4.
Haylee Darling uscì svogliatamente dalla doccia: iniziava a fare davvero freddo e l'ultima cosa che voleva era lasciare l'acqua calda per andare incontro al vento e all'umidità di quella giornata autunnale.
"Merda!" Borbottò infastidita, quando si rese conto che si era dimenticata l'accappatoio. Nella sua vecchia casa lo teneva appeso dietro la porta; adesso che stava da Daphne, gli accappatoi li tenevano nelle rispettive camere da letto e non ne sapeva nemmeno il perché.
Si guardò attorno alla ricerca di qualcosa per coprirsi il corpo nudo e l'unica cosa che trovò fu un piccolissimo asciugamano quadrato, con il quale riuscì a malapena a coprirsi le parti intime per poter sgattaiolare fuori dal bagno alla volta della sua camera da letto.
"Daphne?" Chiamò, nella vana speranza di trovarla ancora a casa così da non dover rischiare di prendersi un malanno.
Niente.
"Daphne?" Tentò un'ultima volta.
Haylee si ravvivò nervosamente i capelli bagnati sulle spalle e poi uscì, nervosa.
Aaron Wells toccò la porta d'ingresso con la nocca della mano destra.
"Wash?" Sei qua?" Domandò al silenzio, addentrandosi in casa di Daphne come si farebbe in una casa degli orrori.
Noah gli aveva detto di incontrarsi a casa sua e non lo aveva trovato. Così, si era svogliatamente trascinato al piano di sopra dell'enorme palazzina alla ricerca del suo amico, sperando con tutto sé stesso di non incontrare Daphne.
Erano ormai anni che non si vedevano e anche se sperava che tra di loro le cose si fossero appianate, in cuor suo era certo che ci fosse ancora un profondo rancore.
L'aprirsi e il richiudersi di una porta attirò la sua attenzione e strabuzzò gli occhi quando questi incrociarono un corpo nudo: riuscì a distinguere le forme delicate dei fianchi e la curva piena del seno, coperta da un paio di ciocche di capelli scurissimi.
Haylee cacciò un urlo, cercando la prima cosa che aveva davanti per coprirsi che si rivelò essere un vaso colmo di fiori che le solleticarono il naso fino a farla starnutire un paio di volte.
"Tu sei Haylee, no?"
"Perché tutti sapete il mio nome e io non so mai chi cavolo siete?! Chi sei?! Come sei entrato!?"
"Sono Aaron... un amico di Noah." Rispose, portandosi una mano a coprire gli occhi.
Haylee inarcò un sopracciglio: quell'Aaron? Beh, ora che lo stava mettendo a fuoco, era sicuramente quell'Aaron... del resto, lo aveva visto in fotografia una o due volte.
Indossava un... curioso abbinamento di colori: Haylee non aveva mai visto un completo di un marrone così... ecco... così. Per non parlare della camicia color canarino... così.
Haylee abbandonò il discorso vestiti quando si rese conto che era ancora nuda e che quel tedioso personaggio non se n'era ancora andato.
"Dimmi, Aaron: avete frequentato la stessa scuola, vero?"
Aaron le rivolse un'occhiata confusa.
"Tu e Noah."
"Legge, alla... Columbia?"
Haylee tese la mascella. "E nessuno vi ha insegnato a bussare, vero?!"
"Tecnicamente, quello non lo insegnano a scuola..."
"Come sei entrato?!" Domandò frustrata Haylee, che nel frattempo iniziò a tremare dal freddo.
"La porta era aperta..."
"Ohhhh!" Esclamò irata, "non si ricorda mai di chiudere la maledetta porta!"
"Quindi non c'è nessuno, giusto?"
"Ci sono solo io. Nuda."
"Questo lo vedo. O meglio: lo vedevo, ora ho gli occhi coperti."
Haylee lasciò uscire dalle sue labbra delicate una serie interminabile di imprecazioni di vario genere, lunghezza e intonazione. Quando si ritenne soddisfatta, tacque.
Aaron iniziò ad indietreggiare verso la porta, sempre con gli occhi coperti dalla mano destra. "Bene, va bene."
"Grazie!"
"È stato un piacere, comunque!"
Haylee gli lanciò dietro qualcosa di non bene identificato quando il giovane si richiuse la porta d'ingresso alle spalle e Aaron si disse che un po' se l'era cercata. Così, quella era la famosa Haylee Darling.
*
Tre anni e mezzo prima
Il sole rifletteva i suoi raggi dorati sulle vetrate opache della Columbia University, creando giochi di luce che si diramavano come petali lungo i mattoncini lisci color borgogna che indicavano l'area percorribile a piedi per raggiungere le varie sezioni del campus.
Noah Washington aveva percorso spesso quei mattoncini lisci da ubriaco, ci era forse caduto sopra in ginocchio in una delle sue serate migliori e ci aveva rovesciato grosse gocce di caffè come se piovesse almeno ogni giorno quando correva per arrivare puntuale a lezione.
Quello sarebbe stato il suo ultimo pomeriggio alla Columbia prima di salutarla. Non gli dispiaceva poi così tanto, ad essere onesto. Non si sentiva come quando, alla fine di una serie tv, i protagonisti sfiorano le colonne portanti dei loro appartamenti che stanno evidentemente lasciando assieme ad una parte della loro vita e dei loro ricordi. Noah Washington stava, di fatto, lasciandosi alle spalle una parte della sua vita, ma solo per cominciarne una analoga in un'altra università, per la specializzazione: il nulla osta per Harvard, così come la sua camera e i suoi effetti personali, erano già tutti lì.
Mancava solo lui.
Lui che se ne stava fermo, con le mani in tasca a guardare, ironicamente, le colonne portanti in stile ionico del pesante edificio che si ergeva maestoso al centro dell'enorme campus. Cercò invano di ricordarsi che cosa avesse provato la prima volta lì.
Alla fine, sistemandosi i Ray-Ban neri sul naso, si disse che non poteva importargliene di meno e che il momento di nostalgia era giunto al termine.
I suoi occhi scivolarono – e per tre anni e mezzo avrebbe rimpianto di aver guardato in quella direzione – su una ragazza coi capelli neri che, con una borsa a tracolla penzolante sulla spalla destra, stava evidentemente raggiungendo qualcuno in direzione della fontana.
Noah lo dedusse dal modo rapido in cui camminava, da come le sue gambe magre e il suo sedere sodo – stretto in un paio di jeans spaventosamente aderenti – ondeggiava rapidamente. A sfiorarle quel sedere, poi, c'erano quella cascata di capelli neri come la notte, lisci come la seta... anch'essi ondeggianti lungo la sua schiena e a incorniciarle il viso piccolo.
Quella era, fino a prova contraria, la creatura più bella che avesse mai visto. La guardò appuntarsi una ciocca di capelli dietro l'orecchio; gesto che gli concesse, finalmente, di percorrere il disegno del naso a patatina e delle labbra, carnose e a cuoricino.
Noah non si rese conto di essersi istintivamente allungato verso finché non inciampò in un paio di persone sbucate dal nulla, che gli imprecarono contro in una lingua che non conosceva e di cui non poteva importargliene di meno.
"Oh, che fai fermo qua? Andiamo?"
Noah imprecò – quella volta nella sua lingua – e si voltò svogliatamente verso la nota voce di Aaron. Lo guardò per un secondo per poi tornare a incatenare gli occhi alla ragazza che stava parlando... con Daphne.
Noah sorrise tra sé è sé: avrebbe concluso il suo ultimo giorno alla Columbia in bellezza.
"Sto andando da Daphne." Farfugliò, mettendo assieme le prime cose che gli vennero in mente giusto per levarselo di torno.
Aaron lo afferrò per il braccio, trattenendolo. "No, dai!"
Noah gli rivolse la sua migliore occhiata: un misto tra la furia omicida e il 'non mi toccare o ti tiro un pugno' che per fortuna non riuscì a vedere da dietro i suoi occhiali da sole.
"Che cosa c'è?" Sibilò, con la voce scura.
Noah non voleva essere interrotto, quando andava a caccia. Specialmente a caccia di una ragazza... così. Cazzo, quanto era bella.
Adesso stava sorridendo a Daphne: era una risata pura, dolce, che illuminava il suo profilo meglio del sole che le stava delicatamente accarezzando i capelli.
"Lo sai che io e Daphne ci siamo lasciati male!" Esclamò, stringendogli maggiormente il bicipite duro.
"Ma a me che mi frega?" Domandò, liberandosi dalla sua presa "mica stava con me!" Esclamò, sporgendosi ancora verso le due: lei se ne stava per andare.
"Dai, Wash! Non dovevamo andare a farci l'ultima birra prima dell'addio?"
Noah scosse piano la testa: si rilassò, dando quindi il permesso ad Aaron di lasciare la presa per fargli capire che, purtroppo, non sarebbe scappato.
"Cazzo! Sta venendo qua!" Disse.
Senza dare il tempo a Noah di rispondere, Aaron se l'era già data a gambe levate per sparire chissà dove.
"Che cacasotto." Fu la prima cosa che disse Daphne quando approcciò Noah, riferendosi al comportamento ridicolo di Aaron.
Il giovane la squadrò dalla testa ai piedi alla ricerca di indizi: teneva tra le mani un quaderno con sopra un cane vestito. Noah fece una smorfia perplessa di fronte a quel cane, poi decise di lasciar perdere.
"Non ti dirò come si chiama." Fu la prima cosa che disse.
Del resto, Daphne e Noah erano cresciuti assieme: sapevano esattamente cosa stessero pensando senza dire nemmeno una parola. Quando i loro genitori li iscrissero a scuola privata assieme, non facevano altro se non dare fastidio alle maestre. Il ricordo più bello che condividevano era, sicuramente 'la strage della rana'. In breve: rubarono una rana dal laboratorio di chimica per metterla borsa della signorina Mulligan.
Daphne sorrise al ricordo: ah, bei tempi.
"Non voglio saperlo, infatti."
"Ah no? Pensi che non ti abbia visto piazzato qua come un... uccello rapace? Sei veramente disgustoso."
In un gesto estremamente maturo – Daphne pensò anche disperato – Noah le rubò il quaderno dalle mani per aprirlo e cercare il nome della ragazza.
"Haylee Darling." Disse, ad alta voce.
Daphne gli strappò il quaderno dalla mano e se lo infilò in borsa. "Beh! Allora? È una brava ragazza!"
Noah la guardò, confuso. "Ok?"
Daphne gli tolse gli occhiali dal viso, tanto che Noah fu costretto a strizzare un paio di volte gli occhi azzurri per abituarsi all'improvviso lampo di luce. Poi, come una mamma apprensiva, si mise entrambe le mani sui fianchi.
"Cosa fai ora, le scrivi su Facebook?"
Noah gonfiò le guance, scocciato.
Il giovane uomo parlò imitando il tono aggressivo di Daphne e facendo la voce grossa. "Le scrivo su Facebook..." disse, "non le scrivo su Facebook! Mica sono un cazzo di pervertito."
Daphne incrociò le braccia al petto, limitandosi invece a rivolgergli un'occhiata sprezzante.
"E poi, il mio charme funziona meglio in... presenza."
"Il tuo charme."
"Esatto."
Daphne lo spintonò per la spalla. "Non hai charm, hai un biscotto che vuoi infilare in tutte le tazze che ti girano attorno!"
"Nella tua non voglio infilarlo."
I due si guardarono, fecero una smorfia disgustata e poi scoppiarono a ridere.
"Me la presenti?"
"Non la conosco nemmeno io," spiegò, "è stata solo così gentile da prestarmi i suoi appunti."
"Conoscila, e poi me la presenti."
*
L'ufficio del padre di Noah era antico. Era antico l'orologio a pendolo, erano antichi i tappeti ma soprattutto: erano antichi gli uccelli impagliati che sbucavano da ogni angolo
Antico era anche, secondo Noah, il modo di pensare di suo padre, che era rimasto con la mente bloccata a dieci anni prima.
Noah ebbe la malsana idea di farglielo notare e stavano discutendo da allora. Non sapeva nemmeno quanto tempo fosse passato, da quando avevano iniziato quel battibecco interminabile.
Christopher Washington aveva gli occhi azzurri come quelli di suo figlio e i suoi capelli, un tempo biondi, erano adesso brizzolati e pettinati all'indietro sul viso marcato dagli anni.
"Sono vent'anni che faccio così, Noah." Stava ripetendo per l'ennesima volta.
"E cosa c'entra? Se una cosa è andata bene per vent'anni non significa che vada bene ora, papà!" Rispose secco, puntando gli occhi seri in quelli altrettanto seri – e vagamente divertiti – di suo padre.
"Insomma: sei venuto qua, dopo i tuoi tre anni di specializzazione, per dirmi come fare il mio lavoro."
Noah si scompigliò i capelli già abbastanza disordinati e buttò gli occhi al cielo, incrociando lo sguardo di ghiaccio di un maledetto uccello impagliato.
"Non ho detto questo! Cosa c'entra?"
"C'entra, Noah! Pensi che non me ne sono accorto che fai tutto sbuffando e sospirando?"
Noah rimase in silenzio per una manciata di secondi. Guardò suo padre, che da sempre era il suo punto di riferimento e tutto ciò che sarebbe voluto diventare nella vita e poi guardò l'uccello impagliato sulla sua scrivania, facendo una smorfia.
"Pensavo semplicemente che avrei fatto qualcosa di più. Tutto qua."
"Ti aspettavi di essere trattato diversamente perché sei mio figlio, Noah." Rispose, in un tono che voleva evidenziare l'ovvietà dell'affermazione.
"Non è questo, Aaron..."
Noah si interruppe: Aaron! Avrebbe dovuto incontrarsi con Aaron prima del lavoro... se n'era dimenticato.
"Aaron è qui da un anno in più rispetto a te. In un anno le cose cambiano e tu sei qui da dieci giorni. Cosa pensavi di fare dopo dieci giorni? Rivoluzionare il sistema penitenziario della Contea di New York?"
Noah sbuffò: ma che parlava a fare?
"Che ti aspettavi di fare?"
"Non di copiare deposizioni al computer?" Disse, facendo un paio di passi verso suo padre, "né tantomeno di fare fotocopie... e portarti il caffè."
Christopher si spinse all'indietro sulla sua poltrona color verde abete e rivolse a suo figlio un'occhiata neutra prima di alzarsi.
"Beh, a volte le cose richiedono più pazienza del necessario. Fattene una ragione. Voglio quelle deposizioni pronte per domattina sulla mia scrivania."
Christopher lasciò il suo ufficio e, non appena si richiuse la porta alle spalle, Noah si buttò sulla sua poltrona a peso morto. Osservò la piccola targhetta sull'altrettanto piccolo tavolino che suo padre aveva destinato al suo 'lavoro' e su cui stava scritto il suo nome, chiedendosi se prima o poi avrebbe avuto la stessa rilevanza di quello di suo padre. Ma forse aveva ragione lui: le cose richiedono più pazienza del necessario.
Aaron entrò in ufficio tutto trafelato e vagamente infastidito.
"Hai ragione man, me lo sono dimenticato." Gli disse subito Noah, non appena lo vide entrare.
"Lo so!"
Aaron si vestiva come un avvocato ultracentenario. Noah non sapeva se essere più disturbato dal completo marrone o dalla camicia color banana.
"Ho... conosciuto..." s'interruppe "beh, conosciuto non è proprio la parola esatta... comunque insomma: ho incontrato Haylee."
Gli occhi di Noah si illuminarono solo al sentir pronunciare il suo nome.
Nella sua testa, Aaron pensò che fosse un pochino patetico ma se lo tenne per sé. Non riusciva a comprendere come fosse possibile che Noah, che nella sua vita aveva avuto a che fare con un sacco di donne, fosse letteralmente ossessionato da una ragazza con la quale a malapena si era rivolto la parola.
Era probabile che sarebbe scemato tutto nel momento in cui fosse riuscito a portarsela a letto.
"Dove l'hai incontrata?" In tono apparentemente disinteressato anche se sapeva che non la dava a bere a nessuno.
"Era nuda."
Noah deglutì a vuoto. Subito dopo schiuse le labbra, perplesso. "Contesto?"
"Io sono entrato in casa, lei era nuda."
Noah non rispose nulla e Aaron lo prese come un invito a proseguire; oppure, pensandoci, forse era il contrario.
"Era un po' incazzata, in realtà... probabilmente perché era nuda e io non ho bussato."
Noah schioccò infastidito la lingua. "Eh, forse."
Fantastico: Aaron era riuscito a vederla nuda dopo mezzo secondo; lui, al contrario, le sbavava dietro da tre anni e non era riuscito nemmeno a scambiarci più di tre parole. Anzi, tutte le volte in cui andava a trovare Daphne, Haylee non c'era o se c'era non era lì.
L'unica occasione per fare conversazione l'avevano avuta qualche giorno prima, quando erano rimasti in ascensore assieme. In quell'occasione, lui aveva cercato lo spunto per un discorso senza trovarlo e si diede mentalmente dell'idiota: non sapeva perché, con lei, non riuscisse proprio a parlarci.
Alla fine, Haylee era uscita dall'ascensore salutandolo con un gesto della mano e lui aveva risposto con un cenno.
"Mi faccio un po' pena, sai?" Disse, alla fine del suo ragionamento e più rivolto a sé stesso che ad Aaron.
"Anche a me fai un po' pena."
"Grazie."
Aaron si sedette sul bordo della scrivania e rivolse al suo amico una lunga occhiata. "Dai, prima o poi riuscirai a chiederle almeno come sta."
"Spiritoso."
Aaron scoppiò a ridere. "Dai, andiamo a bere qualcosa dopo il lavoro?"
"Se per qualcosa intendi un litro di whiskey sì, andiamo a bere qualcosa." Rispose, tamburellando le dita sulla superficie in legno della scrivania.
Noah abbassò il naso in direzione delle scartoffie che aveva davanti, rivolgendo loro un'occhiata di puro odio: assurdo che dovesse fare un lavoro del genere. Lui che per lo stato di New York era già un avvocato fatto e finito!
La voce di Aaron interruppe il flusso dei suoi pensieri. "Sai che sei migliore di me, vero? Come avvocato, intendo..." Gli disse, come se sapesse già cosa stesse pensando.
"Non lo sono."
"Lo sei. Sai che ho ripiegato sul penalista perché ero sicuro che tuo padre mi avrebbe dato un lavoro, no? Tu invece l'hai scelto perché sei bravo."
Noah si morse l'interno della guancia. Gli occhi si posarono sulla pesante libreria, alta fino alla parete e sulla quale stava un altro piccolo uccello impagliato. Noah si chiese che razza di problemi avesse suo padre per considerare quelle mostruosità come pezzi di arredamento.
"Sai che vorrei?" Domandò, accennando un sorriso.
"Whiskey?"
Noah sorrise. "Quello. E un ufficio che non sia pieno di animali morti e impagliati."
Aaron scoppiò a ridere. "Sì: sappi che a quello non farai mai l'abitudine."
*
I bambini stavano facendo chiasso. Meglio ancora: i bambini stavano facendo molto chiasso. Ma ancora meglio: i bambini stavano facendo troppo chiasso. Era uno di quei giorni in cui tutti i bambini decidevano di piangere nello stesso momento, sporcarsi nello stesso momento e fare i capricci, nello stesso momento. Ma Haylee non poteva aiutare la sua collega Safiya perché era impegnata a parlare con una mamma che sembrava non capire – ma era più probabile che non le interessasse – che c'era fin troppo da fare quel giorno per parlare delle fotografie della recita.
"Le fotografie sono tutte uguali, signora Harrison."
"Non lo sono. La figlia di Millicent, Paula, è in quattro foto; mentre Russel, mio figlio, è in tre foto."
Era una donna alta, magra, col viso a punta: le ricordava la matrigna di Cenerentola.
Haylee si massaggiò le tempie nel vano tentativo di rimanere calma e ripetendosi che quella donna pagava le sue bollette e i suoi pasti. E anche molto profumatamente.
"Come le ho detto," ricominciò, con calma, "è probabile che alcune delle foto siano ancora da sviluppare, per questo non sono appese al muro assieme a quelle degli altri bambini."
Nel frattempo, una delle più piccole, Millie, era tra le sue braccia e aveva pensato bene di stringerle una ciocca di capelli tra le dita paffute per poi tirarla con forza.
"Ma è la mia collega è la responsabile delle fotografie e non può venire adesso." Le disse, facendole notare che stava cercando il pianto disperato di una bambina.
Haylee cercava sempre di mantenere un tono pacato quando parlava coi genitori perché l'ultima cosa che voleva era discutere. Specialmente con una mamma.
La donna si schiarì la gola, indecisa.
"Molto bene. Quindi mi garantisce che..."
Haylee la interruppe. "Avrà la foto mancante. Promesso." Sorrise, cercando di risultare cordiale e non passivo-aggressiva.
La donna si guardò attorno e si schiarì di nuovo la gola. Probabilmente stava pensando che non avrebbe mai voluto essere al posto di Haylee. Nemmeno Haylee, per inciso, voleva essere al posto di Haylee.
Non avrebbe mai pensato di finire a lavorare in un asilo nido. Quel lavoro era iniziato per pagarsi gli studi ed era finito con lei che aveva rilevato l'asilo per conto suo, sovraccaricandosi di una serie di responsabilità che, a ventotto anni, erano giusto un po' pesanti.
Haylee Darling era piuttosto dotata con la contabilità e aveva studiato hotellerie perché le piaceva imbandire la tavola, sistemare le posate, i centritavola... tutte cose che la gente reputava noiose e che a lei, al contrario, piacevano molto. Per quel motivo Daphne continuava a ronzarle attorno per convincerla a lavorare con lei.
"Bene. Buona giornata Haylee."
"Buona giornata a lei signora Harrison. Ciao Russel." Rispose, tirando un sospiro di sollievo quando finalmente lasciarono la classe.
"Sono distrutta!" Esclamò, rivolgendosi a Safiya.
"Non me ne parlare." Rispose, approfittando di quel breve attimo di pace per legarsi i capelli in una crocchia disordinata.
Quando finalmente l'ultimo bambino se ne fu andato, Haylee decise di godersi un momento di meritato silenzio sedendosi sull'enorme tappeto di gomma che riempiva la stanza dei giochi.
Il silenzio venne poco dopo riempito da un messaggio da parte di Steve: 'dobbiamo rimandare stasera. Dopo ti chiamo e ti spiego.' Haylee aprì il messaggio senza rispondere: come se volesse le spiegazioni di uno con cui andava a letto e occasionalmente a pranzo per non mangiare da sola.
Era triste, si disse: pur di non restare sola aveva riempito gli spazi vuoti con una persona vuota.
Il suo cellulare squillò e accennò un sorriso quando lesse il nome di Daphne.
"Ehi."
Daphne iniziò a parlare a raffica. "Ho bisogno di uscire. Usciamo? O devi uscire con l'idiota? Mi hanno annullato l'appuntamento dal dentista, e l'estetista non sarà disponibile fino a martedì. Martedì, Haylee: come faccio a stare senza unghie fatte fino a martedì?"
"Si chiama Steven." Si limitò a rispondere.
"È davvero l'unica cosa che hai sentito?" Domandò infuriata lei, tanto che Haylee dovette allontanare il telefono per non perforarsi il timpano
Haylee sbadigliò sonoramente. "Usciamo, ma niente di impegnativo."
"Perché non andiamo in quel bar dove siamo andate l'altra volta..." Propose lei, cercando di ricordarsi il nome che aveva sulla punta della lingua.
"Sì, sì, va bene..." Haylee sbadigliò ancora "così ti racconto del piacevole incontro che ho avuto con Aaron e con piacevole intendo affatto piacevole!"
A Daphne andò di traverso l'acqua che stava bevendo. Tossì un paio di volte, si diede un paio di pugni sullo sterno e finalmente si schiarì la gola prima di ricominciare a parlare.
"Daphne?"
Un altro colpo di tosse.
"Che cosa?!" Trillò, in un grido talmente acuto che fece voltare curiosi gli ultimi due bambini che stavano giocando coi pupazzetti a forma di animali. "Raccontami tutto!"
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