Fumo e cenere


Era passato quasi un mese da quando David era partito per andare a vivere in Russia e io mi sentivo da schifo: il tentativo di Donato di convincere i genitori di David era fallito miseramente, erano stato irremovibili e io ero stata costretta a dirgli addio all'aeroporto, tra le lacrime mie, sue e dei miei fratelli.

La sua mancanza era un macigno che mi faceva sprofondare sempre di più in un abisso senza fine.

Ci stavo provando davvero a tenermi impegnata per non pensare a lui, ma era molto difficile. Ogni piccolo momento della mia vita mi ricordava lui, avrei voluto passare il mio tempo a mandargli messaggi e a chiamarlo per colmare la distanza, ma non potevo. Eravamo entrambi impegnati con la scuola e con la danza, che io stavo riprendendo lentamente, e il tempo per sentirsi era davvero poco, considerando poi che le regole all'accademia dove studiava David erano davvero ferree e il cellulare poteva essere preso solo a fine lezione.

Ci sentivamo un paio di volte durante il giorno nei suoi momenti di pausa, e la sera con chiamate veloci su Skype, ma ovviamente questo non mi bastava.

Tentai di reprimere la voglia di mandargli un SMS mentre in classe la professoressa spiegava qualche poeta greco o forse era latino? Non me ne fregava più di tanto in realtà in quel momento.

«Prof., posso andare al cesso?» chiese una delle mie compagne di classe, Michela, una delle ragazze più scostumate.

Era quella che andava peggio a scuola: non studiava, veniva raramente e, quando c'era, non faceva altro che rispondere male ai professori o passava tutto il suo tempo in bagno.

La professoressa sospirò, spazientita. «Sì, puoi andare in bagno» disse marcando volutamente la parola "bagno".

Pensavo che i professori preferissero farla stare fuori dall'aula invece che dentro a dar fastidio.

Michela si alzò e velocemente andò in bagno. La prof. continuò la sua lezione senza altre interruzioni fin quando non si rese conto che Michela era ancora in bagno.

«Leonardi?» mi chiamò.

Scossi la testa ridestandomi. «Sì?»

«Andresti a chiamare la tua compagna, per favore?»

Mi alzai senza risponderle, sbuffai e poi mi diressi al bagno. Per una parte uscire dall'aula e prendere un po' d'aria non poteva che farmi bene. Mi diressi in bagno e quando fui dentro non vidi Michela.

«Michela?» la chiamai. «Michela?» Non ottenni nessuna risposta.

Iniziai a bussare alle porte chiuse dei bagni, ma ancora non mi rispondeva, forse era scappata dalla finestra?

Arrivata all'ultimo bagno, bussai e finalmente la trovai, lei mi aprì la porta e una nuvola di fumo mi accolse; tossii per il fastidio.

Uscì dal bagno e mi guardò ridacchiando per la mia espressione di fastidio. Aveva in mano una sigaretta accesa, fece un tiro e poi buttò ancora il fumo addosso a me.

«Che cavolo stai facendo?» le dissi aspramente. «La prof mi ha mandato a chiamarti.»

«Perché? Sente la mia mancanza?» disse sorpassandomi e uscendo dal bagno.

Si avvicinò ai lavabi e si guardò allo specchio, aveva un modo di truccarsi davvero eccessivo per i miei gusti, troppo trucco sugli occhi e anche sulle labbra, e tutto sommato non era una brutta ragazza, anzi.

Mi passò la sigaretta. «Mantieni un attimo, per favore» disse porgendomela. La presi incerta, non sapevo neppure come tenere in mano una sigaretta.

Lei ridacchiò ancora di me, si guardò di nuovo allo specchio e poi aprì l'acqua per lavarsi le mani.

«Puoi anche fare un paio di tiri se ti va» mi disse guardandomi dallo specchio.

«No, grazie» le risposi.

«Figuriamoci» borbottò.

Chiuse l'acqua e si asciugò le mani sui jeans. «Andiamo?» chiese alzando un sopracciglio.

«Leonardi e Russo! Che cosa state facendo?» la voce della prof. ci fece trasalire entrambe.

Provai a nascondere la sigaretta, ma fu del tutto inutile: l'aveva già vista.

«In presidenza! Tutte e due!» tuonò.

Michela alzò gli occhi al cielo sbuffando e insieme seguimmo la prof. in presidenza. 

***


Seduta di fronte all'ufficio della preside con Michela al mio fianco provai in tutti i modi a convincere lei e la professoressa che non stavo fumando e che non c'era bisogno che chiamassero Donato, ma ogni mio tentativo risultò inutile.

«La prego, mi creda, non stavo fumando» ripetei per l'ennesima volta.

«È la verità, pensate davvero che questa santarellina fumi?» disse Michela cercando a modo suo di difendermi.

La guardai indecisa se ringraziarla o sperare che stesse zitta per non aggravare la situazione.

«Siamo costretti comunque a chiamare i vostri genitori.»

Sbuffai mentre Michela non sembrava per niente colpita dall'affermazione della preside, evidentemente i suoi genitori non le avrebbero fatto il mazzo come lo avrebbe fatto Donato a me.

«Il numero di tua madre lo so a memoria, Russo, mentre quello di...» La preside ebbe un attimo di esitazione, evidentemente si ricordò che non li avevo più i genitori. «Del tuo tutore legale qual è?» mi chiese.

Aprii la bocca, ma poi la richiusi, pensai per un attimo di darle un numero sbagliato, magari di un altro fratello che non mi avrebbe messo in punizione da qui all'eternità, ma la preside fece prima di me.

«Professoressa, vada a chiamare uno dei suoi fratelli, in quinta C» disse.

Perfetto, non potevo proprio più mentire. Avrei voluto prendere a schiaffi Michela e la sua strafottenza, perché solo io avrei pagato le conseguenze di tutto quello.

La professoressa annuì e andò a chiamare o Daniele o Francesco. Dopo poco entrò accompagnata da Daniele, che appena mi vide seduta lì strabuzzò gli occhi.

«Ah, Leonardi, bene, è qui. Deve dirmi il numero del suo tutore legale.»

«Il mio o il suo?» chiese giustamente Daniele. Mi trattenni dal ridere, era complicato capire tutte le dinamiche della nostra famiglia.

«C'è differenza?» chiese la preside.

Daniele aprì la bocca per replicare, ma poi decise di non farlo e cominciò a dirle il numero di Donato.

«Grazie, può andare» disse a mio fratello.

«Posso chiedere cos'è successo?» chiese Daniele.

«No, non puoi, vai in classe.»

Daniele annuì e senza rispondere andò in classe, ma non prima di avermi lanciato un'occhiata furtiva.

La preside compose il numero di Donato e io iniziai a mordermi l'interno della guancia mentre la ascoltavo dire che mi aveva beccato a fumare, perché non mi credevano?

Dopo una decina di minuti ad aspettare, Donato arrivò e quando entrò nella stanza insieme alla madre di Michela, Michela fece un fischio di approvazione e mi bisbigliò all'orecchio: «Lo vorrei avere io un tutore legale così.»

La trucidai con lo sguardo e mi alzai dalla sedia per uscire, così che la preside potesse parlare con Donato e la madre di Michela.

«Perché sei così in ansia?» mi chiese Michela mentre mi torturavo le unghie. Non le risposi, ero concentrata a interpretare i segnali del corpo di Donato e, in quel momento, non promettevano nulla di buono. «Hai paura che ti sculacci?» continuò, poi rise. «Certo io mi farei sculacciare volentieri da un tipo come lui.»

Strinsi gli occhi, disgustata. «Ti prego, smettila, è mio fratello, okay? Quello che stai dicendo è semplicemente disgustoso.»

«Se lo dici tu.»

Dopo un po' di tempo la preside finì di parlare con Donato e lasciò che lui e la madre di Michela ci accompagnassero a casa, visto che di lì a poco sarebbe suonata l'ultima campanella. 

***


«Si può sapere che ti è preso? È il tuo modo di ribellarti?» urlò Donato mentre io, Daniele e Francesco lo seguivamo verso la macchina.

«Donato, io...»

«Sali in macchina» mi disse senza darmi il tempo di spiegargli.

Quei bastardi dei miei fratelli si lanciarono nei sedili posteriori costringendomi a sedermi su quello a fianco al guidatore, così che avrei ascoltato meglio le urla di Donato.

«Non ho fumato» riuscii a dire mentre Donato faceva retromarcia.

«Ah, no? E il fatto che la professoressa ti abbia beccato in bagno con quella con una sigaretta in mano come lo chiami?»

Alzai le spalle. «Coincidenza?»

«Io penso invece che si chiami "punizione per due settimane", e ti levo il telefono!»

Sussultai. Non l'avrebbe mai fatto davvero, sarebbe stato un vero stronzo, e per non aver fatto nulla per giunta!

Donato non ci accompagnò a casa, ma ci portò alla scuola di danza.

Appena entrai Simone mi disse: «Hai davvero fumato?»

Alzai gli occhi al cielo sbuffando rabbiosa. «No, non ho fumato, stavo solo reggendo la sigaretta alla ragazza che era in bagno con me e in quel momento è entrata la professoressa, ma io non ho fumato!»

«Certo il tuo discorso sarebbe più credibile se non puzzassi di fumo» mi disse Simone.

«Puzzo di fumo perché mi ha fumato addosso!» urlai.

«Oh, modera il tono» mi disse Corrado accompagnando la frase da un gesto con la mano. «Non è che è una richiesta di attenzione?»

«Richiesta d'attenzione?» ripetei sconvolta. «Non è che avete fumato voi per caso? Magari qualcosa di diverso dalle sigarette.»

«Tieni» mi disse Donato porgendomi un pacchetto ed evitando di rispondere alla mia domanda.

«Cos'è?»

«Il tuo pranzo.»

Lì dentro ci doveva essere un panino probabilmente.

«Il mio pranzo? Ma io voglio tornare a casa.»

«Non tornerai a casa, nessuno può accompagnarti, abbiamo da fare qui.»

«Ma io voglio tornare a casa» dissi puntando i piedi. «Devo fare i compiti.»

«Li fai dopo i compiti, tra due ore devi comunque tornare qui.»

«Beh?» dissi alzando le spalle, strafottente. «Io voglio tornare a casa.»

«Ti dirò invece quello che farai adesso» disse Donato puntandomi l'indice contro. «Prendi questo panino, lo strafoghi in cinque minuti, poi vai di là ad aiutare Giovanni con la sua lezione.» Fece una pausa e respirò. «E non voglio sentirti emettere un respiro in replica.»

Presi il panino dalle sue mani e iniziai a scartarlo senza lasciare il contatto con i suoi occhi, ero arrabbiatissima per come mi stava trattando.

«E considerala una parte della tua punizione» disse.

Pensai, addentando il mio panino, che almeno avrei potuto fare due tiri, magari mi sarei sentita più rilassata, e soprattutto mi sarei davvero meritata il modo in cui mi stavano trattando. 

***


Quella sera, dopo cena, mi sentivo terribilmente stanca e nervosa, non solo avevo aiutato Giovanni con la lezione, ma avevo affrontato quella di Donato e Simone che, nonostante stessi ancora riprendendo la forma, ci erano andati giù pesanti.

Chiusi la porta della mia stanza ignorando il casino che, dall'altra parte della stanza, stavano facendo i miei fratelli. Mi sedetti alla scrivania e accesi il PC; volevo fare una sola cosa che mi avrebbe fatto sentire di sicuro meglio: vedere David.

Accesi Skype e appena lo vidi online lo contattai.

«Ti chiamo?» gli scrissi.

«Okay, ma senza vederci.»

«Perché?»

«Non sono presentabile.»

«Ma dai, non fare lo scemo!»

«Credimi...»

Risi e senza pensarci due volte avviai la videochiamata.

«David?» chiesi per sapere se mi sentiva, la mia immagine era vivida nella webcam, la sua invece doveva ancora apparire.

Appena vidi il suo viso ebbi un attimo di incertezza. «David?» chiesi ancora mentre lo osservavo con più attenzione.

David alzò meglio il viso e sotto il suo occhio sinistro, sullo zigomo, aveva un livido violaceo, l'occhio era arrossato e gonfio.

Mi si gelò il sangue nelle vene quando lo vidi, il cuore mi batteva forte nel petto e non riuscivo a elaborare un pensiero.

«Che-che...» farfugliai.

«Te l'avevo detto che ero impresentabile» disse abbozzando un sorriso.

Mi morsi il labbro per trattenermi dallo scoppiare a piangere, vederlo in quello stato mi faceva stare malissimo. «Che è successo?» riuscii a dire.

«È colpa mia» disse per poi abbassare gli occhi. «Le regole sono chiare qui dentro.»

«Si, ma...»

«Non ha importanza, Martina, me lo sono meritato. Ma sto bene, davvero.»

Deglutii. Come faceva a dire di stare bene?

«David...»

«Davvero, sto bene» disse sorridendomi, ma poi contrasse il volto in una smorfia di dolore.

«Sono preoccupata per te, come puoi dire di stare bene? David, io...» non riuscii a fermarmi e iniziai a piangere. Singhiozzai cercando di continuare la frase, ma senza risultato.

«Sh, Marty, calmati, va tutto bene.»

Scossi la testa in segno di diniego. No, non stava andando niente bene.

«Ti prego, non piangere, sto bene.»

Sentivo un dolore fortissimo al petto, mai nella mia vita avevo provato quel dolore, più piangevo e più lo sentivo farsi acuto.

«Martina?» chiese Daniele entrando nella mia stanza.

Mi misi una mano davanti alla bocca per bloccare i singhiozzi, ma ovviamente Daniele si accorse subito che qualcosa non andava.

«Martina...» disse avvicinandosi e accarezzandomi la schiena. «Che succede?»

«Vattene» gli dissi, non volevo che vedesse David in quello stato.

Si spostò da me e restò in silenzio, quando alzai gli occhi su di lui vidi che fissava con orrore lo schermo del mio computer. «Da-David?» borbottò.

«Ti prego, Daniele, vattene» gli dissi.

Daniele mi guardò, poi guardò David. Con il senno di poi, non avrei dovuto rivolgermi con quelle parole a lui. 

***


La mattina dopo mi svegliai grazie alle urla di Donato provenienti dal salone.

«Che cavolo vuol dire?» urlò appena misi piede nella stanza.

Stava parlando al telefono e dall'altra parte del bancone della cucina Mirko lo osservava a bocca aperta, sembrava quasi che si stesse nascondendo; Donato era davvero furioso.

«Corrà, che cosa cazzo stai dicendo?» continuò. «No, non sto capendo un cazzo!»

Ci fu un attimo di pausa nel quale Donato ascoltò il suo interlocutore, che pareva essere Corrado.

«Ma sei sicuro? Oh, Cristo!» disse mettendosi una mano sulla fronte. «Va bene, va bene, arrivo subito. Sì, sì, ciao.»

«Che è successo?» chiedemmo in sincronia io e Mirko.

Donato spalancò la bocca per prendere fiato. «Daniele è scappato di casa.» 





Ciaooooo, come state? Ancora arrabbiate per lo scherzetto? Dai, lo so che mi volete bene! Eccovi il capitolo, spero vi piaccia! 

Al prossimo giovedì, 

Mary <3 

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