Diverso da tutti gli altri
Se c'era una cosa di cui non sentivo assolutamente la mancanza, da quando mi ero diplomato, erano i compiti. Tuttavia ero costretto a farli e a rifarli tutti i giorni e di gradi diversi di difficoltà. Martina, Daniele e Francesco andavano alle elementari, mentre Andrea aveva appena iniziato il secondo anno alle scuole medie.
Quel giorno stavo aiutando Daniele a fare le addizioni a tre cifre.
«Allora» iniziai a spiegargli, ormai per l'ennesima volta quel giorno. «Devi partire da sinistra. Sette più quattro fa?»
Lui si aiutò con le dita, prima di rispondere: «Undici.»
«Bravo. Quindi scrivi l'uno sotto e poi quello che avanza lo scrivi vicino al numero che dobbiamo andare a sommare adesso. Cinque più uno fa?»
«Sei.»
«Bene. Sei più otto?»
«Oh...» Daniele si fermò, in difficoltà. Alzò gli occhi su Francesco, quasi cercasse un aiuto da lui, ma l'altro era così impegnato a fare i suoi, di compiti, che non se ne accorse nemmeno.
«Conta, Daniele» gli suggerii io.
Daniele cominciò ad aiutarsi con le dita, ma si perdeva sempre e doveva ricominciare da capo, forse perché partiva dal sei e doveva aggiungerci otto dita.
«Mh... tredici?» provò.
«No, quattordici.»
Lui mise il broncio, scocciato dal fatto di non aver indovinato, e io gli misi una mano sulla spalla per confortarlo. Ero in piedi, dietro di lui, mentre Daniele era seduto a capotavola in cucina. In quella posizione riuscivo a tenere sotto controllo tutto e ad assicurarmi che non sbagliasse.
«Ascolta» gli dissi, «ti insegno un trucco. Quando le addizioni sono troppo difficili, cerca di rendere il tutto più semplice. Per esempio, come prima cosa potresti arrivare a dieci e poi sommare quello che ti resta. Quante caramelle mancano a otto per arrivare a dieci?»
«Due» rispose lui, sicuro.
«Esatto. E quanto ti resta se a sei togli due?»
«Quattro.»
«Bravo. Quindi, quattro più dieci fa quattordici. È più facile così, no?»
Daniele annuì, soddisfatto, e non volle il mio aiuto per continuare a finire l'addizione, ma lo controllai comunque.
«A me sembra più difficile, invece» s'intromise Giovanni, passandomi alle spalle, per poi andare a vedere cosa stava facendo Francesco, seduto poco distante da noi. «Prima devi sottrarre da una parte, poi mettere dall'altra...»
«Invece è un metodo collaudato per fare i calcoli mentali» replicai. Ero sicuro di quello che dicevo perché io stesso ne facevo uso ed era anche lo stesso metodo che adoperavo per dare il resto, di tanto in tanto, quando i genitori pagavano la retta alla scuola di danza.
«Boh...» commentò lui, poi puntò l'indice sul quaderno di Francesco. «Carino questo disegno, cos'è?»
«Disegno?» parlai io, anticipando Francesco, il quale alzò di scatto la testa verso di me. «Francesco, stai disegnando?»
«No...»
«Sì, un bellissimo cane con un... Cos'è, questo? Un fiore?» disse Giovanni.
«Sì» sussurrò Francesco. «Stavo solo...»
«Francesco, vieni qui» gli ordinai, mettendomi dritto. «Col quaderno, ovviamente.»
Francesco afferrò il quaderno e venne verso di me con qualche rimostranza, era chiaro che non gli andava per niente di farmi vedere che invece di studiare stava disegnando. Il foglio era pieno di scarabocchi e disegnini, quando avrebbe dovuto essere pieno dei compiti che non aveva ancora fatto.
«Pensavo stessi facendo i compiti» lo rimproverai.
«Corrado mi ha detto di aspettare lui per farli» mi rispose.
«Come mai?»
Lui scrollò le spalle. «Non lo so.»
«Allora adesso lo chiamo, nel frattempo tu inizia a farli.»
Non dovetti chiamarlo, però, perché Corrado, insieme a Simone, entrò nella stanza dove eravamo noi.
«Ho trovato una cosa, Donato» esordì Corrado. Solo in quel momento mi accorsi che tra le mani aveva un'agenda. «Guarda, ho trovato questo. Credo l'abbia segnato papà. Che ne dici?»
Corrado mi mostrò il contenuto dell'agenda e io sbiancai a leggere: "Dottor Nuzzo (psicologo)" scritto da mio padre. Di fianco al nome c'era il numero di telefono e l'indirizzo dello studio.
«Non so perché papà avesse questo contatto segnato, magari è un suo amico. Pensavo che potremmo chiamare lui per Andrea, che ne pensi?» Corrado abbassò la voce, nel pronunciare l'ultima parte della frase, per non far sentire agli altri che stavamo cercando uno psicologo per Andrea.
«Non mi piace molto come idea, no» mormorai.
«Perché, lo conosci?» mi chiese Simone.
«No, no» mi affrettai a dire. I miei fratelli non sapevano niente di quelle maledette sedute e non era il caso che lo sapessero proprio in quel momento. «Non lo conosco. Credo solo che non è detto che sia uno psicologo infantile. La psicologia ha diversi rami.»
Mi ero lanciato a dire quella grande bugia, anche perché sapevo bene che il dottor Nuzzo aveva pazienti adolescenti o bambini, ma Corrado e Simone sembrarono sinceramente colpiti dalle mie parole e rifletterono su di esse.
«In effetti hai ragione» ne convennero, insieme.
«Però potremmo chiamare e chiedere» disse poi Corrado.
«Già» concordò Simone.
«Allora chiamo» decise Corrado.
«Sì, sì, però... però aspetta» lo fermai. «Prima, per favore, fai fare i compiti a Francesco: ti sta aspettando per farli.»
Corrado chiuse l'agenda, aggrottò la fronte e domandò: «Ah sì, e come mai?»
«Non lo so, dice che gliel'hai detto tu di aspettarti» affermai, ma rivolgendo lo sguardo su Francesco, il quale si affrettò a prendere i libri e a mettersi a studiare. Ero convinto al novanta per cento che l'aspettare Corrado fosse una bugia che mi aveva rifilato per non essere sgridato e ora ne avevo la conferma. «Però non ha importanza: li faccio io con lui.»
«D'accordo» disse Corrado, non capendo il sottinteso delle mie parole. «Ti faccio sapere cosa mi dice.»
«Va bene.»
Corrado e Simone sparirono dalla mia vista e io mi concentrai su Francesco. Mi posizionai dietro di lui, esattamente come avevo fatto con Daniele, e gli dissi di mostrarmi ciò che aveva da studiare. Anche a Francesco toccava fare matematica e perciò senza pensarci troppo seguivo i suoi calcoli, mentre con la mente pregavo che il dottor Nuzzo rifiutasse, che inventasse una qualsiasi scusa per non accettare Andrea come paziente.
Mi ero opposto solo debolmente ad avere lui come terapeuta di Andrea, ma l'avevo fatto solo perché non volevo dare troppo nell'occhio; tuttavia la possibilità che anche mio fratello potesse provare ciò che avevo subìto io mi faceva stare male. Certo Andrea non era gay e non stava andando dallo psicologo per guarire dalla sua omosessualità, ma che ne sapevo di come si comportava il dottor Nuzzo con gli altri pazienti?
Non ero tranquillo, non ero tranquillo per niente.
«Ecco, ho finito» mi disse Francesco, distraendomi dai miei pensieri.
«Fa' vedere» risposi, sottraendogli da sotto il naso il quaderno. Lessi in fretta e mi ritrovai a sbuffare: le moltiplicazioni erano tutte sbagliate. «Tre per tre fa nove, hai scritto ventiquattro. E anche questa è sbagliata» e puntai l'indice su quella sbagliata, «dovrebbe essere dodici, non quarantadue.»
«Cavolo, le hai sparate proprio grosse» ironizzò Giovanni. Alzai gli occhi su di lui e lo trovai intento a mangiare una mela. Mi chiesi perché era ancora lì e che gliene fregava dei compiti dei suoi fratelli, dato che negli ultimi tempi sembrava essere ormai estraneo alla famiglia.
«Già» mormorai. «Francesco, cancella tutto e rifalle.»
«Pensavo fossero giuste» si lamentò lui.
«Beh, non lo sono» gli risposi.
Lui mugugnò qualche altra cosa in replica, ma poi ricominciò a farle di nuovo. Quel pomeriggio dovetti davvero contare fino a mille per non arrabbiarmi con lui: ogni volta ne sbagliava sempre troppe. Eppure ormai era grande, aveva dieci anni, e le tabelline le sapeva bene e a memoria, davvero non riuscivo a capire perché non si stesse concentrando.
Dopo un'ora di lotte con i numeri, Francesco riuscì a finire anche i suoi compiti. Non gliela feci passare, però. Così presi un foglio pulito e una penna e glieli misi davanti.
«Adesso scrivi per dieci volte tutte le tabelline, da quella dell'uno fino a quella del nove» decisi. Non ero mai stato tanto severo con lui e forse fu in assoluto la prima punizione che impartii, ma quel pomeriggio a fare i compiti con lui mi aveva fatto perdere le staffe ancora di più.
«Cosa? E perché?» chiese lui.
«Così le impari bene e non le sbagli più.»
A lui tremò il labbro e forse avrebbe voluto replicare, ma alla fine desistette e cominciò a fare quanto gli avevo ordinato.
Non controllai Francesco, ma lo lasciai completare le moltiplicazioni sul tavolo della cucina, mentre iniziavo a cucinare. Quel pomeriggio non avevamo aperto la scuola di danza perché era sabato e avevamo deciso di non tenere corsi di sabato, così che avremmo avuto un altro giorno alla settimana per riposarci, oltre alla domenica. Insegnare danza non era un lavoro stancante, ma ci impegnava l'intera giornata; seguire tutto ciò che dovevamo fare non era semplice e molto spesso ci era capitato di "vivere" alla scuola di danza – mangiare, far fare i compiti ai ragazzi –, perciò quel giorno in più era una benedizione.
«Ho finito anche questo» mi disse Francesco, mentre lavavo l'insalata.
«Metti lì, dopo vedo» gli risposi, indicandogli con la testa il mobile di fianco a me.
«Sono tutte giuste.»
«Vedrò dopo.»
«Ho controllato io, sono tutte giuste» insisté lui.
«Francesco» ringhiai, voltandomi verso di lui e inchiodandolo con lo sguardo. «Ho detto: dopo vedo.»
Lui, a quel punto, non poté far altro che annuire e sparire dalla mia vista.
Raccolsi qualche foglia d'insalata e, dopo averla fatta sgocciolare, la posai con cura su un fazzoletto di carta che avevo precedentemente messo sul lavello. Mi attaccai al bordo con le mani e sospirai. La rabbia non ne voleva sapere di scemare, ma dovetti impormi di calmarmi e soprattutto di pensare a come fare, quando Corrado venne a dirmi che il dottor Nuzzo aveva accettato di incontrare Andrea.
***
Io e Andrea eravamo fuori lo studio dello psicologo, in attesa del nostro turno. Mi ero imposto per accompagnarlo e né Simone né Corrado aveva obbiettato. In fondo ero il tutore legale di Andrea e non dovevano nemmeno aver trovato tanto strana la mia richiesta. La verità, però, era che volevo assicurarmi che tutto andasse bene e l'avrei fatto parlando con il dottor Nuzzo. Di persona. Da soli. Io e lui.
Lo studio dove ci trovavamo era lo stesso che avevo frequentato io anni prima, non era cambiato di una virgola. C'era ancora il portaombrelli giallo all'ingresso, la scrivania senza segretaria ma piena di libri con chissà cosa dentro (al pensiero, rabbrividivo) e le uniche due sedie su cui attendere il proprio turno, sedie che in quel momento stavamo occupando io e Andrea.
Era la prima volta che mi trovavo dall'altra parte della porta per così tanto tempo. Quando era toccato a me andarci, infatti, mio padre mi accompagnava sempre in orario; mai prima, mai dopo. Invece, nonostante l'orario di visita fissato, mi ero mosso da casa con molto anticipo.
Sospirai e rivolsi lo sguardo su Andrea: teneva le mani strette in grembo e si torturava il labbro, mentre fissava l'ambiente intorno a sé.
«Sei in ansia? Hai paura?» gli chiesi. Per un attimo sperai che rispondesse affermativamente, così avrei avuto la scusa perfetta per trascinarlo via da lì.
Tuttavia lui scosse il capo in segno di diniego. «Sono tranquillo» affermò.
«Okay.»
Almeno lui lo è.
«Se c'è qualcosa che non ti piace o che ti infastidisce basta che me lo dici e ce ne andiamo» ripresi a parlare. «Non devi preoccuparti di nulla. Non sei obbligato a venirci, se non vuoi.»
«No, sto bene.»
«Okay.»
Ci fu qualche altro minuto di attesa, poi il dottor Nuzzo congedò il suo ultimo paziente per far entrare noi. «Prego, venite» ci disse, sorridendo.
Andrea entrò subito nello studio, mentre io titubai.
«Dottore, posso parlarle un secondo?» gli chiesi, restando ancora fuori dalla stanza.
«Certo» fece lui, uscendo e chiudendosi la porta alle spalle. «Donato, ascolta: so che per te non è stato...»
«Mi ascolti lei, per favore» lo interruppi. «Sarò breve, lo giuro.» Lui serrò le labbra e io continuai: «Non sono qui per parlare ancora di me e di quello che lei e mio padre mi avete fatto, ma ci tengo a dirle che nessuno dei miei fratelli – nessuno – sa delle sedute a cui mi sono sottoposto. Nessuno sa nemmeno... di me. Perciò le pregherei di non farne parola.»
«Immaginavo che non gliel'avessi detto. Mi sembrava strano, infatti, che avessi chiamato proprio me per Andrea. Che tu non abbia detto loro del tuo orientamento sessuale mi fa solo pensare, invece, che forse tanto torto non avevamo, io e tuo padre.»
In un attimo, il sangue mi affluì alle guance e mi sentii esplodere dentro. Sul serio aveva osato dire una cosa del genere?
«Spero che lei stia scherzando» ringhiai.
Giuro che mi mancava pochissimo per entrare in quello studio e trascinare Andrea via da lì. Non mi sarei nemmeno preoccupato di dover dare delle spiegazioni.
«Non per tutto quello che ho fatto posso chiedere scusa» disse lui.
«Nessuno le ha mai chiesto delle scuse» feci io. «Però ritengo che lei sia in debito con me, ma di parecchio, anche. Perciò ho pensato che potrebbe fare queste sedute con Andrea gratis.»
«Gratis?» sbottò lui, sbiancando. Era una cosa a cui avevo pensato nelle ore che avevo trascorso nell'attesa dell'appuntamento. In fondo non avevamo poi tanti soldi e Andrea aveva davvero bisogno di risolvere i suoi problemi. La febbre, infatti, andava e veniva e i medicinali non servivano mai a nulla.
«Sì, gratis.»
«Non ho intenzione di lavorare gratis.»
«Allora ce ne andiamo» decisi, prima di muovermi con l'intenzione di entrare nella stanza, ma lui mi fermò.
«Aspetta» disse e sospirò. «Ricominciamo. Non volevo dire quello che ho detto e mi dispiace. Il fatto è che al tuo modo aggressivo di porti ho risposto aggressivamente e non avrei dovuto. Non volevo dire che è giusto quello che abbiamo fatto, ma solo che all'epoca pensavo che non fosse poi così sbagliato e, soprattutto, tuo padre era molto convincente...»
«Questo me l'ha già detto» lo rimbeccai. «Vada avanti.»
«Voglio davvero scusarmi, ma di certo non posso lavorare gratis» mi fece notare. «Ti offro cinque sedute "di prova". Se dopo quelle tuo fratello vorrà tornare da me dovrai pagarmi. Affare fatto?»
Non volevo dare nemmeno un centesimo a quell'uomo ed ero andato lì con la sicurezza che avrebbe accettato la mia offerta, pur di non finire nei guai. Ma era evidente che mi conosceva bene da sapere che non avrei detto nulla sulle nostre sedute e sapeva come rivoltarla a suo favore.
Cinque sedute gratuite mi sembravano più che ragionevoli e, se ad Andrea fosse piaciuto, avrei trovato il modo di pagarlo. Come non lo sapevo ancora, ma ce l'avrei fatta.
«D'accordo, però mi ascolti: Andrea è un ragazzino particolare, molto introverso e taciturno. Non so cosa le abbiano detto i miei fratelli, ma siamo davvero in difficoltà con lui. Sta male spesso e il suo corpo credo stia reagendo allo stress emotivo. Non voglio sapere cosa gli passa per la testa, ma solo che si sfoghi e che capisca come far passare questo momento. Glielo chiedo per favore: lo tratti bene.»
«Certo» rispose lui, «sarò cauto con lui.»
«Posso entrare?»
«Non è consigliabile. Aspetta qui.»
Respirai a fondo, felice di essermi sfogato e di essere riuscito a dire tutto ciò che sentivo. «D'accordo» dissi. Non sarei entrato comunque, ma volevo fargli credere che quella stanza, quel divano, non mi facesse nessun effetto. «Aspetto qui fuori.»
«Va bene, a dopo» e poi mi lasciò solo.
***
Quando la seduta finì, il dottor Nuzzo volle parlarmi da solo. Stavolta, però, fece uscire Andrea ed entrare me nella stanza. Cercai con tutte le forze di non guardarmi intorno e velocemente mi andai a sedere sulla sedia di fronte la sua scrivania; lui si accomodò dall'altra parte.
«Allora?» chiesi, in ansia. Durante tutto il tempo che ero stato costretto a stare lì fuori avevo aspettato camminando in lungo e in largo senza riuscire a calmarmi.
«Allora...» sospirò lui. «Andrea è davvero particolare come dici. Credo che sia diverso da tutti voi fratelli. Conosco bene solo te, tuo padre mi ha parlato di Corrado e di Simone, ma lui mi ha fatto un quadro molto completo degli altri.»
«Lui chi?»
«Andrea. Infatti, ha parlato perlopiù di voi, quasi mai di sé.»
«Ed è positiva come cosa?»
«No, per niente. Svia il discorso su di voi per non mettersi troppo in mostra ed essere vulnerabile. Lui sa tantissimo degli altri, ma di se stesso quasi nulla. Di solito, quando chiedo ai miei pazienti di parlare di loro stessi, lo fanno sul serio. A volte cercano anche di sembrare interessanti ai miei occhi, inventando cose che non hanno mai fatto o esagerando delle piccolezze. Tuo fratello, invece, mi ha detto solo che scuola frequenta e quanti anni ha, tutto il resto sono stati aneddoti su di voi.»
Per quanto fosse triste quello che mi stava dicendo il dottor Nuzzo, avrei tanto voluto chiedergli cosa aveva detto su di me. Avrei voluto sapere se mi stavo comportando bene, se ero un buon fratello maggiore; ma, siccome avevamo dovuto ricorrere allo psicologo, alla fine mi risposi da solo: no, non lo ero.
«Capisco...» mormorai. «Magari potrei parlarci e capire io qualcosa in più su di lui.»
«Vedi, Donato, è proprio questo il problema: Andrea, anche se non lo dice e nemmeno l'ha detto a me a parole, si sente soffocato da voi e a disagio.»
«A disagio?» ripetei, sconvolto. Com'era possibile che si sentisse a disagio con noi, i suoi fratelli?
«Sì, a disagio. È chiaro che non si sente tranquillo a vivere con voi e non proprio a suo agio come dovrebbe esserlo in casa sua.»
«Capisco» mormorai, ma in realtà non lo stavo più ascoltando, ancora perplesso da ciò che mi aveva detto.
«... allora ci vediamo la settimana prossima?» Il suo alzarsi interruppe i miei pensieri, così seguii i suoi movimenti. Allungò una mano e io gliela strinsi in fretta. «Alla prossima settimana» disse.
«Arrivederci» salutai.
In macchina, chiesi ad Andrea come gli era sembrato il dottor Nuzzo e lui mi disse che gli era piaciuto e che non gli sarebbe dispiaciuto tornarci. Ero molto triste grazie alle parole dello psicologo e decisi che, anche se avrebbe fatto soffrire me, avrei preso la decisione giusta per far vivere Andrea in tranquillità.
Buon giovedì e buon Santo Stefano! Spero abbiate passato un buon Natale! Fatemi sapere se il capitolo vi è piaciuto.
Al prossimo giovedì,
Mary <3
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