Di nuovo insieme
Alle tre del pomeriggio il supermercato non era molto affollato ed era soprattutto per quello che amavo andarci: i miei fratelli avrebbero potuto scorrazzare senza fare troppi danni. Tuttavia, cercavo sempre di tenerli a bada, in fondo non mi andava dover chiedere scusa ai commessi o alle persone a cui avrebbero potuto dar fastidio. Nonostante il dover dire loro di non staccarsi da me, però, ero insolitamente tranquillo.
Avevo permesso ad Andrea di spingere il carrello ed era buffo perché ci arrivava a stento; Martina mi teneva forte la mano e Daniele mi camminava di fianco, stringendomi di tanto in tanto i jeans, soprattutto quando voleva richiamare la mia attenzione. Il resto della ciurma era a casa, a sistemare il casino rimasto dal trasloco.
Ci eravamo trasferiti di nuovo tutti insieme da quasi un anno, ma qualche pacco era ancora in giro e tutto doveva essere lindo e pulito, siccome gli assistenti sociali sarebbero venuti a trovarci il mese successivo. Mi ritenevo soddisfatto di essere riuscito a rimettere i miei fratelli sotto lo stesso tetto, ma era ancora molto difficile tenerli a bada e pensavo che non ce l'avrei fatta; per fortuna, però, in quei primi mesi non era successo nulla di grave e bene o male andavamo avanti senza grossi problemi.
Il lavoro alla scuola di danza non fruttava come mi aspettavo ed ero sempre alla ricerca di un modo per risparmiare, o le bollette non avrei potuto pagarle. L'eredità dei miei genitori era servita principalmente per sanare i debiti con la banca e altri affari che mio padre pensava di chiudere prima di andare in pensione, e invece...
Sospirai, provando a scacciar via la sua immagine dalla mia mente, e presi qualche confezione in più di carta igienica.
«Ops...» sussurrò Andrea e solo in quel momento mi voltai per capire cos'era successo. Il carrello gli era scappato di mano e aveva colpito la gamba di un uomo che era impegnato a prendere chissà che sullo scaffale in alto.
Di fretta mi avvicinai a lui e gli dissi: «Mi scusi, lui non l'ha...»
Ma quando lui incrociò i miei occhi ogni parola scese lungo la gola e lì si incastrò. Erano passati precisamente undici anni dall'ultima volta che lo avevo visto, ma era incredibile come fosse rimasto lo stesso identico, inquietante uomo.
Sperai che lui, al contrario, non mi riconoscesse, ma invece, focalizzando meglio lo sguardo, capì chi ero.
«Donato?» chiese. «Donato Leonardi? Sei tu?»
Annuii, ma non riuscii a mantenere il contatto visivo, e staccai gli occhi dai suoi. «Dottore...» mormorai.
«Come stai?» fece, prima di mettermi una mano sul braccio e stringerlo. «Ho saputo dei vostri genitori... Che tragedia. Adesso come state?»
Il dottor Nuzzo strinse ancora di più la presa sul mio braccio e io dovetti frenare la voglia di picchiarlo, lì, in quel momento. La rabbia mi ribolliva dentro per ciò che aveva detto, per come lo aveva detto e per il fatto che non la smettesse di toccarmi.
«Non mi tocchi» ringhiai.
«Come?»
«Le ho detto di togliermi le mani di dosso.»
Fui più chiaro, stavolta, e scandii meglio ogni parola. Lui, allora, staccò subito la mano da me ed essa restò ancora per qualche attimo aperta e in alto; poi la abbassò lungo un fianco. Dalla sua espressione percepii che non si aspettava quella reazione da me, ma mi fu chiaro anche l'imbarazzo che provava: sapeva bene perché ero così arrabbiato con lui.
«Donato, ascolta...» provò a dire, ma lo fermai.
«Non ascolto proprio nulla» dissi. «Lei ha dato retta a mio padre e l'ha assecondato nella sua assurda idea di guarirmi. Non sono malato e non lo sono mai stato, semmai i malati eravate voi due e...»
«Senti, io...»
«Un ca... volo di libro mi ha dato, dottore, se lo ricorda?» Mi avvicinai di più al suo volto per poter abbassare la voce e non far sentire ai miei fratelli di cosa stavamo parlando. «Un libro per guarire dalla mia malattia perché altrimenti sarei andato all'inferno. Se lo ricorda cosa mi ha detto?» Lui scosse la testa, ma la abbassò, in imbarazzo. Era chiaro che invece ricordava benissimo, ma continuai comunque: «Me lo ricordo io. Mi disse che non era normale, che se non la smettevo di fare certi pensieri sugli uomini avrei trascorso una vita infelice, che mi sarei ammalato e che poi non ci sarebbe più stato nulla da fare per la mia anima. Io spero proprio che la sua anima, invece, sia pulita, ma considerando ciò che mi ha fatto, non credo proprio.»
«Tuo padre era un uomo molto persuasivo» provò a giustificarsi lui, mentre si allentava la cravatta.
Che merda di uomo era il dottor Nuzzo, e avrei tanto voluto dirglielo in faccia, ma lasciai perdere: in fondo, doveva essere uno psicologo pieno di insicurezze, se aveva ceduto all'assurda idea di mio padre. Perché sì, colui che avrebbe dovuto supportare e capire suo figlio invece pensava che fossi malato e che sarei potuto guarire con qualche seduta di psicoterapia, tenendomi lontano da Mirko e facendomi leggere libri su quanto fosse sbagliato amare un altro uomo. Nessuno dei due meritava di essere perdonato per ciò che mi avevano fatto, ma uno dei due avrebbe dovuto avere almeno un'etica o una morale e invece era solo un burattino idiota.
«Certo, lo era» gli diedi ragione. «Lei però poteva anche rifiutarsi, o almeno provarci.»
«L'ho fatto...»
«Come no, immagino» lo interruppi, abbozzando una risata sarcastica.
«Ascolta, lo so che sei molto arrabbiato e ti capisco, ma ti giuro che ogni volta che penso a quelle sedute, mie e tue, io... beh, io ci sto male.»
Lui ci stava male. Lui. Ridicolo.
«Io invece quando ci penso ci sto benissimo» ironizzai. «Così bene che non dormo la notte o ho gli incubi.»
«Donato...»
«Basta, la smetta.» Feci finta di controllare cosa stava facendo Daniele e strinsi la mano di Andrea, bisbigliandogli qualcosa sul fatto che di lì a poco ci saremmo mossi. «Ringrazi Dio che ora che posso farlo non la denuncio alle autorità competenti» affermai, prima di guardarlo finalmente negli occhi. «Non si avvicini più a me, né alla mia famiglia.»
Poi, senza dargli il tempo di replicare, spinsi io il carrello e proseguimmo nella spesa. Quando fui distante da lui di qualche metro, respirai a fondo o, anzi, ritornai di nuovo a respirare. Non so da quanto tempo era che immaginavo di avercelo di fronte e di dirgli tutto ciò che pensavo di lui e di cosa mi aveva fatto, ma nei miei sogni era molto più appagante. Invece, in quel momento non mi sentii per niente bene, ma anzi il cuore mi batteva forte nel petto e avrei tanto voluto fermarmi e piangere.
Nella mente mi ritornarono le immagini delle sedute, della paura e del dolore che avevo provato a stare lì, immobile, a sentirmi dire le peggiori cose, ad autopunirmi per il fatto che ero diverso, che non provavo attrazione per le donne, come invece succedeva ai miei compagni di scuola o ai miei fratelli; a sentirmi in colpa perché non riuscivo a farmi volere bene da mio padre.
«Donato?» mi richiamò Andrea.
Sbattei le palpebre e mi accorsi di essermi appoggiato a uno scaffale di scatolame e che tutti e tre mi avevano accerchiato. I loro visini preoccupati mi fecero sentire solo peggio perché non volevo che fossero in ansia per me; così sorrisi loro e mormorai: «Stavo cercando di ricordarmi che altro dobbiamo comprare.»
«Patate!» esclamò Daniele.
«Sì, le patate» affermai, poi li condussi nel reparto ortofrutticolo.
Provai davvero a concentrarmi sulla spesa e su ciò che avremmo dovuto comprare, e per aiutarmi a non pensare più a quell'incontro, decisi che mi sarei concesso un'uscita in settimana, quella sera stessa. Mi sarei avvolto nelle braccia di Mirko, avrei inspirato il suo odore sempre così buono e gli avrei confessato tutte le mie paure. Sarebbe andata bene, poi; tutto sarebbe tornato a posto. O almeno, era quello che speravo.
***
«No!»
«Sì!»
«No!»
«Sì!»
«No!»
«Corrado...» mi lamentai, bloccando quel botta e risposta tra lui e Francesco. Capivo benissimo che Corrado avesse ragione e che era importante che Francesco mangiasse le verdure, ma mi stavano facendo venire il mal di testa, a furia di passarsi e ripassarsi quel povero piatto di spinaci.
«Deve mangiarli» mi rispose Corrado, facendo scorrere il piatto di nuovo nella direzione di Francesco.
«Non li voglio!» gridò Francesco.
«E invece li mangi.»
«E invece no.»
«Basta!» esplosi io. Di fianco a me Simone sobbalzò, così come tutti gli altri, ma almeno era calato il silenzio nella stanza. «Francesco, se non mangi gli spinaci, domenica niente cornetto per te. Decidi.» Nemmeno a dirlo, la scelta fu più che ovvia e cominciò finalmente a mangiare quei benedetti spinaci. Rivolsi poi uno sguardo d'ammonimento a Corrado, seguito da un: «Calma» mormorato.
Le intenzioni di Corrado, da quando aveva preso la tutela di Francesco, erano le più nobili che potessero esistere, ma erano i metodi che non mi piacevano e che gli contestavo. Francesco aveva la testa dura e soprattutto odiava le imposizioni; di certo io l'avevo minacciato affinché mangiasse gli spinaci, ma dirgli solo di farlo perché era giusto così non avrebbe sortito alcun effetto. Dovevamo tutti imparare a convivere, a conoscerci di nuovo, ma soprattutto per me, Simone e Corrado era arrivato il momento di capire come comportarci con i nostri fratelli minori.
Con Andrea era facile: era un ragazzino tranquillo e ti ascoltava già dalla prima volta che gli parlavi. Più o meno la stessa cosa si poteva dire con Martina, anche se di rado si faceva trascinare dalla testardaggine che aveva ereditato da nostro padre; ma il vero problema erano Daniele e Francesco, soprattutto quando univano le loro testoline. Di solito, ne veniva fuori una catastrofe.
«A chi tocca lavare i piatti?» chiese Simone.
«A Donato» rispose Giovanni, scoccandomi un ghigno soddisfatto.
«Assolutamente no» replicai, mentre mi alzavo da tavola. «Tocca a te, caro.»
«No, no» fece lui, muovendo l'indice a destra e a sinistra per sottolineare il concetto. «Io li ho fatti l'altro ieri e poi adesso devo uscire.»
«Anch'io e siccome non lo faccio quasi mai, adesso li fai tu.»
«Li faccio io?» si intromise Martina, con la sua piccola e delicata voce. L'aveva detto con metà forchetta in bocca e con un'insicurezza tale che mi fu impossibile non sorriderle e farle una carezza.
«No, non preoccuparti» le dissi, «adesso li fa Giovanni.»
«No che non li faccio» s'impuntò lui. «Ti ricordo che io sono più che maggiorenne e non sono obbligato a starti a sentire, né a seguire i tuoi ordini.»
A quel punto appoggiai entrambi i palmi delle mani sul tavolo e mi protesi in avanti per avvicinarmi a lui, che nel frattempo si era alzato a sua volta. Proprio non mi andava di litigare con Giovanni, ma se mi si rivolgeva in quel modo, di certo non potevo lasciar correre. Inoltre, se avevo detto che il problema più grande di casa Leonardi erano Francesco e Daniele, posso dire che l'avevo fatto perché, per un attimo, avevo dimenticato il periodo di ribellione adolescenziale che in ritardo stava passando Giovanni. Più volte gli avevo chiesto una mano in casa o gli avevo fatto capire che avremmo dovuto tutti collaborare, invece di fare la guerra; ma lui era ogni giorno sempre più nervoso e irascibile e sinceramente non ne capivo il motivo. Corrado diceva che non dovevamo preoccuparcene e che prima o poi gli sarebbe passata, io ero convinto che qualcosa fosse successo, se da qualche tempo non era più il Giovanni spensierato e giocherellone che ricordavo.
«E io ti ricordo che se ti levo le chiavi della macchina, col cavolo che esci» gli dissi.
«Non puoi» fece, sicuro, anche se un po' gli tremava la voce.
«Oh, certo che posso. Chi la paga l'assicurazione della macchina e la benzina?» Lui non rispose, sapendo che avevo ragione, e io continuai: «Ecco, appunto. Lava i piatti e poi forse puoi uscire.»
Stizzito, Giovanni levò il piatto davanti a Martina e cominciò a sparecchiare, incurante del fatto che non tutti avessero finito di mangiare. Ignorai i suoi borbottii e le sue maniere poco carine e mi andai a preparare: niente e nessuno avrebbe potuto rovinare la mia serata con Mirko.
Buon giovedì! Primo capitolo pubblicato. Spero vi sia piaciuto! Nemmeno abbiamo iniziato e già ci sono problemi! Voi che ne pensate?
Al prossimo giovedì,
Mary <3
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