Brutto tempo


Ero sdraiata nel letto della mia stanza a casa di Mirko. Finalmente, dopo due settimane interminabili, mi avevano dimesso dall'ospedale. Potevo mangiare normalmente e non più nutrita con le flebo, ma il mio corpo non si era ancora rimesso al cento per cento.

Avevo perso qualche chilo, massa muscolare ed ero molto debole. Era proprio quella fragilità che, in quel momento, mi costringeva a crogiolarmi per i dolori del ciclo.

Nella mia vita, anche grazie al fatto che ero sempre in movimento per la danza, le mestruazioni e tutti i dolori del caso, non erano mai stati un problema per me, ma da quando ero uscita dall'ospedale il mio corpo era cambiato. In più, non solo mi toccava soffrire le pene dell'inferno, ma il mio umore non era certo dei migliori: gli ormoni mi facevano sentire triste, arrabbiata, confusa e con tanta voglia di piangere.

Mi strinsi il cuscino al petto e grugnii quando bussarono alla porta della mia camera.

«Marty?» chiese Daniele. «Cucciola?»

«Lasciami stare» gli dissi sperando che se ne andasse, ma non lo fece.

Non solo entrò in stanza, ma si sedette sul mio letto. «Marty?» mi chiamò ancora. «Non vuoi proprio venire di là?»

«No.»

«Daiii» disse urlando improvvisamente e scuotendomi il braccio come un forsennato.

Mi girai a guardarlo, furiosa. «Vuoi lasciarmi in pace?» dissi sbattendogli il cuscino sulla pancia.

Daniele si difese ridacchiando, e io mi infuriai ancora di più: non stavo scherzando.

«Vattene» gli dissi.

«Oh, andiamo, che fai qui da sola?»

Non gli risposi.

Mi rannicchiai di nuovo e girai la testa dall'altra parte.

«Ehi!» sentii dire non so bene a chi dei miei fratelli. Erano tutti lì? Perché non stavano mai a casa loro?

Capii dopo un po' che era Francesco; anche lui provò a smuovermi dal letto, ma non ci riuscì.

«Dovete andarvene!» urlai quando Francesco iniziò a lanciarmi i pupazzi addosso.

«Ehi, calma! Ma che ti prende?» disse Daniele, poi si nascose dietro Francesco per farsi da scudo.

«Andate,» dissi lanciandogli un cuscino, «via!»

A quel punto, finalmente, Francesco e Daniele mossero in ritirata e uscirono.

Non fui lasciata sola per molto, però, perché qualcun altro venne a bussare alla mia porta.

«Andatevene» dissi senza nemmeno sapere chi fosse.

«Ce l'hai anche con me?» sentii dire.

Drizzai le orecchie quando sentii quella voce. «Lucy!» esclamai girandomi verso la porta.

Lei corse verso di me e io cercai di alzarmi almeno un po' dal letto, senza far male alla schiena, per abbracciarla. La strinsi forte a me e lei mi riempì di baci. «Mi sei mancata» mi disse.

«Anche tu.» Per poco non scoppiai a piangere, dannati ormoni!

«Che ti prende?» mi disse Lucia accarezzandomi i capelli.

«Ho il ciclo, Lucy, sto morendo!» mi lamentai, almeno lei poteva capirmi.

«Oh, mi dispiace, tesoro, vuoi che ti porti qualcosa? Non prendi niente per far passare il dolore?»

Scossi la testa. «No, di solito non prendo nulla e i medici hanno detto che è meglio se sto lontana dai medicinali per un po', se non è strettamente necessario.»

«Capisco...» disse Lucia annuendo piano. «Sai cosa mi tira su di morale quando sto male?» Si illuminò improvvisamente. «La cioccolata!»

Quella sola parola bastò a farmi sentire meglio. «La vorrei davvero, magari una tazza di cioccolata calda...» piagnucolai.

«Sul serio? Vado a vedere se zio Mirko ce l'ha?»

Annuii felice. «Sì, per favore.»

«Vado subito!» disse Lucia saltellando di gioia e risi anch'io contagiata dalla sua felicità.

Saltellò fino alla porta della mia stanza, ma non fece in tempo ad aprirla che si scontrò con Andrea, che la stava aprendo.

«Oh» disse lei scansandosi per farlo passare. Andrea si spostò a sua volta, ma non facevano altro che ostacolarsi a vicenda. Li osservai incuriosita e, finalmente, dopo almeno cinque o sei volte passate a decidere chi dovesse andare per primo, alla fine Lucia riuscì a ritornare in cucina e Andrea a entrare in camera mia.

Mi mossi lentamente per scendere dal letto. Avrei dovuto mettermi il busto, ma proprio non mi andava.

«Vuoi una mano?» chiese Andrea avvicinandosi con cautela a me. I miei fratelli avevano dovuto informarlo sul mio stato d'animo.

«Magari» gli dissi sorridendo.

Andrea allora si girò dandomi le spalle. «Sali.» disse. Voleva che mi aggrappassi alla sua schiena.

«No, dai, non voglio farti stancare.»

«Ma se sei leggera come una piuma, dai!»

Alzai gli occhi al cielo, anche se non poteva vedermi in quella posizione, e con qualche difficoltà riuscii a salirgli sulla schiena. Gli strinsi le gambe ai fianchi e mi aggrappai con le braccia al suo collo per paura di cadere.

Andrea tossì. «Così mi strozzi» disse e io rallentai la presa.

In quella posizione andammo in salone dove c'erano tutti gli altri.

«Ehilà!» urlò Corrado, seduto sulla poltrona.

Andrea mi fece accomodare sul divano accanto a Giovanni, e lui si accomodò accanto a me.

«Ci voleva Andrea per farti uscire dalla stanza?» chiese Daniele leggermente risentito.

«Certo, sono il suo preferito!» rispose lui al mio posto.

«Non è vero, sono io il suo preferito!» disse Giovanni.

Li guardai confusa. «Assolutamente no!» si intromise Corrado. «Sono io. Vero, Martina?»

Si girarono tutti a guardami in attesa di una risposta, davvero mi stavano chiedendo una cosa del genere?

«No» risposi solo.

«Avanti, dillo» mi disse Andrea. «Chi è il tuo preferito?»

«Nessuno» risposi.

«È impossibile» disse Francesco. «Tu sei la mia sorella preferita.»

«Anche la mia!» disse Giovanni, e anche tutti gli altri risposero allo stesso modo.

«Ma così non vale!» esclamai ridacchiando. «Siete ingiusti, non posso scegliere uno di voi, voi avete solo me come sorella!»

«Daiii» insistette Daniele «Dillo!»

Risi ancora. «Ma no, ragazzi!»

«Martina» mi richiamò Donato.

Lo guardai ridendo ancora. «Che c'è?»

«Perché non hai il busto?»

«Non ne ho bisogno» risposi sorridendo ancora.

«Sì, invece. Il medico ha detto che lo devi mettere sempre quando non sei a letto, anche adesso.»

«Ma, Donato, non mi serve» replicai. «Davvero, sto bene.»

«Martina, non voglio ripeterlo, vai a metterti il busto.»

«Te-te lo porto io?» si offrì Giovanni.

Donato mi guardava con lo sguardo serio, quasi incazzato. Scossi la testa. «No, ritorno di là» dissi.

Non volevo mettermi il busto e se il medico aveva detto che dovevo metterlo quando ero fuori dal letto, tanto valeva ritornare nella mia solitudine.

Mi alzai dal divano e, senza volere l'aiuto di nessuno, ritornai in camera mia.

***

Osservai la scena a bocca aperta, non potevo credere che Donato avesse fatto una cosa del genere. Sua sorella ritornò tristemente nella sua stanza e nel salone calò il silenzio.

Quando Donato si avvicinò a me, che ero ai fornelli a preparare la cioccolata calda per tutti, non riuscii a trattenermi.

«Si può sapere che ti prende?» gli chiesi.

«In che senso?» chiese confuso.

«Perché fai così?»

«Così, come? Mirko, non ti capisco.»

Sbuffai, lasciai il mestolo di legno e mi girai a fissarlo negli occhi. «Finalmente erano riusciti a far uscire Martina dalla stanza, stava sorridendo, scherzando, sembrava che stesse bene. Poi sei arrivato e tu e lei hai fatto la tua solita ramanzina da padre pesante, e lei è ritornata nella sua stanza a soffrire. Sei contento, adesso?»

Donato buttò fuori l'aria dal naso per trattenersi. «Ramanzina da padre pesante?» ripeté alzando leggermente il tono di voce.

Tutti i suoi fratelli si girarono a guardarci, ma subito ritornarono a far finta di parlare di altro, anche se sapevo che stavano ascoltando tutta la nostra discussione.

«Sì»  confermai.

«Io penso solo al suo bene, e per il suo bene deve portare il busto o la sua schiena ne risentirà.»

«Donato,» provai a parlargli con più calma, «lo so, lo so benissimo che lo fai per il suo bene e so anche che proprio non ti riesce di fare diversamente, ma la situazione è abbastanza particolare. Martina ha subìto un grave incidente e non si sa se tornerà alla condizione di prima. Ora, io capisco che lo fai perché le vuoi bene, ma dovresti almeno cambiare tono.»

«È il mio tono di sempre.»

«E non puoi usarlo, non con lei, non in quelle condizioni. Donato, devi limitarti un po', devi ammorbidirti: tua sorella ne ha bisogno.»

Donato restò in silenzio, poi abbassò gli occhi. «Dici che dovrei andare a chiederle scusa?»

Mi morsi il labbro per trattenermi dal sorridere trionfalmente. «Sarebbe un inizio» gli dissi.

Donato sospirò, poi sbuffò. «Va bene» acconsentì. Poi, senza aggiungere altro, andò in camera da sua sorella.

Io lo guardai concedendomi, ora che non poteva vedermi, il mio sorriso trionfale.

***

Sentivo la pioggia battente sul vetro della finestra della mia stanza. Stavolta mi ero messa sotto le coperte e avevo tirato le lenzuola fin sopra la testa. Non volevo né sentire né vedere nessuno. Da quando ero uscita dal coma avevo dormito pochissimo, ma da quando ero a casa non riuscivo a fare altro. Non potevo andare ancora a scuola, riuscivo a stare in piedi per poco tempo e nemmeno seduta stavo tanto bene, figuriamoci se potevo mettermi a scrivere o cose simili. Stavo bene solo stesa nel mio letto e se ero costretta a mettermi il busto preferivo restarci tutta la vita.

Estrassi il cellulare nuovo da sotto al cuscino e, nel buio che avevo creato, la luce del cellulare mi abbagliò, ma non c'era nessun messaggio da David. Era dalla notte prima che non lo sentivo, di solito mi mandava un messaggio di buongiorno appena sveglio, con le relative imprecazioni perché stava andando a scuola, invece quel giorno non ricevetti nulla ed era pomeriggio.

Pensai di mandargli un messaggio per chiedergli se aveva marinato di nuovo la scuola, ma poi lasciai perdere: il mio umore era sempre più nero e non volevo litigare con lui.

Posai il cellulare sul comodino e poi ritornai nel mio buio. Sentii qualcuno aprire la porta della mia stanza ed entrare in silenzio, ma non mi alzai per vedere chi fosse.

Il letto si affossò sotto il peso di qualcuno che si sedeva. Sospirò, poi mi tolse il lenzuolo dalla testa, a quel punto vidi che era Donato.

Non mi aspettavo che fosse lui, mi alzai leggermente per guardarlo meglio: teneva gli occhi fissi davanti a sé come se stesse riflettendo su cosa dirmi.

Deglutii. «Sei arrabbiato con me?» chiesi interrompendo il silenzio.

Sembrava quasi che fosse lì per mettermi in punizione o cose simili.

«No» disse senza guardarmi, poi girò lentamente la testa verso di me. «Tu? Tu sei arrabbiata con me?»

«No. Lo so che lo dici per il mio bene.»

Donato sorrise, più a se stesso che a me, come se stesse ricordando qualcosa di divertente.

«Mi dispiace» disse con estrema difficoltà. «Mi dispiace per quello che ho detto, non volevo farti intristire.»

Sbattei gli occhi per la sorpresa, Donato stava davvero chiedendo scusa per avermi sgridato? Era la prima volta...

Avrei potuto prendere la palla al balzo, ma non lo feci. «Non ti preoccupare» gli dissi.

Donato annuì, poi sospirò.

Il suono persistente del citofono ci fece sobbalzare entrambi. Chi è che bussa con così tanta foga?

Donato si alzò dal letto e molto più velocemente di me andò a vedere cosa stava succedendo.

Riuscii a raggiungerlo dopo poco.

Sulla soglia della porta c'era David, zuppo d'acqua dalla testa ai piedi; aveva l'affanno e tremava.

«David?» chiese Mirko. «Che succede?»

Mi avvicinai a lui e lui incrociò il mio sguardo, non sapevo se era poggia o le sue lacrime sulle guancie. «David?» chiesi anch'io.

David abbassò la testa e scoppiò a piangere accasciandosi lentamente ai miei piedi. 




Ciao ragazze, come state? Non potete capire cosa ho dovuto passare questa settimana, è da giovedì scorso che la prof della tesi (e relativo assistente) mi stanno tartassando per concludere il lavoro, sono stati giorni infernali, e ho avuto solo ieri di tempo per scrivervi il capitolo. 

Spero vi piaccia, nel frattempo tenete le dita incrociate per me, sperate per me che la prof la smetta di fare correzioni alla mia tesi!!! 

Un bacio a tutte, 

Mary <3 

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