Solo un'ora
L'odore di pancetta mi condusse fino in cucina dove lì, ai fornelli, c'era Mirko. Indosso aveva solo il pantalone della tuta grigio, quello che mille volte gli avevo rubato e che mille volte mi ero messo addosso solo per poter sentire il suo profumo. Sopra, sul busto nudo, aveva messo un grembiule bianco con motivi floreali arancioni.
Cauto, mi parai dietro di lui e gli cinsi la vita con entrambe le braccia; poi gli scoccai un bacio dietro il collo.
«Che fai?» chiesi.
Lui, preso alla sprovvista, rabbrividì. «Una buonissima carbonara. Ti va?»
«Certo, mi va tutto quello che cucini tu» mormorai, affondando di nuovo il viso nel suo collo e ottenendo così un nuovo brivido da parte sua. Lo cinsi più forte, finché non avvertii sotto le dita le costole di Mirko.
Ci avrei passato volentieri le ore in quella posizione, con la faccia schiacciata alla sua schiena e le dita incastrate nella sua pelle. Sospirai e potei sentire la vibrazione del suo corpo, ma stavolta per la risata che prima aveva trattenuto e che adesso stava lasciando uscire.
«Piccolo koala, mi fai cucinare?» ironizzò.
«No» risposi, però lo lasciai andare di poco. Lui fece in modo, spostandosi, di non avermi più tra i piedi. Si concentrò a battere le uova, mentre lo osservavo ammirato. «Sei l'uomo perfetto, tu.»
Inspirai ancora quel buon odore e socchiusi gli occhi. Proprio in quel momento, mi arrivò un bacio sulle labbra, ma, siccome era stato inaspettato, non me l'ero goduto; perciò aprii gli occhi, imbronciato.
«Un altro» mi lamentai, mentre inseguivo Mirko che provava a grattugiare il formaggio. «Un altro.»
Lui rise, lasciò perdere l'uovo, spense il fornello e finalmente si girò verso di me. «Un altro?» Arcuò un sopracciglio, sarcastico. «Non ti sembra di esagerare? Chi troppo vuole nulla stringe.»
«Un altro.»
Sicuro, mi avvicinai di un passo a lui, le nostre labbra a un centimetro le une dalle altre.
«Solo uno» acconsentì lui.
Deglutii e mi lasciai spingere contro il legno del tavolo che era alle mie spalle; ci salii sopra, d'istinto, e allargai le gambe per accogliere il corpo di Mirko. Lui mi poggiò solo la mano destra sul fianco e già mi sentii esplodere dentro. Come un bambino davanti alla cioccolata, mi morsi il labbro inferiore, famelico e in attesa di ricevere ancora le sue mani su di me.
Le sue dita sfiorarono cautamente lo zigomo destro, per poi scendere sul resto della guancia e andare a fermarsi sotto il mento e poi ancora dietro il collo. Mi attirò a sé e mi baciò con foga. Sorrisi sulle sue labbra, mentre ricambiavo il bacio.
Le nostre lingue danzarono per qualche secondo, cercandosi, perdendosi e poi ritrovandosi. Tastavo il suo corpo e lui il mio, mentre già sentivo l'erezione pulsare nel cavallo dei pantaloni.
«Smettila!» urlò qualcuno.
Infastidito, mugugnai nella bocca di Mirko, ma poi ripresi a baciarlo.
«Vieni qui!»
Un urlo ancora più forte. Ancora un mio lamento. Ancora però le mie labbra sulle sue.
«Francé, se ti prendo sei morto!»
Sobbalzai e, furioso, aprii gli occhi. La luce mattutina mi accecò e, come uno schiaffo in pieno viso, mi resi conto di essere steso nel mio letto, nella mia stanza, in casa mia. Ero sudato, accaldato, con l'erezione che pulsava. Ma, cosa più importante, nonché più fastidiosa, Mirko non c'era e non era stato altro che un sogno.
Sbuffai, mentre ancora sentivo, dall'altra parte della porta, le grida di Corrado. Non avevo idea di cosa stesse succedendo e sinceramente non avevo per niente voglia di scoprirlo: era domenica e avrei tanto voluto ritornare al meraviglioso sogno di me e Mirko a fare sesso sul tavolo della cucina. Purtroppo, però, non avevo scelta.
Perciò mi alzai e uscii dalla stanza. In salotto, tra Daniele, Martina e Andrea che se la ridevano e Giovanni e Simone che tentavano di pulire i rimasugli della colazione, c'era Francesco con Corrado alle calcagna, pronto ad acciuffarlo.
«Che succede?» mi lamentai, per poi sbadigliare.
«Questo fetente non vuole starmi a sentire!» esclamò Corrado. Francesco gli fece la linguaccia e pose maggiore distanza tra lui e Corrado. «Ridi, ridi, che ora ti faccio piangere io.»
Corrado scattò e Francesco corse fino a nascondersi dietro la mia schiena. Mio fratello impattò così forte contro il mio corpo che per poco non mi sbilanciai in avanti; Corrado non si curò del fatto che Francesco si fosse nascosto dietro di me e provò ad avvicinarsi ancora, ma io, spaventato più per me stesso che per Francesco, mi feci indietro e posi entrambe le mani davanti a lui.
«Fermo, fermo!»
«Non difenderlo. Non vuole mettere gli occhiali!»
«Non ne ho bisogno» mormorò Francesco, con la voce camuffata e la faccia schiacciata contro la maglia del mio pigiama.
«Sì che ne hai bisogno» insisté Corrado.
Ormai era quasi una settimana che la solfa era sempre la stessa. Francesco proprio non voleva capire quanto fossero importanti gli occhiali, ma li vedeva solo come un accessorio che lo rendeva brutto e oggetto di scherno da parte dei bambini della sua classe.
Quando li aveva messi, ero andato a parlare con la sua maestra e mi ero assicurato che avrebbe ripreso qualsiasi comportamento del genere nei confronti di mio fratello, tuttavia lui proprio non riusciva ad accettare il fatto di doverli portare.
Sospirai e a gesti feci capire a mio fratello che me la sarei vista io e che non occorreva gettarsi in altri inseguimenti per la casa. Mi scansai, così da far uscire Francesco dal suo nascondiglio, poi mi abbassai sulle ginocchia e lo guardai fisso negli occhi.
«Stammi a sentire, Francesco» gli dissi, «ne hai bisogno. Lo so che non ti piacciono, ma devi metterli, non c'è alternativa. Se poi dici che non ne hai bisogno, va bene, non li mettere. Però se prendi ancora un voto basso in matematica ti tolgo i giocattoli per un mese. Anzi, parlo con Babbo Natale e gli dico che sei stato un bambino cattivo. Facciamo così?»
Francesco storse la bocca. «Tu parli con Babbo Natale?»
«Certo che sì, chi credi gli darà le vostre letterine?»
Dietro di me, sentii Daniele e Martina smettere di ridere e prestare più attenzione al discorso che stavo avendo con Francesco; era un argomento che interessava anche loro e di certo non avrebbero rischiato.
Quella prospettiva non piacque per niente a Francesco che, dopo una lunga pausa di riflessione, allungò la mano per farsi ridare gli occhiali da Corrado. Se li mise e poi, contrariato, scappò in camera sua. Daniele, Martina e Andrea lo seguirono, mentre io sospirai di sollievo. Non sapevo per quanto mi avrebbe dato retta, ma forse avrei dovuto preoccuparmene dopo Natale.
«A proposito di letterine» esordì Simone, «hai avuto modo di leggerle? Non so cosa ci aspetta e quanto dovremmo spendere.»
Prima di rispondere, incrociai lo sguardo con Giovanni e lui, dopo avermi guardato per un paio di secondi, puntò gli occhi di nuovo sui bicchieri e sulle posate da lavare. Ero l'unico a conoscenza della sua lettera e, anche se ancora non l'avevo letta, non ne avevo parlato con nessuno degli altri. Con molta probabilità, Giovanni avrebbe voluto che la leggessi solo io, anche se aveva rischiato grosso a lasciarla sotto l'albero insieme alle altre; tuttavia forse aveva sperato che Corrado e Simone non ci avrebbero fatto molto caso o che avrebbero lasciato a me l'incombenza di raccoglierle. Infatti, era stato così.
«Non le ho lette ancora, no» risposi. Giovanni aprì l'acqua e sciacquò il tutto facendo un casino infernale. «Più tardi le leggo.»
«Okay» disse Simone. Poi, insieme a Corrado, uscì dalla stanza, lasciandomi solo con Giovanni.
Se devo essere sincero, sentivo sulla punta della lingua la voglia di parlargli della lettera e di come gli fosse venuto in mente; se c'era qualcosa che sentiva di volere e che non aveva il coraggio di chiedermi; se potevo aiutarlo in qualche modo. Tuttavia decisi di lasciar perdere e di non intavolare il discorso: l'avrei letta e l'avrei saputo.
Lui, però, una volta finito di sistemare tutto, mi si rivolse. «Posso uscire oggi, per favore?»
«Per andare dove?» chiesi, mentre prendevo dal frigo il latte per cominciare a fare la mia di colazione.
«Fuori.»
«Fuori dove?»
Giovanni grugnì, rabbioso. «Fuori, da qualsiasi parte. È domenica, c'è un bellissimo sole. Fuori.»
«D'accordo, magari dopo andiamo al parco con i ragazzi.»
«No, no.» Giovanni scosse la testa e sbuffò. «Da solo, Donato. Per favore.»
Mi stava implorando, era evidente. Da più di due settimane non lo lasciavo uscire, se non in presenza mia e degli altri. Per quanto ne sapessi, mi aveva obbedito anche quando ero stato io stesso a darmi alla pazza gioia, e magari avrei potuto allentare un po' la presa. Solo un po'.
«Va bene, esci...» Lui era già pronto a saltare per la gioia, ma continuai: «Solo un'ora, però. Non di più.»
«Come un'ora?»
«Un'ora» decretai, ancora più sicuro. «E se non torni, ti vengo a cercare. Sappilo.»
Giovanni sospirò, consapevole che non sarebbe stato positivo farmi uscire di casa per andarlo a scovare da qualche parte. «Va bene, ma poi domani...»
«Domani ci pensiamo» lo interruppi, prima di fargli capire che proprio non avevo voglia di continuare quel discorso. E poi, soprattutto, dovevo occuparmi di una cosa più importante: dovevo, infatti, sentire Ilian e capire quando potevamo vederci per il famoso prestito.
Dopo l'ultima chiamata non ci eravamo più sentiti e non avevo idea di come voleva fare e, soprattutto, non avevo idea di come intavolare il discorso. Il rapporto tra di noi non era il massimo in quegli ultimi periodi e mi imbarazzava rivolgermi a lui solo per i soldi, ma non potevo tirarmi indietro e, ancora meglio, non potevo più aspettare.
Così, quando anche Giovanni lasciò la cucina per andare a prepararsi, trovai di nuovo il coraggio per chiamarlo. Mi disse che era in Italia e che se volevo potevamo vederci al più presto, però davanti a un buon piatto di carne, o qualcosa del genere. Insomma, mi aveva invitato a cena. Mi fece strano quella richiesta, ma non rifiutai.
Acconsentii e gli dissi che potevamo vederci prima di Natale, se gli andava. Accettò.
Quando riagganciammo, andai a prendere le letterine che avevo riposto nel cassetto della credenza. Le strinsi forte tra le mani e sospirai, prima di leggerle a una a una.
Incominciai da quella di Martina.
Buon giovedì, ragazze!
Mary <3
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