sempre per il sudore, e in più mi andava larga per i chili che avevo perso, perciò mi stava malissimo e aveva assunto una posizione strana.

Ero sempre nervoso e stressato in quel periodo per la morte di mio fratello e non avevo voglia di mangiare, in realtà la voglia di mangiare ce l'avevo anche, solo che dopo un paio di bocconi mi sentivo male, avevo i conati di vomito e finivo lì i miei pasti. Sapevo che era dovuto al nervosismo e allo stress e sperai che le cose sarebbero andate meglio, o avrei finito per scomparire lentamente anch'io.

Bevvi ancora un sorso d'acqua e guardai distrattamente un uomo camminare per i corridoi dell'accademia per dirigersi fuori da quell'inferno; indossava un capellino nero, una camicia nera e i jeans scuri. Non ci trovai nulla di strano, fin quando non focalizzai: il suo modo di camminare, il fatto che stringesse una busta nella mano sinistra...

Mi attaccai al vetro e urlai il suo nome. Vidi quell'uomo fermarsi per un attimo, ma non si girò, ma io ne ero sicuro: era lui!

«Ilian!» urlai ancora battendo i pugni sul vetro. Più lo vedevo allontanarsi e più urlavo e tiravo pugni al vetro; avrei voluto romperlo e passare di lì per raggiungerlo.

In quel momento non realizzai cosa stessi facendo e nemmeno quanto stessi urlando, non urlavo così forte da tantissimo tempo. Iniziai ad agitarmi di più quando sparì dalla mia vista. Sentivo il cuore battermi forte nel petto e il sudore scendere a fiotti sul mio viso; una parola avevo detto, il suo nome, eppure sembrava che avessi fatto un discorso di tre ore filate per quanto mi sentivo le corde vocali bruciare.

Cercai di schiantarmi ancora sul vetro per raggiungerlo, ma qualcuno mi prese per le spalle tirandomi indietro. Mi sentii soffocare, cercai di liberarmi dalla presa, ma non ci riuscii; poi mi cedettero le gambe e mi accasciai a terra.

Qualcuno mi disse di stare calmo, di non urlare, ma sentivo di non poter fare altro. Strinsi forte i miei capelli tra le mani e urlai per il dolore, per il dolore che avevo dentro.

***

Quando riaprii gli occhi, fu come riemergere dall'acqua, come se stessi affogando e avessi bisogno urgentemente di aria. Sbattei gli occhi più volte prima di abituarmi ai colori e al posto in cui mi trovavo.

Ero in un letto d'ospedale, steso, con una flebo attaccata alla vena del braccio destro. Deglutii. Avevo un bisogno enorme di bere. Tossii e sentii una voce chiamarmi.

«David?»

Mugugnai.

«Alexander, David è sveglio.» Era mia madre a parlare.

Girai la testa verso di lei e la guardai. «Mamma» farfugliai lentamente. «Che ci faccio qui?» chiesi. Ero confuso e non ricordavo di essere svenuto o altro.

Mia madre mi accarezzò i capelli. «Non te lo ricordi?» disse e io scossi la testa; non ricordavo come ci ero finito in ospedale.

«No» dissi, «non me lo ricordo, ricordo che...»

Mi bloccai e sgranai gli occhi: ora ricordavo. «Ilian!» urlai, poi mi attaccai al braccio di mia madre e lei sembrò spaventata. «L'ho visto, mamma, l'ho visto! Era lui, era lui!» urlai ancora.

Mia madre sembrava sempre più spaventata da me, e forse era anche un po' sconvolta; provò a farmi togliere la mano dal suo braccio, ma la strinsi con più forza. «Era lui!» ripetei.

«No» disse lei scuotendo il capo. «Non era lui, David» mi disse con calma per poi prendere le mie mani tra le sue. «Hai creduto di vederlo, ma non era lui. Ilian non c'è più.»

«Come fai a dirlo? Non hanno mai trovato il corpo e...»

«David? Calma, perché urli?»

La voce di mio padre mi bloccò, ma solo per un attimo: non mi sarei più ingoiato la lingua, non più, per nulla al mondo. «Ho visto Ilian» dissi guardandolo. «L'ho visto, alla scuola di danza. Era lì, l'ho visto!»

Mio padre non mosse un muscolo, nessuna espressione si dipinse sul suo volto. Guardò mia madre, che invece aveva un'espressione preoccupata, e poi guardò un medico che era alla sua destra e che io nemmeno avevo notato sconvolto com'ero.

Iniziarono a parlare in russo lui e il medico, così veloce che quasi non riuscivo a capire cosa si stessero dicendo, ma poi carpì qualcosa: si parlava di cure e di problemi mentali.

Io? Pensavano che avessi bisogno di cure psicologiche? Che stessi impazzendo?

Guardai di nuovo mia madre, perché sapevo che parlare con mio padre sarebbe stato inutile.

«Mamma...» le bisbigliai. «Tu mi credi, vero?»

Mia madre aveva gli occhi lucidi, quasi stava piangendo. Abbassò gli occhi. «Io non sono pazzo» le dissi ancora visto che non mi rispondeva.

Lei sorrise, poi mi accarezzò ancora la testa. «Lo so» disse e istintivamente chiusi gli occhi al suo contatto, «Lo so. Andrà tutto bene...»

A quel punto sentii scendermi delle lacrime incontrollate sul volto: "andrà tutto bene" era l'ultima cosa che avevo detto a Ilian.

«Po-portami a casa» le dissi. «Non voglio stare qui, portami a casa, ti...» stavo per pregarla, ma mi bloccai. «Per favore» conclusi.

Lei annuì, poi guardò mio padre, che ancora stava parlando con il dottore, ma più distante da noi. «Torno subito» mi disse. Andò da mio padre e loro tre uscirono fuori a parlare.

Provai ad alzarmi dal letto, ma fu del tutto inutile: non avevo quasi forza, non potevo pensare di andare via in quello stato, ma sapevo che dovevo fare qualcosa, dovevo muovermi. Non mi avrebbero fatto uscire da quel posto: mio padre non l'avrebbe permesso, avrebbe voluto farmi fare accertamenti o stronzate simili e alla fine sapevo che mi avrebbero convinto che avevo immaginato tutto nella mia testa, che avevo immaginato che mio fratello fosse ancora vivo.

Mi guardai intorno. Avevo bisogno d'aiuto, avevo bisogno di un telefono per chiamare aiuto, ma non l'avevo e nella stanza non sembrava che ci fossero telefoni. Per fortuna un'infermiera entrò nella mia stanza per controllarmi la flebo e come solo io sapevo fare la convinsi a darmi il suo telefono per fare una telefonata.

Lei aspettò accanto a me che la facessi, ma non me ne fregava un cavolo, tanto avrei parlato in italiano e lei non avrebbe capito.

Composi il numero con le mani che mi tremavano, così tanto che pensai di aver sbagliato a premere qualche tasto, ma per fortuna non fu così.

Il telefono squillò molte volte, troppe, prima che mi rispondesse.

«Pronto?» disse.

«Martina? Aiutami ti prego» le dissi. 



Eccomi! Come al solito spero che il capitolo vi sia piaciuto, fatemi sapere che ne pensate! 

Un bacio e al prossimo giovedì! 

Mary <3 

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