Il fuoco della gelosia
Quando tornai a casa, dopo la visita dallo psicologo di Andrea, tutto mi sarei aspettato, tranne di trovare quello che trovai. Avrei voluto mangiare in fretta e andarmi a fare un bagno caldo, ma appena misi piede nel salotto mi paralizzai.
Per terra, sui divani, sulla poltrona e sul tavolo c'erano sparsi tutti i giocattoli dei ragazzi. La maggior parte non erano montati, ma fatti a pezzi e lanciati qua e là senza nessuna cura; una sedia era rovesciata sul pavimento e su una delle gambe c'era una maglietta che faticai a riconoscere, forse era di Francesco.
Ma la cosa che più mi fece saltare i nervi fu vedere Daniele dietro il divano intento a disegnare sul muro.
Con la rabbia che mi montava dentro e senza pensarci due volte, a grandi falcate andai da lui e lo afferrai per un braccio, fermando la sua follia.
«Sei impazzito?» urlai. E, senza dargli il tempo di rispondermi, gli tirai un forte sculaccione sul sedere. «Come ti è venuto in mente di fare una cosa del genere, eh?»
Di nuovo, gli mollai un ceffone, ma stavolta tirandolo più a me in modo che non potesse scansarsi dal mio colpo.
Lui piagnucolò qualcosa in risposta, ma ero così arrabbiato che non mi fece pena per niente. «Rispondi, Daniele!» esclamai, mentre lo strattonavo e gli davo un altro sculaccione. «Come ti è saltato in mente?»
«Io... io...»
«Donato, che...?»
Simone, arrivato d'improvviso forse a causa delle mie urla, mi fissava ora stranito e con alle spalle Corrado. Daniele approfittò della mia distrazione per divincolarsi dalle mie mani e andare a schiantarsi sulle gambe di Simone. Lo abbracciò forte e bofonchiò: «Donato mi ha picchiato!»
Daniele cominciò a piangere forte, sempre più forte, mentre tutti i miei fratelli presenti nella stanza mi guardavano in cerca di risposte.
Sbuffai forte dalle narici, prima di dire: «L'ho trovato a fare Michelangelo sul muro con i pennarelli!» Indicai col braccio il "capolavoro" di Daniele – che si riassumeva in lunghe strisciate di diversi colori e forme – per chiarire ancora di più il concetto.
«Daniele, è vero?» gli chiese Simone.
«Sì che è vero» scattai io. «L'ho visto io e anche Giovanni e Andrea! Tu puoi scordarti i giocattoli per una settimana» gridai a Daniele. «Anzi, sai che ti dico? Per due! E ora vai in camera tua, subito!»
Daniele mi guardò con gli occhi pieni di lacrime, tirò su col naso, poi rivolse lo sguardo su Simone. Mio fratello annuì e il più piccolo corse subito in camera sua, come gli avevo ordinato.
In parte sfogato ma ancora innervosito, mi girai di nuovo verso il casino che, supposi, avessero creato tutti i miei fratelli più piccoli e non solo Daniele. «Complimenti per l'attenzione, ragazzi» ironizzai, riferendomi a Simone e a Corrado, che erano rimasti a casa. «Vedo che avete sempre tutto sotto controllo.»
«Siamo stati tutto il tempo con loro, ma ero andato un attimo a fare una telefonata e...»
«Corrado, trova una scusa migliore, per favore. Anzi, se è la verità forse è peggio. Non potevi trovare un altro momento per telefonare?»
Vidi Corrado deglutire, per poi distogliere gli occhi dai miei.
«E tu?» Alzai il capo verso Simone in segno di sfida.
Lui raccolse la sfida. «Non mi giustificherò con te» disse. «Oggi sono stati incontrollabili e proprio in questo momento ero andato a fare il bagno a Martina e a Francesco. Avevo detto a Daniele di mettere a posto, ma...»
«Ma, fammi indovinare, non ti ha ascoltato? Che novità!» risi, prendendomi beffe di lui e del modo che aveva di farsi rispettare da Daniele. Praticamente nullo.
«Mi aveva promesso che l'avrebbe fatto» mormorò lui, con qualche difficoltà.
«E tu gli hai creduto? Bravo.» Feci un paio di passi, finché non mi trovai a pochi centimetri da lui. «Adesso sistemate voi questo casino, io vado a controllare i ragazzi e poi, forse, vorrei fare un bagno anch'io.»
«Donato, tu non puoi...» cominciò Simone, ma subito fu interrotto da Giovanni.
«Vi aiutiamo anche io e Andrea» fece, mentre tirava a sé Andrea prendendolo per il polsino della maglia. Era evidente che Simone stava per opporsi ai miei ordini e Giovanni, capendo l'andazzo, aveva provato a sedare gli animi.
«Non c'è bisogno, grazie» gli disse con astio Simone, prima di mettersi a raccogliere i giocattoli. Corrado lo seguì.
Giovanni non fece una bella espressione, a seguito dell'affermazione scontrosa di Simone, ma decisi di non approfondire quella situazione. Così voltai le spalle a tutti loro e andai in camera dei ragazzi.
Lì, appena entrai, come dei soldatini Martina e Francesco scattarono in piedi. Mi sarebbe venuto da sorridere, ma la rabbia non era ancora scemata del tutto e poi ormai nelle loro menti ero il cattivo, non avrei potuto comunque farmi perdonare. Allora, tanto valeva continuare.
Daniele era sul suo letto, sistemato in un angolino; abbracciava il cuscino e ancora piangeva per le botte che gli avevo dato.
«Daniele, quello che hai fatto oggi non è...»
«Francesco ha preso un brutto voto!» gridò lui, interrompendomi e scendendo di scatto dal letto.
«Cosa?» D'istinto, mi voltai verso il nominato, nonostante sapessi che Daniele l'aveva fatto per distogliere l'attenzione da lui.
«Sei un cretino!» urlò Francesco, rivolgendosi al fratello.
Prima che i due potessero azzuffarsi, visto che Francesco era sul punto di andargli incontro, posi una mano sul petto di Francesco per poi posizionarmi davanti a lui, dando le spalle a Daniele. «Francesco, è la verità?»
Mio fratello prima si mostrò pronto a ribattere a tono, magari difendendo la sua posizione, e poi gli occhi gli si riempirono di lacrime. «Non lo so perché» biascicò, con il pianto che gli rendeva difficile scandire bene le parole.
«Che vuoi dire?»
Francesco non rispose, ma andò verso la scrivania. Cercò qualcosa e poi mi portò un foglio.
Erano gli esercizi di matematica.
Sbalordito, scorsi velocemente sui numeri scritti. Quasi tutte le moltiplicazioni erano sbagliate, anche quelle che riguardavano la tabellina del nove, che ricordavo sapesse abbastanza bene. Non era servita a niente la punizione che gli avevo dato?
«Francesco, ma com'è possibile?» Devo ammettere che non ero arrabbiato con lui, ma piuttosto perplesso da tutti quegli errori. Francesco non era di certo un genio a scuola, ma nemmeno una capra completa.
«Non lo so...» borbottò lui.
«Tre per quattro quanto fa?»
Lui tirò su col naso. «Dodici.»
«E allora perché hai scritto trentadue?»
Lui scosse la testa, dispiaciuto.
Vederlo in quello stato e soprattutto dopo la giornata che avevo avuto non mi diede una bella sensazione. Allora decisi di fare un passo indietro e magari anche di tentare di calmarmi.
Mi inginocchiai davanti a lui e gli tolsi la mano da sopra agli occhi. «Guarda» gli dissi, mentre gli ponevo davanti il quaderno. «Hai sbagliato quasi tutte le moltiplicazioni.»
Francesco si passò il polso sotto le narici per pulirsi e poi focalizzò lo sguardo sul casino che aveva combinato. Notai subito un dettaglio a cui non avevo mai prestato attenzione: mio fratello stringeva gli occhi, come per aiutarsi a vedere bene.
Un'idea mi balzò subito in mente. «Che numero è questo, Francesco?» domandai, puntando il dito sul tre.
«Mmmh...» Lo fece di nuovo: corrugò la fronte e strinse gli occhi. «Tre.»
Era giusto, sì, ma non aveva avuto la risposta pronta, come avrebbe dovuto essere. Allora allontanai il quaderno e gli indicai di nuovo lo stesso numero.
«E questo?»
«Otto» rispose.
A quel punto, tutto mi fu più chiaro: Francesco non vedeva bene.
***
L'oculista, dopo aver visitato Francesco, ci fece sedere nel suo studio per esporci la situazione. Mio fratello non vedeva bene e avrebbe avuto bisogno di mettere gli occhiali fissi, o nel giro di pochi anni la sua vista si sarebbe aggravata. Davvero non mi aspettavo che Francesco non vedesse bene, non ne avevo mai avuto il sentore. Corrado, quando l'aveva saputo, era rimasto a bocca aperta e subito aveva provato ad accampare una scusa dopo l'altra con me, forse sentendosi in colpa, come il sottoscritto, di non aver capito cosa ci fosse dietro gli errori scolastici di Francesco. Eppure, non ero arrabbiato con lui. Come potevo, d'altronde? Nemmeno io ero stato molto attento.
«Ci sono altri casi in famiglia?» chiese l'oculista. Accanto a me, Giovanni mi diede una gomitata nel fianco per svegliarmi dalle mie elucubrazioni mentali.
«Cosa? No, no, non che io sappia» risposi. La vista l'avevamo avuta tutti sempre buona e i miei genitori non avevano avuto modo di invecchiare per poter provare "l'emozione" della vista che va via via calando.
«Ho capito. Allora, ascolti, il bambino dovrà tenerli sempre. Il suo è un astigmatismo miopico. Non è facile di solito capirne i sintomi nei bambini, ma siete stati bravi a portarlo adesso. È importante, però, che non stanchi gli occhi. D'accordo?»
Annuii.
«Bene. Le lenti dovrebbero essere pronte tra una settimana, vengono...»
Non ascoltai il prezzo o, meglio, il mio cervello si spense proprio in quel momento. Non era il caso mettersi a pensare ai soldi: Francesco ne aveva bisogno. Certo, mi sembrava che tutto si stesse accumulando e se una disgrazia ne porta subito altre cento, speravo che mi capitasse al più presto una fortuna.
«Ci vediamo tra sei mesi per una visita di controllo» mi disse l'oculista.
Annuii di nuovo e mi alzai, anche Giovanni e Francesco lo fecero. Strinsi la mano all'uomo e poi, dopo aver pagato la visita alla segreteria, uscimmo.
Per strada, Francesco non faceva altro che dire di non aver bisogno degli occhiali. Insisteva sul fatto che il medico si sbagliasse, che doveva solo imparare meglio le moltiplicazioni e tutto si sarebbe risolto.
«Leggi lì» gli disse Giovanni, sbuffando. Mio fratello indicò l'insegna di un pub poco distante.
Francesco si fermò, strinse forte gli occhi. «Non lo so, non so leggere.»
«Sì che sai leggere» mi alterai io.
«Non molto bene» rispose Francesco.
Roteai gli occhi al cielo, sbuffando a mia volta. «Smettila.»
«È la verità, degli occhiali non ne ho bisogno.»
Scocciato e anche un po' innervosito, mi voltai verso di lui per dirgliene quattro, ma mi bloccai. Dall'altra parte della strada, ora di fronte a me, c'era Mirko. Riconobbi subito il suo profilo, le sue gambe lunghe, i suoi bicipiti muscolosi.
I capelli gli erano cresciuti di qualche centimetro e ora gli coprivano metà delle orecchie; sulla fronte, qualche ciuffo gli ricadeva scomposto. Non si era messo il gel, come faceva di solito.
Era bellissimo.
«Donato?» mi chiamò Giovanni.
«Sì, io...»
Mi bloccai di nuovo e, come mio fratello, aggrottai la fronte e gli occhi per vedere meglio. Accanto a Mirko, ora, c'era un ragazzo che non avevo mai visto. Quel ragazzo prima gli accarezzò il braccio e poi gli scoccò un bacio sulla guancia; si sedettero poco distante, fuori i tavolini di un bar.
Il fuoco della gelosia mi si accese nel petto, ma subito dopo si alimentò anche della rabbia, rabbia per il fatto che anche lui era passato oltre, che come me stava iniziando a considerare la frequentazione di altre persone. Di certo non pretendevo che durante la nostra pausa lui si chiudesse in casa a studiare, senza vedere nessun altro; però avercelo davanti, alla luce del sole, fu come ricevere un pugno nello stomaco.
Inghiottii il groppo amaro della sconfitta e voltai le spalle, così che non potesse vedermi, anche se, per quanto sembrava immerso nella conversazione, probabilmente non si sarebbe comunque accorto di me.
«Andiamo a casa» dissi ai miei fratelli. Finsi che tutto andava bene, anche se Giovanni continuava a guardarmi con sospetto, per cercare di capire cosa mi era preso. Allora cercai di accampare una scusa: «Pensavo di aver visto una persona che conosco.»
«Oh» commentò Giovanni.
Una volta rientrato a casa, dopo aver spiegato la situazione di Francesco a Corrado e a Simone, andai a rinchiudermi in bagno. Poggiai le mani sul lavabo e inspirai forte. Mi guardai allo specchio.
Ero un disastro.
Le occhiaie erano profonde, la barba incolta, i capelli troppo lunghi. Mio padre aveva sempre odiato che li facessi crescere così tanto e quasi per infastidirlo amavo portarli quasi alle spalle, poco più sopra della fine del collo. Ma in quel momento erano davvero un casino e informi. Dovevo tagliarli.
Ripensai a Mirko, a come lui amava giocare con i ciuffi dei miei capelli, a come gli piaceva inserire le dita dentro per poi lamentarsi di qualche nodo che trovava. Eppure, non si stancava mai di accarezzarmeli. Diceva che era la cosa più bella di quando restavamo abbracciati, io sul suo petto a godermi le sue carezze.
Sospirai. L'immagine di lui, seduto fuori a quel bar con quel ragazzo, si frappose subito a quella di noi due a farci le coccole.
Imprecai. Era giunto il momento di andare avanti, di aprirmi a nuove esperienze. Forse solo così avrei potuto stare meglio.
Decisi, allora, di chiamare Luca: c'era un invito che ero pronto ad accettare.
Buon giovedì, ragazze. Come state? Spero tutto bene. Purtroppo non stiamo vivendo un periodo facile e spero di farvi passare dei momenti di spensieratezza con i miei capitoli, ma devo ammettere che tutto ciò che sta accadendo mi ha tolto un po' la voglia di scrivere. Speriamo finisca presto.
Intanto, al prossimo giovedì!
Mary <3
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