La chiave di tutto

La cosa che mi aveva sorpreso di più delle lettere per Babbo Natale dei bambini era che in esse c'erano sì richieste di giocattoli, ma anche pensieri sulla nostra famiglia e sulla speranza che tutti stessimo bene. In quella di Martina, per esempio, c'era la richiesta di proteggere me e tutti i fratelli da qualsiasi cosa "brutta" potesse accaderci; in quella di Francesco si leggeva che Babbo Natale dovesse anche stare attento a non far andare nessuno di noi in ospedale come era accaduto a lui. Tuttavia, l'ultima che lessi, quella di Giovanni, era la più commovente e sentita. Più che una lettera a Babbo Natale, infatti, sembrava uno sfogo, come se mi avesse permesso di leggere il suo diario segreto. Si scusava per tutto quello che aveva fatto in quell'anno e chiedeva, oltre al perdono, di essere felice. Devo ammettere che fu difficile far finta di niente, non restare con il magone per tutta la giornata, dopo averla letta.

Giovanni voleva tornare a essere felice, perché evidentemente non lo era. La droga forse gli aveva dato quella parvenza di gioia che gli era venuta a mancare dopo la morte dei nostri genitori, ma ora? Aveva ancora bisogno di qualcosa che lo rendesse in pace con se stesso. Quel qualcosa non c'era ancora.

Mi alzai dal tavolo della cucina, sul quale stavo leggendo le lettere, con un mal di testa incredibile. Era lo stress, lo sapevo.

Mancava poco allo spettacolo di Natale e i preparativi fervevano. E come tutte le volte che avevamo uno spettacolo da preparare, l'ansia mi pervadeva e cominciavo a diventare intrattabile. Me ne rendevo conto io stesso, tant'è che per le risposte che davo mi autorimproveravo nella mia mente, senza che nessuno degli altri potesse accorgersene. Ciononostante sentivo che se non mi comportavo in quel modo, tutto sarebbe andato male e avevo bisogno che almeno gli iscritti alla scuola di danza non calassero.

Sospirando mi avviai a vedere se gli altri erano pronti per andare alla scuola. Passai davanti la camera di Corrado, Giovanni e Andrea. C'era la porta aperta e potei vedere Andrea rannicchiato sul letto che cercava di fare i compiti. Non aveva appoggi per i libri e spostando lo sguardo mi resi conto che sulla scrivania c'era Giovanni. Con molta probabilità non aveva voluto disturbarlo o dirgli che aveva bisogno a sua volta di un appoggio per scrivere. Mi venne in mente la sua lettera a Babbo Natale e la sua richiesta di "tranquillità". Forse, anche se non me l'aveva detto quando ne avevamo parlato, la tranquillità era anche sinonimo di spazio. Quello che non avevamo e quello di cui invece aveva bisogno lui.

«Siete pronti?» esordii. Andrea alzò di scatto la testa verso di me, mentre Giovanni non si girò dalla sua posizione, di spalle.

«Sì.» Andrea chiuse il libro che aveva sulle ginocchia e scese dal letto. Andò all'armadio ed estrasse il borsone nel quale teneva tutte le sue cose per ballare. «Pronto!» fece.

Sorrisi. «Bravo.»

«Io non vengo.»

«Come?»

Giovanni si girò finalmente verso di me, puntando gli occhi nei miei. «Ho detto che non vengo. Non penso di essere così necessario.»

«Invece serve l'aiuto di tutti. C'è molto da fare» replicai.

Lui distolse lo sguardo da me e sul suo volto comparve una smorfia. Feci qualche passo verso di lui.

«Che c'è?» sussurrai. Dietro di me c'era ancora Andrea e non volevo che ci sentisse.

Lui dovette fare il mio stesso pensiero, perché abbassò la voce per dirmi: «Non mi va.»

«D'accordo, non voglio forzarti. È solo che mi serve davvero una mano.» Esagerai molto e per calcare la mano mi imposi di assumere un'espressione sofferente o quanto meno stanca. Non che dovessi fingere poi molto, in realtà.

«E va bene» si arrese lui.

Gli strinsi una mano sulla spalla. «Grazie.» Poi andai a richiamare all'ordine tutti gli altri.






***





Uscii dallo spogliatoio maschile, dove il tubo di una delle docce perdeva, sbuffando e maledicendo qualsiasi cosa. Avevo dovuto improvvisare per rimediare al danno, ma supponevo che il secchio che avevo messo per non far fuoriuscire l'acqua non sarebbe durato a lungo. Dovevo chiamare l'idraulico e farmi fare un preventivo.

Mi passai le mani bagnate sui jeans e dovetti fermarmi di colpo: davanti a me c'erano Daniele e Francesco. Il più piccolo, che aveva già addosso il mantello nero, salì sulle spalle del più grande; poi si mise la testa del Re dei Topi. Incuriosito, li osservai senza dire niente. Corrado non c'era in sala e di certo non avrebbe mai detto loro di provare senza la sua supervisione. Quando però iniziarono a camminare, capii che stavano progettando uno scherzo. Il bersaglio, poverino, era Giovanni. Mio fratello era seduto di spalle, per terra, e teneva a bada alcuni ragazzini del primo anno. Daniele e Francesco sbandavano perché ancora non erano del tutto sicuri, ma riuscirono ad arrivare alle spalle di Giovanni. Daniele allargò le braccia, così che il mantello creasse delle enormi ali nere, e i bambini che erano di fronte a Giovanni urlarono per la paura; Giovanni, sorpreso, si girò e, non aspettandosi di trovare il Re dei Topi, si fece indietro, impaurito. A quel punto scoppiai a ridere senza rendermene conto. La reazione di Giovanni era stata inaspettatamente divertente, anche se spaventare in quel modo le persone non è saggio.

Tuttavia lui non la prese molto bene, quando si rese conto che erano i suoi fratelli, e li afferrò entrambi per il busto, così da farli cadere e cominciò a torturarli con il solletico.

«Vi siete divertiti, eh?» esclamò tenendoli tra le sue braccia perché non scappassero.

«Ci sei cascato!» gridò Francesco.

Daniele si dimenò mormorando: «Non respiro.» E a quel punto mi inserii nella conversazione. Sapevo che Giovanni stava scherzando, ma il tono di Daniele mi sembrò al contrario molto serio.

«Giovanni, lasciali: Daniele ha ancora la maschera in testa.»

Mio fratello allentò la presa, preoccupato quanto me che Daniele potesse morire asfissiato, e io gli tolsi la maschera; lui inspirò forte.

«Stai bene?» gli chiesi.

«Sì.»

«Adesso però state buoni, che io e Giovanni dobbiamo parlare un attimo.»

Il chiamato in causa mi guardò interrogativo, ma non gli dissi niente, limitandomi a uscire dalla sala e a farmi seguire da lui. Insieme andammo nella zona segreteria, dove c'erano Corrado e Giovanni. Per fortuna erano già lì e non sarei dovuto andare a cercarli per tutta la scuola di danza per dargli l'ennesima cattiva notizia.

«Il tubo della doccia nello spogliatoio maschile perde e bisogna chiamare l'idraulico» cominciai.

Corrado sbuffò. «Pensi sia una cosa grave?»

Scossi la testa. «Sinceramente non lo so, dovrei far controllare per esserne certo.»

«Provo a chiamarlo adesso, vediamo se risponde» si offrì Simone.

Annuii e lasciai che mio fratello si mettesse in contatto con l'idraulico, l'unico che conoscevamo e l'unico che avevamo sempre chiamato da quando nostro padre era morto. Perché con la sua mancanza, purtroppo, erano venuti a mancare anche tutta un'altra serie di cose, come le persone a cui mio padre si rivolgeva per problemi di qualsiasi tipo. In qualche modo era come se non contassimo più nulla per quelle persone, come se non potessimo più ritenerci clienti affezionati di meccanici, saldatori, falegnami e quant'altro. Da una parte ne ero felice, poiché in quel modo potevo costruirmi la mia rete di conoscenze; dall'altra, invece, ne ero triste perché per creare quella rete ci sarebbe voluto tempo e costanza.

L'idraulico ci disse che sarebbe corso a vedere appena disponibile, perciò lo aspettammo per quel pomeriggio stesso. 






***





L'espressione dell'uomo che stava visionando il tubo non era delle migliori, anzi, con molta probabilità il danno era più grande di come se l'aspettava, o di come ce l'aspettavamo noi. Quando finì, scosse la testa, sospirò e si pulì le mani con uno straccio che poi ripose nella cinta dei pantaloni.

«Mi sa che dovete rompere tutto, qui» disse.

«Tutto cosa?» chiese Corrado.

«Tutto il muro. Non credo che la perdita venga da questo tubo e bisogna capire da dove parte...»

«Non può mettere semplicemente una fasciatura o altro per non far uscire l'acqua? Alla fine l'importante è che non si allaghi il bagno.»

L'idraulico fissò mio fratello come se fosse un alieno, poi rivolse lo sguardo su di me. Sembrava quasi che mi stesse chiedendo telepaticamente se mio fratello stesse scherzando o se fosse serio.

«Non è possibile, Corrado» risposi io per lui. «Evidentemente non è così semplice.»

«Sì, infatti. Si potrebbe, ma poi la doccia verrà usata di nuovo e non è detto che non succeda ancora, o se non è quella la perdita potrebbe fare più danni.»

«Certo» acconsentii. «Quanto pensa che ci vorrà?»

«Quattro, cinque giorni più o meno.»

Annuii. Non chiesi il prezzo, né altri dettagli: lasciai che Simone e Corrado discutessero con lui e che gli parlassero anche del possibile bagno da fare in casa nostra. Ormai ero arreso al fatto che ci volessero molti soldi anche per quella riparazione ed era inutile scervellarmi per trovare altre soluzioni.

Arreso, feci finta di osservare la situazione in sala per distrarmi dalle parole dell'idraulico e da quelle preoccupate di Simone. Contrariamente a quello che pensavo, però, qualcosa mi distrasse veramente e mi incuriosii più del dovuto.

Giovanni, di fronte allo specchio e con alle spalle i nostri fratelli e gli altri ragazzini dei primi anni, stava insegnando dei passi di danza. Non era quella moderna, né quella classica. Era hip hop, quello che aveva imparato in America, quando era scappato da nostro padre, quando aveva tentato di cercare da solo la sua felicità.

Mi chiesi se potesse essere quella la chiave di tutto, il tassello che gli mancava per stare in pace con se stesso. Avrebbe potuto esserlo, certo, ma il difficile sarebbe stato porlo davanti a quella possibilità. Non aveva reagito molto bene le volte che gli avevo proposto di aiutarci a insegnare, ma magari con l'hip hop sarebbe stato diverso. Mi ripromisi almeno di provarci.

Così, ispirato da quel pensiero e dalla possibilità di poter fare qualcosa di positivo almeno per uno dei miei fratelli, dissi a Simone e a Corrado che dovevo uscire un attimo ma che sarei tornato prestissimo. Loro non mi diedero molto retta, quindi presi la palla al balzo e lasciai la scuola di danza. Non mi ci sarebbe voluto molto per mettere in atto il piano che avevo e soprattutto avrei dovuto attraversare la strada e percorrere qualche metro.

Fuori dal tipografo, sorrisi ancora per l'idea che avevo avuto ed entrai.

Quando uscii, la consapevolezza di aver fatto qualcosa di bello mi fece sentire bene e per un attimo dimenticai tutti i problemi che avevamo. In fondo era quasi Natale, Ilian mi aveva promesso di prestarmi dei soldi e col tempo avremmo risolto ogni cosa.

«Ammetto che mi è mancato molto, quel sorriso.»

Sobbalzai e voltai lo sguardo in direzione di quella voce. Mirko era ora di fronte a me e mi aveva parlato. Era incredibile come fosse spuntato proprio nel momento in cui stavo per pensare a lui, all'unica cosa che forse non si sarebbe risolta, quell'anno.

Paralizzato, non seppi cosa rispondergli e il sorriso che l'aveva spinto a parlarmi sparì lentamente dal mio viso.

«Stai bene?» mi chiese.

L'aria fredda mi colpì le mani proprio in quel momento, così le portai nelle tasche del giubbotto, e nascosi il naso nella sciarpa.

Annuii.

«Sei sicuro?»

Mirko si avvicinò di un passo e il suo profumo mi schiaffeggiò. Fui costretto a socchiudere gli occhi per rimanere almeno un minimo lucido, anche se il solo fatto di averlo davanti mi stava creando degli enormi problemi, primo fra tutti la difficoltà di parlare, di parlargli.

Annuii di nuovo, però poi scossi la testa e la abbassai.

«Donato?»

Potei sentire la sua mano poggiarsi sul mio braccio e il suo odore sempre più penetrante, sempre più vicino a me. Lui era sempre più vicino a me.

«Mirko...» riuscii a sussurrare, senza alzare il capo e senza guardarlo negli occhi. Tante volte avevo immaginato la scena e tante volte avevo immaginato di parlargli, di dirgli tutto ciò che provavo, tutto ciò che sentivo per lui e tutto ciò che non gli avevo mai detto. Tutto ciò che gli avrebbe finalmente fatto capire i miei motivi.

«Donato» ripeté lui, e il mio nome vibrò potente tra il suo corpo e il mio. «Lo sai che io...»

Non lo lasciai finire, ma gli gettai le braccia al collo e lo abbracciai forte, più forte che potei. In un primo momento, Mirko non ricambiò, tuttavia si lasciò andare subito dopo e mi strinse a sé, nascondendo il viso nell'incavo del mio collo. Avrei tanto voluto baciarlo, ma eravamo in pubblico e sapevo che anche lui non avrebbe voluto rischiare così tanto, o almeno non avrebbe fatto problemi se mi fossi rifiutato.

«Lo so» mormorai, con una lacrima che mi rigava il volto.

Sapevo che Mirko ci sarebbe stato sempre, anche se non stavamo insieme, anche se ci eravamo presi una pausa, anche se io ero stato con Luca e lui chissà con chi altro, anche se mi odiava, anche se io lo odiavo. Lui ci sarebbe stato e io avrei dovuto saperlo.

Ci staccammo per poterci guardare negli occhi; con amarezza notai che anche i suoi erano velati di lacrime.

«Mi dispiace non essere stato sempre presente, o non averti sempre risposto al telefono, ma... io... Non era facile.»

«Lo so» ripetei. «Non devi scusarti.»

«Ascolta, qui non è il luogo adatto, ma possiamo vederci da me quando vuoi per parlare, che ne dici?»

Subito, adesso, andiamo, disse il mio cuore.

«Ho alcune cose da risolvere. Ti faccio sapere un giorno in cui sono libero» disse la mia mente.

«Certo.»

La sua mano si fermò di nuovo sul mio braccio, che strinse forte prima di sorridere, voltare le spalle e andarsene.

Lo osservai per tutto il tempo. Lo osservai finché non sparì dalla mia vista. E, a ogni passo che faceva, mi ponevo la stessa domanda.

Quanto ero stato stupido a lasciarlo andare? 




Buon giovedì! Come state? Dai, penso di essermi fatta perdonare per il capitolo breve dell'altra volta. Voi che dite?

Un abbraccio e al prossimo giovedì, 

Mary <3 

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