BUIO
Prima di lasciarvi al capitolo ci tenevo a dirvi ancora grazie, soprattutto per il coinvolgimento del capitolo scorso, vi siete scatenate con i voti, più di 160 commenti!!!
Per ricapitolare, le alternative erano tre:
A) Dai Fratelli;
B) Da Ilian;
C) Prende un pullman senza sapere esattamente dove porta.
Avete votato e... abbiamo 10 voti per la A, 13 voti per la B e 22 voti per la C, quindi direi che ha vinto la C! Devo dire che per un po' è stata una lotta pari tra Ilian e il pullman, alla fine ha finito il pullman, chissà come la prenderebbe Ilian... Secondo me, male! Ahahah, vi lascio al capitolo! Buona lettura!
L'idea di andare a casa dai miei fratelli mi sfiorò, ma poi decisi che non era il caso, avrebbero detto tutto subito a Donato e io non volevo davvero parlare con lui per parecchio tempo.
Mi guardai intorno alla ricerca di un'idea, poi estrassi il cellulare dalla tasca e mandai un messaggio a David.
«Sei a scuola?» gli chiesi.
«Sì, che noia...»
Storsi il naso a quella risposta e mi sorpresi a pensare che sarebbe stato meglio se avesse marinato la scuola, ma poi pensai che era meglio così: un'altra assenza e i genitori gliel'avrebbero fatta pagare davvero.
Non gli dissi che non ero entrata e che non avevo intenzione di farlo, non volevo che si mettesse nei guai per me, conoscendolo sarebbe stato capace di uscire da scuola e raggiungermi.
Riposi il cellulare e guardai dall'altra parte della strada. Accanto all'edicola, dove a volte compravo il giornale a Mirko, c'era la fermata del pullman. Mi diressi lentamente verso di essa e, una volta lì, guardai il cartello che c'era attaccato al palo per capire i vari percorsi, ma non fui in grado di cavare un verme dal buco.
Mi rassegnai all'idea di capirci qualcosa quando poco dopo un pullman si fermò, un paio di persone scesero e decisi di salire, senza sapere dove mi avrebbe portato, ma non aveva importanza: volevo solo stare da sola con i miei pensieri.
Mi sedetti nei posti avanti, infilai le cuffiette dell'iPod e feci partire la riproduzione casuale.
Chiusi gli occhi e appoggiai la testa sul vetro, iniziando a fare la mia cosa preferita di quando mi sentivo triste: immaginare le coreografie. Non aveva importanza il genere di musica, o la melodia, chiudendo gli occhi e lasciandomi trasportare dalla musica riuscivo a immaginare ogni volta delle coreografie diverse.
Era bellissimo perché nella mia mente era tutto perfetto, e io ero molto più brava di quanto ero in realtà a ballare. Non avevo bisogno di sforzarmi più di tanto: era tutto meraviglioso.
Sospirai lasciandomi andare ancora un po' alla musica, mentre nella mia mente immaginavo un passo a due con David.
Aprii gli occhi solo quando qualcuno mi mosse il braccio.
Guardai la persona accanto a me un po' confusa e realizzai di essermi addormentata.
«Dove siamo?» chiesi a quello che avrebbe dovuto essere il conducente.
«Al capolinea; è l'ultima fermata, devi scendere» mi disse, poi mi lasciò sola.
Raccolsi le mie cose e uscii dal pullman, mi guardai intorno in cerca di qualcosa che potesse essere familiare, ma non vidi nulla. Non conoscevo molto bene la mia città, e non sapevo nemmeno quale doveva essere l'ultima fermata di quel benedetto pullman.
Cercai ancora con lo sguardo il conducente che mi aveva svegliato, ma non riuscii a trovarlo; doveva essere andato a riposarsi in qualche bar lì vicino.
Ebbi l'idea di capire dal GPS del cellulare dove mi trovavo, per capire anche quale pullman prendere per tornare indietro.
Tastai con le mani sulle tasche alla ricerca del cellulare, ma non lo trovai. Misi le mani in tasca, ma nulla. L'avevo perso? O forse me l'avevano rubato mentre dormivo?
«Dannazione!» esclamai a me stessa. Mi passai una mano sul viso e per poco non scoppiai a piangere. Come avevo fatto ad addormentarmi nel pullman?
Ero stata stupida e infantile.
Mi morsi il labbro cercando ancora di non scoppiare a piangere pensando alla stronzata che avevo fatto.
Potevo ancora rimediare, potevo ancora salvare quella giornata che era iniziata decisamente male.
Feci un respiro profondo e iniziai a camminare uscendo da quello che doveva essere uno stazionamento dei pullman – visto che ce ne erano degli altri –, e cercando qualcuno che mi potesse dire dove mi trovavo, o che almeno mi avrebbe fatto fare una telefonata.
Camminai per un po', era gennaio e c'era un freddo da togliere il respiro. Rifugiai il naso nella sciarpa e respirai piano, cercando di riscaldarmi un po'. Mi misi le mani in tasca, desiderando per tutto il tragitto i miei cari guanti di lana.
Dopo quella che per me sembrò un'eternità, arrivai a sorgere un bar. Mi fiondai dentro.
Mi sentii molto meglio al caldo e al chiuso.
«Vuoi sederti?» mi chiese il barista.
Annuii e, senza farmi vedere, cercai nello zaino il portafoglio: se non mi avevano rubato anche quello, avrei dovuto avere un po' di soldi. Fui contenta di trovarci dieci euro.
Ordinai una cioccolata calda e nel frattempo guardai il menù, su di esso c'era l'indirizzo del bar.
Ero ad Aversa, in provincia di Caserta e noi abitavamo in provincia di Napoli.
Mi schiaffeggiai mentalmente, non era molto distante con la macchina da casa nostra, ma immaginavo già le mille domande che sarebbero seguite quando avessi detto di trovarmi ad Aversa. Tuttavia, non potevo restare lì e, vista la mia fortuna, non volevo azzardarmi a prendere un pullman per il ritorno.
Il barista mi portò la cioccolata con il conto; pagai subito.
Bevvi la cioccolata con calma, gustandomi anche i biscotti che mi aveva portato.
Finita la cioccolata mi alzai e andai a chiedergli di farmi fare una telefonata.
«Le potrei chiedere un favore?» gli dissi.
Lui mi guardò per qualche secondo: era un uomo abbastanza in là con gli anni, aveva i capelli brizzolati, era in carne e non era molto alto.
«Dimmi» rispose.
«Dovrei fare una telefonata, ma mi hanno rubato il cellulare o l'ho perso, non lo so... Ero nel pullman, mi sono addormentata e...»
«Certo» mi disse frenando la mia logorrea. «Il telefono è lì.» Indicò la cassa.
«Grazie» gli dissi sorridendo.
Alzai la cornetta e guardai i numeri. Chi dovevo chiamare? Anche se ci avevo provato svariate volte, non ricordavo tutti i numeri dei miei fratelli, ricordavo a memoria solo quello di Donato e quello di Daniele, e uno non aveva la patente per venirmi a prendere e l'altro mi avrebbe ammazzato.
Andai verso lo zaino ed estrassi il diario: dovevo aver segnato il numero di qualche altro fratello da qualche parte. Lo sfogliai velocemente e arrivai alla fine dove avevo segnato qualche numero. Una cosa in particolare mi colpii: il bigliettino sul quale Ilian aveva scritto il mio nome in russo; lo avevo gettato nel diario per non farlo trovare ai miei fratelli e lo avevo dimenticato del tutto.
Non avevo il numero di Ilian, probabilmente non l'avrei mai avuto, e in quel momento mi dispiacque: sarebbe stato l'unico che sarebbe corso in mio soccorso senza fare domande o senza farmi ramanzine. Almeno così credevo.
Trovai il numero di Simone, sarebbe andato bene lo stesso.
Composi il numero e dopo un po' rispose una voce femminile. «Beatrice?» domandai confusa. Strinsi la fronte cercando di non immaginare mio fratello a letto con Beatrice, perché era chiaro che aveva passato la notte da lei.
«Sì? Chi è?» disse lei.
«Sono Martina, puoi passarmi Simone?»
«Oh, sì. Aspetta un attimo.»
Sentii bisbigliare qualcosa, evidentemente Simone stava ancora dormendo.
«Pronto?» farfugliò.
«Simo, sono Martina, puoi venirmi a prendere ad Aversa?»
«Ad Aversa?!»
«Sì, ho preso un pullman e per sbaglio sono arrivata qui...»
«Hai marinato la scuola?»
«Beh, no, cioè... poi mi hanno rubato il cellulare e...»
«Dimmi l'indirizzo» gli sentii dire con uno sbuffo. A Simone non piacevano le bugie e gli avrei dovuto dire la verità, ma non mi andava di farlo a telefono.
Gli dissi l'indirizzo e lui mi disse di non muovermi da lì per nessun motivo.
Riagganciai e ringraziai il barista, poi uscii fuori ad aspettare che Simone mi venisse a prendere.
***
Aspettai Simone al freddo fuori al bar: non potevo fare diversamente, non avevo più il cellulare ed era l'unico modo per farmi vedere. Per un po' la considerai una giusta punizione per quello che avevo fatto e mi sentivo così in colpa per aver perso il cellulare. Non me ne fregava niente, non sono mai stata legata alle cose materiali, ma il pensiero di far spendere soldi ai miei fratelli per un mio errore mi faceva stare male. La verità è che abbiamo sempre dovuto guadagnare tutto, non ci è stato mai regalato niente, e ciò mi faceva sentire ancora più di merda.
Dopo circa una mezz'ora lì al freddo, fui felice di salire in macchina di Simone. Appena entrai ovviamente fui investita da una serie di domande.
«Come ci sei finita qui? Perché non sei a scuola?» Ma quella che mi fece restare a bocca aperta fu sicuramente: «Cosa hai fatto alla bocca?»
Fui sorpresa. Mi tastai la bocca e mi guardai allo specchietto per vedere cosa intendeva Simone. Il labbro, quello che mi aveva colpito Donato, si era gonfiato visibilmente, non ci avevo fatto caso perché non mi faceva male, bruciava un po' solo se lo toccavo.
«Allora?» mi chiese Simone, in attesa ancora di una risposta. Non aveva ancora acceso la macchina e aveva lo sguardo serio. Non volevo mentirgli, ma non sapevo nemmeno come raccontargli tutto.
«È stato Donato» dissi, alla fine.
***
«Chiama Donato, subito!» urlò Simone a Corrado entrando a casa nostra. Non riuscii a fermarlo, era scattato qualcosa dentro di lui appena gli avevo detto che era stato Donato a farmi male.
«Che? Cosa?» chiese Corrado guardandosi attorno, spaesato.
«Ho detto: chiama Donato. Fallo venire qua, subito» ripeté Simone.
«Ma che succede? Martina?» chiese ancora Corrado alla ricerca di spiegazioni.
Mi nascosi per non farmi vedere, ma Simone si spostò per far vedere a Corrado il mio viso.
«Simone. non ti ho detto tutto, non ti ho raccontato cosa è successo: io e Donato abbiamo litigato...»
«Non me ne frega un cazzo!» urlò facendo sobbalzare sia me che Corrado; a quel punto nella stanza, a sentire quelle urla, entrarono anche Giovanni e Andrea. «Chiamalo» disse ancora Simone a Corrado.
Aprii la bocca in cerca di qualcosa da dire, ma non mi usciva la voce; avevo la gola stretta in un nodo e il cuore batteva all'impazzata. Sapevo cosa sarebbe successo non appena Donato fosse entrato in casa e non volevo: non l'ho mai sopportato.
«Ti prego, però, Simone, calmati» cercai di dirgli mentre Donato saliva le scale di casa. «Ti prego» piagnucolai quasi sul punto di piangere.
«Martina, è meglio se vai in camera tua.»
Scossi la testa in segno di diniego abbassandola, non volevo andarmene.
«Martina...» mi avvertì Simone, ma non mi sarei mossa per nessun motivo.
«No» riuscii solo a dire prima di sentire la porta di casa aprirsi.
Alzai lo sguardo per guardare il volto di mio fratello: Simone aveva lo sguardo spiritato e la mascella serrata come un bulldog pronto ad attaccare.
Non feci in tempo a dire nulla che Simone si era già scaraventato su Donato, lo colpì in pieno viso, dandogli un pugno sulla guancia sinistra. Donato girò la testa dall'altra parte e indietreggiò di qualche passo, andò a sbattere prima contro la ringhiera delle scale, poi perse l'equilibrio e per poco non cadde.
Simone lo seguì fuori casa, lo prese per la maglia e lo fece sbattere con la schiena sul muro.
«Simone!» urlammo noi per fermare nostro fratello.
«Che ti prende?» riuscì a dire Donato con quel poco di fiato che aveva, mentre si proteggeva il volto con le mani.
Simone gli diede un pugno nello stomaco e a quel punto Donato iniziò a reagire e cominciarono a fare a botte.
Scesero di qualche altro gradino e si fermarono sul pavimento delle scale. Donato diede un pugno a Simone e lui rispose con un altro pugno, stavolta, però, lo colpì accanto alla bocca. Mi chiedevo se Donato avesse capito il motivo per cui stavamo facendo a botte o semplicemente si stava difendendo.
«Sei uno stronzo» disse Simone mentre lottavano.
«Che cosa vuoi da me?»
«Le vuoi far passare quello che abbiamo passato noi?» disse Simone prendendo per il colletto della maglia Donato e bloccandolo al muro. «Eh? È questo che vuoi?»
Donato restò in silenzio a fissare a bocca aperta e con l'affanno Simone; poi si girò a guardarmi e abbassò gli occhi: aveva capito.
«Basta» riuscii solo a bisbigliare. Era troppo per me e non riuscivo a sopportarlo. «Basta» ripetei prima di scendere le scale.
Non mi fermai dov'erano loro, ma continuai a scendere le scale: volevo andare via da lì, via da tutto quel casino che stava diventando la mia vita. La mia unica sicurezza, la mia unica ancora, erano i miei fratelli e in quel momento il mio mondo stava controllando.
Uscii dal palazzo sentendo dietro di me le grida dei miei fratelli e il mio nome urlato un paio di volte.
Corsi ancora, arrivando quasi a centro strada.
«Martina!» sentii urlare per l'ultima volta, poi sentii solo un forte dolore alla schiena e poi solo tanto... buio.
Bene, eccoci qua! Spero che siate contente, d'altronde avete scelto voi come continuare la storia, ma ho cercato comunque di inserire anche le altre due alternative per accontentare tutte.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, e come al solito: al prossimo giovedì!
Mary <3
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