La parte migliore di sé

«Quindi è così che andrà d'ora in avanti?» esordì Giovanni, seduto accanto a me. Eravamo tutti e due sistemati dietro la zona segreteria, solo che io stavo facendo delle cose al computer, ignorandolo. «Tu che mi fai da babysitter mentre io sto qua a rompermi?»

Risi, sbeffeggiandolo. «Ma dai, come ti viene in mente?»

Invece, aveva proprio ragione. Con le pillole che mi aveva dato Luca il suo stato di salute era decisamente migliorato, ma non ero per nulla sicuro a lasciarlo andare in giro o a casa da solo. Così me lo portavo ovunque e gli chiedevo sempre di farmi compagnia. Come era prevedibile, però, aveva capito tutto.

«E ti aspetti che ti creda?» continuò. «Tu non sai mentire.»

«Non è vero.»

«Ah no? Quindi vuoi dire che non è vero che mi hai trascinato dal fruttivendolo, poi dal meccanico e infine qui pur di controllarmi?»

«Dopo mi accompagni a fare la spesa» ricordai.

Lui roteò gli occhi al cielo. «Ma dai! Di cosa hai paura? Che io esca da qui e vada a comprare la droga?»

Sì, avevo paura proprio di quello, ma non potevo dirglielo.

«Certo che no, Giovanni» mentii. «Ho solo paura che ti possa accadere qualcosa quando non ci sono.»

Giovanni parve pensarci su e forse ritornare con la mente anche lui a quel momento; perse in un lampo il sorriso.

«Ascolta, Gio, voglio solo non dare nulla per scontato. Okay?»

Lui annuì, anche se non credo ne fosse del tutto convinto. Ritornò a stare in silenzio, mentre io controllavo le e-mail e cercavo di capirci qualcosa con le fatture.

«Comunque» riprese il discorso lui dopo qualche minuto. «L'ho promesso e lo sai che mantengo le promesse.»

Mi girai, lo guardai negli occhi azzurri. «Lo so» confermai. Era la stessa cosa che mi aveva detto durante la sua crisi d'astinenza, ma forse non lo ricordava bene. D'altronde, aveva anche delirato pensando che fossi nostro padre.

«Quindi non è un problema per te, se domani porto i ragazzi al parco?»

Feci finta di non farmi toccare da quel discorso e provai a forzare un sorriso. «Non lo so se è il caso...»

«Certo» fece lui, mettendo le braccia sul petto e sprofondando ancora di più nella sedia. «Adesso sono di nuovo la pecora nera della famiglia, quello che non ne fa mai una buona.»

«Non è così.» Mi girai per guardarlo di nuovo negli occhi, anche se non avevo per nulla voglia di affrontare un discorso del genere, e non solo perché mi era difficile nascondere la verità. «Smettila di pensarlo.»

«Dimmi come faccio!» esclamò, alzando anche un braccio per sottolineare il concetto. «Lo vedo Simone come mi tratta e anche Corrado, sembra di sentire papà nei loro discorsi.»

«Non è vero.» Mi avvicinai ancora un po' a lui e gli presi le mani nelle mie, mentre lui abbassava gli occhi. «Lo sai che non è così e sai che papà ci trattava tutti allo stesso modo, non eri e non sei mai stato la pecora nera della famiglia.»

Lui sbuffò, non credendoci affatto. «E invece sì. Okay, papà trattava tutti allo stesso modo, ma con me era peggio, tu non lo sai.»

Non ti conviene fare a gara con me, sotto quest'aspetto. Non vinceresti mai.

«Per lui dovevo essere come Andrea: muto e fermo. Era il suo preferito, quello lì.» Giovanni indicò la sala, al cui interno c'erano i nostri fratelli, tra cui Andrea. «Ho sempre pensato che l'avessero adottato. Non è possibile essere così.»

«Non dire assurdità, adesso. Andrea non è stato adottato.»

«E tu che ne sai?» insisté lui. «Pensaci: in fondo non è diversissimo da noi? Neanche fisicamente ci somiglia.»

«Ha parlato quello con i capelli biondi e ricci.»

Lui parve risentirsi. Storse la bocca. «Mamma aveva i capelli biondi. Hai presente Daniele? Anche lui li ha biondi come i miei.»

«Ma non ricci» lo punzecchiai. Quell'aspetto da cherubino ce l'aveva solo lui, non poteva dire diversamente.

«Francesco li ha ricci.»

«Ma scuri.»

«Senti» si spazientì e dovetti trattenere le risate. «Non so come cavolo funziona la genetica, ma sono certo di essere figlio di nostro padre. Su Andrea invece ho sempre avuto dubbi.»

«Beh, fatteli passare» chiusi lì il discorso, per poi girarmi di nuovo verso il computer. Non mi andava per niente di ritornare con la mente alle parole che mi aveva detto lo psicologo riguardo Andrea e al fatto che non si sentisse parte della nostra famiglia; così come non volevo ricordare che quel pomeriggio avrei dovuto trovare il modo per dire allo psicologo che non avevo i soldi per pagarlo.

«"Zitto e fermo, come Andrea"» borbottò Giovanni, ripetendo le parole che utilizzava sempre nostro padre, quando cercava di farlo stare buono.

Socchiusi gli occhi e respirai a fondo, mentre provavo a non pensare a quei momenti, a noi da piccoli e a tutto ciò che avevamo passato. Spesso mi chiedevo come sarebbe andata se avessimo avuto un padre differente, un'educazione più morbida. Giovanni era arrivato a drogarsi pur di stare bene, Andrea aveva bisogno dello psicologo solo per parlare con noi; Corrado aveva cicatrici che tendeva a nascondere ma che sapevo gli bruciavano terribilmente; e io... beh, io ero un casino, un intruglio di pensieri, paure e sensi di colpa.

Sospirai e mi mangiucchiai le unghie, mentre Giovanni riprendeva a parlare di papà e di tutte le altre cose che non gli piacevano o che non gli erano andate bene durante l'infanzia. Cercavo di fissare un punto ben definito sullo schermo del computer e di non focalizzarmi troppo sulle sue parole o sarei esploso. Però, d'un tratto, come un flash qualcosa mi balzò davanti agli occhi. Fu esattamente quando Giovanni disse: "Non è così che ci si comporta".

In un attimo tornai ai momenti passati con il dottor Nuzzo, seduto sul divanetto con un libro tra le mani.

Non è così che un uomo dovrebbe guardare un altro uomo.

Non è così che dovrebbe vestirsi un uomo.

Guarda, Donato, non è orribile? Due uomini che si baciano è un abominio.

«E poi lui diceva...»

Mi alzai di scatto, annaspando. Il cuore mi esplose nel petto e non riuscivo a respirare. Mi serviva aria, ma non riuscivo a capire bene dove mi trovassi e nemmeno a vedere bene. Battei le palpebre un paio di volte per ritrovare l'orientamento, ma non servì a molto.

La mano fredda di Giovanni, stretta sul mio bicipite, mi fece sobbalzare.

«Donato, stai bene?»

«Sì, io...» Ma la saliva mi si azzerò in pochi secondi. Battei ancora le palpebre, finché non mi resi conto che Giovanni mi aveva tirato a sé e mi aveva fatto risedere, stavolta sulla sedia che prima occupava lui. «Sto... sto...»

«Male.»

Scossi la testa. Forzai un sorriso, ma supposi di aver ottenuto solo un'orribile smorfia. «Bene...»

Giovanni si posizionò di fronte a me. Provai a tirare dei lunghi respiri profondi e a far ritornare il battito regolare. Non era facile superare in un attimo quei ricordi che erano riaffiorati, ma dovevo farcela.

Deglutii e mandai giù un groppo amaro di dolore. «Sto bene.» Sorrisi, mi alzai, ritornai al mio posto. «Sto bene, ho solo avuto un attimo di...» Feci volteggiare la mano destra, aiutandomi a trovare le parole adatte da dire. «Sai, quando uno sta troppo tempo davanti allo schermo del computer poi ti fa... ti fa uno strano effetto.»

Abbozzai una mezza risata, anche se Giovanni non sembrava per niente convinto di quello che gli stavo dicendo. E infatti affermò: «Donato, tu non sei affatto bravo a mentire.»





*** 





Seduto fuori lo studio del dottor Nuzzo con Giovanni al mio fianco, cercavo di non esplodere. Quel mezzo attacco di panico che avevo avuto, quando Giovanni aveva deciso di ricordare ogni piccolo dettaglio della nostra infanzia, sembrava aver avuto per mio fratello un'importanza stratosferica. Non faceva altro che torturarmi per cercare di parlarne, ma ovviamente non volevo. Andrea era dentro da più di un'ora e io stavo cercando di ripetere a mente il discorso che avrei dovuto fare allo psicologo.

Non sarebbe stato facile dirgli che non potevo più portare Andrea, soprattutto non sarebbe stato facile, al ritorno, farlo capire ad Andrea. Mio fratello era nettamente migliorato da quando veniva seguito dal dottor Nuzzo, non potevo negarlo, ma c'erano cose che avevano la priorità, come trovare i soldi per fare un bagno nuovo. Mi rendevo conto che stavo mettendo di nuovo Andrea da parte, tuttavia non avevo trovato nessuna soluzione al problema, nonostante avessi detto a mio fratello che ci sarei riuscito.

Sospirai, mentre sentivo su di me gli occhi di Giovanni. Feci finta di nulla, perché se gli avessi dato corda avrebbe ricominciato con quella tiritera.

«Quindi tu proprio non vuoi ammetterlo» ricominciò Giovanni. E meno male che avevo sperato la smettesse.

«Sto bene, smettila.»

«Non è vero.»

Sbuffai e incrociai le braccia sul petto. «Ci guadagni qualcosa a farmi innervosire?» Di proposito voltai gli occhi su di lui, per riservargli la mia occhiataccia migliore.

«Purtroppo no. Lo dico per te. Perché io devo starti a sentire pensando che qualsiasi cosa tu faccia lo fai per il mio bene, e invece quando si tratta di te nessuno deve dire niente?»

«Perché io sto bene» ringhiai, scandendo bene ogni parola.

«A me non sembra.»

«Forse hai ancora qualche residuo di droga in circolo» borbottai, per poi sobbalzare da solo per la cosa che avevo detto. Non volevo accusarlo ancora per quella storia, soprattutto era troppo presto per scherzarci su. «Giovanni, non... non volevo dirlo davvero. Scusa.»

«Lascia stare» fece lui, alzando le mani in segno di resa. «Non dico più nulla. Fa' quello che vuoi.»

Incrociò a sua volta le mani sul petto, per poi ripiombare in un silenzio imbarazzante, stavolta ancora più di prima. Per la prima volta in vita mia, sperai che il dottor Nuzzo uscisse in fretta dallo studio per poter parlarci e smetterla di stare di fianco a mio fratello incazzato nero con me.

Passarono venti minuti abbondanti, prima che Andrea uscisse. Di solito ci voleva un'ora per la seduta, ma stavolta era stato dentro quasi due ore. Mi chiesi se fosse successo qualcosa di cui avrei dovuto preoccuparmi.

«Ehi» dissi ad Andrea, quando lo vidi uscire. Dietro di lui, fece capolino lo psicologo. Provai a forzare un sorriso, ma inutilmente. «Posso parlarle?»

Il dottor Nuzzo annuì e mi fece segno di seguirlo nella stanza. Lasciai Andrea con Giovanni e lo seguii. Mi accomodai sulla sedia di fronte alla sua scrivania e aspettai che andasse a sedersi dall'altra parte, ma non lo fece, anzi, si posizionò con una gamba penzoloni sul bordo di legno.

«Chi è lui?» mi chiese, indicando la porta ormai chiusa.

Un altro caso clinico, pensai.

«Un altro degli otto» riassunsi. «Giovanni.»

Lo psicologo annuì, prima di chiedermi: «Allora, che avevi da dirmi?»

Era così vicino a me che non riuscivo a rielaborare tutto ciò che avevo da dire. Mi dissi di calmarmi e guardai in basso, sulle mie scarpe, per darmi la forza di essere convincente.

«Andrea non può più continuare le sedute» parlai. Alzai gli occhi su di lui, ma poi li riabbassai quasi subito.

Lui si mosse, fino ad alzarsi e a mettere le mani in tasca. «Non hai soldi» capì.

Scossi la testa, ancora senza guardarlo negli occhi, ma stavolta perché mi vergognavo di confessare una cosa simile. L'assistente sociale mi aveva fatto sentire inadeguato e ora mi sentivo anche un idiota a non essere riuscito a sistemare i debiti e gli altri aspetti finanziari lasciati in sospeso da mio padre.

«Posso venirti incontro, se vuoi» propose.

«Andrea ha davvero bisogno di altre sedute?»

«Cosa credi, tu? Tralasciando il fatto che non si può interrompere una cura così bruscamente, una volta iniziata, non ti pare che Andrea stia meglio? Lo sai perché siamo stati tutto questo tempo chiusi in questa stanza, io e lui?»

Scossi ancora la testa.

«Perché ha parlato, tutto il tempo. Non l'aveva mai fatto. Certo, si è sbloccato tanto negli ultimi tempi ed è migliorato dalla prima volta che è venuto qui, ma oggi è stato un fiume in piena. Non possiamo sospendere proprio ora.»

«E se invece questo significa che ha finalmente risolto il suo problema?»

«Donato» mi riprese lui, «tuo fratello non ha nessun problema. Tuo fratello ha solo bisogno di sfogarsi e di capire come far emergere la parte migliore di sé. È ancora troppo presto.»

«Resta il fatto che io non ho soldi.»

Il dottor Nuzzo respirò a fondo, poi si massaggiò la fronte con sole due dita della mano destra. «Facciamo così. Ti offro altre tre sedute gratis, poi decidiamo cosa fare, va bene?»

«E se non dovesse risolversi nemmeno allora?»

«Una cosa alla volta, Donato. Iniziamo così.»

«D'accordo.»

Mi alzai e gli strinsi la mano. Lui aspettò che arrivassi alla porta della stanza, prima di domandarmi: «Donato, stai bene?»

Quella domanda mi mise i brividi. Me l'aveva fatta consecutivamente per almeno due ore Giovanni, me lo chiedeva spesso anche Luca, nei messaggi che ci scambiavamo di tanto in tanto. Ma dalle sue labbra, dalle labbra dell'uomo che, insieme a mio padre, aveva contribuito a ridurmi in quello stato mi fece uno strano effetto. Sembravano che avessero anche un suono diverso, più sibillino se è possibile.

«No. Per niente» confessai. Poi me ne andai. 




Buon giovedì, ragazze! Come al solito spero che il capitolo vi sia piaciuto! 

Al prossimo capito,

Mary <3 

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