La tua benedizione

Ero nella zona segreteria della scuola di danza e stavo decidendo quale mattonella far mettere nel bagno che stavano ricavando gli operai dalla camera di Martina, Daniele e Francesco, quando sentii un tonfo provenire dalla sala da ballo. Dentro c'erano Corrado e Giovanni e da fuori non riuscii subito a capire cosa fosse successo. A dire il vero, non riuscii a capirlo nemmeno quando entrai; mi fu chiaro, però, che stavano discutendo.

«Tu sei pazzo! Completamente pazzo!» gridò Corrado.

«Te l'ho detto con le buone e non l'hai capito, cos'altro avrei dovuto fare?» replicò Giovanni.

«Che succede?» mi intromisi io.

«Giovanni mi ha lanciato addosso la custodia dei CD» mi spiegò Corrado, mentre constatavo che effettivamente a terra c'era il cofanetto che usavamo per tenere insieme i vari CD. Inoltre adesso mi era chiaro a cosa era dovuto il tonfo che avevo sentito. «È violento senza motivo!»

Mi abbassai per prendere da terra il cofanetto e quando mi rialzai incrociai gli occhi di Giovanni. Mi fu subito chiaro che era incazzato nero.

«Hai esagerato, Giovanni. Ma posso capire che è successo?»

Lui incrociò le braccia sopra al petto e sbuffò. «Mi avevi detto che potevo fare lezione da solo, che potevo gestirmela come volevo.»

«Sì, e allora?»

«Allora non voglio che Corrado mi controlli.»

«Io stavo solo cercando di darti un consiglio, idiota» borbottò Corrado.

«Non li voglio i tuoi consigli.»

«D'accordo, basta» li zittii entrambi, entrambi si voltarono per guardarmi. «Corrado, lascialo stare. D'altronde, nessuno di noi sapeva come fare alla prima lezione e non è successo nulla di spaventoso. Si impara facendo e anche per Giovanni sarà così. Tu, Giovanni, però, devi calmarti e soprattutto non devi reagire in questo modo se cerchiamo di darti una mano, o un consiglio. Non li vuoi? Bene, fai pure come credi: la lezione è la tua.»

La mia, sotto sotto, era anche una frecciatina a come si era comportato l'ultima volta che avevamo parlato, quando mi aveva accusato di non credere che avesse smesso di fare uso di stupefacenti. Ero solo preoccupato per lui, per la sua salute; al contrario Giovanni pretendeva che gli dessimo piena fiducia senza dubitare nemmeno un po' delle sue capacità. Tuttavia, quella volta capii di aver sbagliato e la nostra discussione era passata in sordina, così come in quel momento, perché mio fratello non comprese l'astio che c'era nel mio tono di voce e si limitò a fare sì col capo.

Corrado fu più restio di Giovanni a darmi ragione, ma alla fine cedette e insieme a me uscì dalla sala, in modo che nostro fratello potesse preparare la sua lezione senza impedimenti. Di tanto in tanto, però, ancora lo sbirciava di nascosto; dovetti coinvolgerlo nella scelta delle mattonelle per farlo smettere. Restò con me per parecchi minuti in silenzio e io credetti che semplicemente stesse provando a trovare la forza di non andare di nuovo a farsi gli affari di Giovanni, invece stava sì trovando la forza, ma per sganciare la più grande bomba di sempre.

«Mi dai la tua benedizione per sposare Alessandra?» disse, d'improvviso.

Siccome stavo scrivendo degli appunti, la penna mi scappò involontariamente di mano e il risultato fu un lungo e imperfetto segno sul foglio. «Come?»

Lui mi parve vergognarsi per un momento, abbassò la testa. «Voglio sposare Alessandra. Mi dai la tua benedizione?» ripeté.

«Certo» risposi. «In futuro, quando sarà tutto sistemato, potrete pensare a sposarvi.»

Tuttavia lui mi rivolse un'occhiata che era tutto un programma. Avevo fatto finta di non capire le sue intenzioni, ciò che era nascosto dietro quel "dammi la tua benedizione", ma Corrado non si sarebbe tirato certo indietro, né mi avrebbe assecondato.

«Non in futuro, al più presto» precisò, infatti.

Posai la penna sul foglio e tirai un grosso respiro profondo. Non volevo essere cattivo, ma solo fargli capire la realtà dei fatti e perciò dovevo dosare bene le parole.

«Non puoi sposarla, al più presto, se hai ancora la tutela di Francesco» cominciai.

«Che problema c'è? Viene a vivere con noi.»

Scossi la testa, contrariato. «Non sto facendo tutto questo casino per poi dividere di nuovo i nostri fratelli. Non mi sono indebitato con Ilian per permettere a te di sposarti: quei soldi ci servono per altre cose.»

«Lo so e infatti nessuno ti ha chiesto soldi. Faremo le cose nel modo più economico possibile, anche perché non ci interessa un matrimonio sfarzoso o cose del genere. E poi sei stato tu stesso a proporre ad Andrea di tornare a vivere con i cugini di papà.»

«Quello non c'entra niente. L'avrei fatto per il suo bene.»

Lui rise, nervoso. «Certo, perché dobbiamo pensare sempre e solo al bene dei nostri fratelli, ma mai al nostro.»

Quella sua uscita cominciò a farmi innervosire, così tanto che mi alzai dalla sedia sopra la quale ero seduto con un diavolo per capello. Corrado si fece indietro, impaurito, e io gli sputai contro: «Mi avevi promesso che invece avremmo sempre pensato prima al loro bene e poi al nostro. Eri d'accordo anche tu che per un po' potevamo mettere le nostre vite da parte per loro, per la loro salute mentale e fisica. E se ho pensato di far tornare Andrea dai cugini di papà è stato solo perché volevo che stesse bene perché il dottor Nuzzo aveva detto che bene non stava, con noi.»

«Hai ragione» ribatté lui, facendosi di qualche passo ancora indietro. «Ero d'accordo, ma quando l'ho promesso non ero innamorato.»

«Oh per favore!»

Corrado inghiottì un groppo amaro, si rese conto che non consideravo la sua relazione come lui voleva che la considerassi – più adulta e forse più appassionata – e carico di rabbia e collera verso di me voltò le spalle e marciò fuori dalla scuola di ballo.

Lo seguii subito e appena in strada lo chiamai affinché si fermasse. Lui non mi diede ascolto e fui costretto ad andargli dietro. Corsi a più non posso e appena gli fui a pochi centimetri gli afferrai la mano per farlo girare verso di me.

«Che cosa vuoi?» gridò, tremando di rabbia.

«Cosa stai facendo? Cosa vuoi ottenere con questo atteggiamento?»

Un bambino capriccioso, ecco cos'era. Nient'altro che un bambino capriccioso.

«Vado da lei, vado a dirle che la amo, anche se ti fa tanto ridere la cosa, e vado a dirle che voglio sposarla, con o senza la tua benedizione.»

«Non te n'è mai fregato nulla della mia benedizione.»

«Infatti no» affermò, prima di girarsi per andarsene di nuovo, per scappare dalla nostra discussione.

Gli feci compiere qualche passo, prima di fargli notare: «Non è detto che ti dica di sì.»

Lo so, fu un'uscita infelice. Con poche e scandite parole avevo cercato di mettergli in testa un terribile dubbio. Non credo di essere mai stato più cattivo di quel giorno, ma anche in quel caso pensavo al bene di tutti, compreso al suo.




***



Corrado non tornò a casa quella sera, non tornò a cena e neppure dopo. Non ero preoccupato, però, pensavo che si fosse rifugiato da Alessandra e che alla fine non aveva avuto il coraggio di proporsi e che si vergognasse di affrontarmi per dirmi che in fondo avevo ragione. La sua era davvero una pessima idea, nonché stupida e infantile; gli sarebbe passata presto, lo sapevo. Simone e Giovanni mi avevano chiesto cosa fosse successo – Giovanni credendo che fosse colpa sua, Simone pensando che sapessi dov'era ma che si fosse perso nel tragitto di ritorno – ma feci finta di non sapere nulla, o meglio dissi loro che nostro fratello aveva bisogno di stare un po' da solo. Accolsero come verità la bugia che avevo detto, mentre i più piccoli si dimenticarono presto della sua mancanza, troppo presi dai giochi e dai compiti da fare.

Inoltre, avevano altri pensieri per la testa quel giorno, tant'è vero che, mentre ero intento a pulire la cucina con l'aiuto di Simone, Martina, Daniele e Francesco accorsero da noi impauriti.

«C'è un mostro in camera nostra!» gridò Daniele.

«Come un mostro?» replicò Simone, col tono serio, come se quell'ipotesi potesse essere strana ma comunque realizzabile. Neanche avessero detto: c'è un elefante in camera nostra!

«Non c'è un mostro in camera vostra» li rassicurai io.

«Sì che c'è» insistette Martina.

«Lo abbiamo visto tutti» continuò Daniele. «Se non ci credete, venite.»

Io e Simone ci guardammo perplessi. Non era possibile, ma ne erano così convinti che alla fine li assecondammo.

Cauti, andammo in camera loro e ci facemmo indicare il luogo dell'avvistamento. Mi sarei aspettato l'anta di un armadio aperto, o la polvere sotto i loro letti, invece ci indicarono il muro alzato quel giorno dagli operai che stavano costruendo il bagno.

«È lì dentro» sussurrò Daniele.

«Andiamo, Simone» dissi a mio fratello.

Da bravi fratelli maggiori ci inoltrammo nell'antro del mostro e quando qualcosa si mosse, lì dentro, ammetto di essere sobbalzato anch'io, ma solo perché Simone mi si era attaccato addosso per la paura. Riacquistai la calma e con la lampada del comodino di Martina feci luce in quello che di lì a pochi giorni si sarebbe trasformato nel nostro secondo bagno.

Non c'erano mostri, ovviamente, ma solo i sacchi del cemento lasciati lì, uno sopra l'altro, somiglianti a un uomo seduto. In più erano stati messi in bilico e ciò aveva fatto sì che uno fosse scivolato lateralmente, provocando a Simone un mezzo infarto.

«Vedete» dissi chiamando a me i miei fratelli più piccoli, «non c'è niente di cui avere paura. Sono solo i sacchi di cemento.»

«Va bene, ma prima...» provò a ribattere Daniele, tuttavia subito zittito dall'urlo di Giovanni proveniente dal salotto.

«Che succede?» chiese Simone.

«Donato!» sentimmo gridare.

Non ci riflettei su un secondo e in un lampo corsi da lui. Mi ritrovai di fronte Corrado seduto sulla sedia attorno al tavolo, ricoperto di sangue.





***




Mi era preso un colpo quando avevo visto mio fratello ridotto in quello stato, con rivoli di sangue che gli scorrevano dalla fronte e l'occhio destro completamente gonfio e nero. Poi però, dopo aver convinto i nostri fratelli che Corrado stesse bene, dopo averli mandati a dormire e dopo aver mandato Giovanni in farmacia, mi ero avvicinato a lui e avevo constatato che per fortuna non aveva niente di rotto e allora mi ero acquietato almeno un po'. Lui, ovviamente, si era fatto disinfettare le ferite e pulire ogni residuo di sangue incrostato dal volto senza dire nemmeno mezza parola. Simone ci provava con insistenza, ma lui non voleva sapere di dirci cos'era successo.

Corrado aveva lo sguardo perso nel vuoto, gli occhi socchiusi e stanchi. Mi fece male vederlo in quello stato, ero sicuro che fosse successo qualcosa di terribile. E non per le botte che evidentemente aveva preso da qualcuno, ma per il suo umore devastato.

«Ti prego» insisté ancora Simone. «Vuoi dirci che è successo?»

Corrado sospirò, finse di nulla ma sapevo che mi stava scrutando con la coda dell'occhio. Con molta probabilità, avrebbe voluto che me ne andassi. «È sposata» mormorò con un filo di voce.

Capii subito cosa intendesse, ma Simone no e infatti chiese: «Chi?»

«Alessandra.»

Simone, perplesso, mi cercò con lo sguardo, ma non gli chiarii nulla e mi limitai a non perdere di vista nemmeno per un secondo Corrado, mentre si alzava e continuava il suo discorso.

«Ero andato a casa sua per chiederle di sposarmi e ho scoperto che in realtà mi ha sempre mentito, che è sposata con l'uomo con cui ha avuto la bambina. Mi aveva detto di non averlo visto più dopo la nascita di Stefania, invece non si sono mai lasciati.»

«E tu... Tu non avevi sospettato nulla?» chiese Simone.

«No. Non mi sono mai accorto di nulla. Sono andato spesso a casa sua, ma sempre con il suo consenso. Stavolta l'ho colta di sorpresa e quando ci ho trovato lui...» Alzò gli occhi su di me, ma li riabbassò quasi subito. «Abbiamo fatto a botte. Per lei.»

Dovetti mordermi la lingua per impedirmi di dire ciò che pensavo, ovvero che, visto quanto ci aveva raccontato, quella donna non valesse il suo dolore. Né quello fisico, né quello psicologico.

«E com'è finita?» domandò con ingenuità Simone.

«Come vuoi che sia finita? Lei è sposata, è lui che vuole. Non me.»

«Ma magari lei...»

«No, Simone, no. Lei niente. Lei mi ha detto chiaro e tondo che con me non ci vuole stare, ha confessato davanti a suo marito che sono stato solo un momento di confusione.» Si fermò, poggiò entrambe le mani sul tavolo. «Un momento di confusione. Spero tu sia contento» disse a me.

«Del fatto che mio fratello sta male? Non credo proprio. Non so che razza di persona pensi che io sia, ma non gioisco del tuo dolore.»

«Del mio dolore magari no, ma del fatto che non posso sposarla sì.»

«Nemmeno quello, no.»

Corrado, zoppicante a causa di una ferita alla gamba che ancora non avevo visto, si avvicinò a me, minaccioso. «Hai sempre fatto schifo come bugiardo. E forse anche come fratello maggiore.»

Com'è ovvio, le sue parole mi lacerarono, eppure non gli diedi la soddisfazione di farglielo capire e alzai il viso verso di lui in segno di sfida. «Prenditela pure con me, non c'è problema. Usami per sfogarti.»

«Non ho bisogno di sfogarmi» disse, prima di puntarmi al petto l'indice della mano sinistra. Notai che aveva le nocche intatte, a differenza dell'altra mano, che Simone aveva provveduto a disinfettare. «Voglio solo che tu ammetti quanto fai schifo.»

«Corrado...» provò a intromettersi Simone.

«Dillo!» urlò Corrado, a pochi centimetri dal mio viso.

La sua saliva mi arrivò sugli occhi, che fui costretto a chiudere per una breve frazione di secondo.

«Dillo» ripeté, stavolta senza urlare ma tuttavia non calmo.

Tremava ed era sul punto di scoppiare a piangere. Quello spaventato avrei dovuto essere io, visto che mi aveva urlato in faccia e si era proteso verso di me con modi minacciosi, ma la verità era che lui aveva paura. Tutto il suo castello di carta si era infranto in poco tempo ed era evidente che non sapesse come comportarsi o come affrontare il dolore.

«Lo so che stai passando, Corrado» tentai di dirgli, ma lui non volle stare a sentirmi e lo dimostrò mettendosi le mani sulle orecchie.

«Stai zitto» disse. Poi si sedette di nuovo sulla sedia.

Simone e io ci avvicinammo a lui con cautela e provammo a fargli capire che era giusto essere arrabbiati, tuttavia lui non ci diede retta e continuò a ripetere che stava bene e che l'unico con cui era arrabbiato ero io. Simone non sapeva nulla di tutta la nostra discussione ed ero sul punto di dirglielo, quando Giovanni ritornò dalla farmacia.

Gli andai subito incontro e gli tolsi dalle mani il sacchetto con le medicine. Dentro c'erano diversi antidolorifici e altro disinfettante.

«Ho parlato col tuo amico farmacista, Luca. Dice che non l'hai più chiamato da quella volta al locale gay.»

Con nonchalance, Giovanni pronunciò la frase che mi fece crollare il mondo addosso. Nemmeno si accorse che ero sconvolto da ciò che mi aveva detto.

«Come hai detto?» feci finta di non capire. Poi, per paura che ripetesse ancora le parole "locale gay", lanciai le medicine a Simone e dissi a Giovanni: «Accompagnami a vedere se i ragazzi stanno bene.»

Invece avevo bisogno di parlare da solo con lui e di capire cosa sapeva.




Buon giovedì, ragazze! Spero che il capitolo vi sia piaciuto! 

Al prossimo, 

Mary <3 

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