3.

Noah Washington entrò nell'appartamento di Daphne, vestito già di tutto punto per andare al suo primo giorno di lavoro. Si chiese come facesse la sua amica a non avere nemmeno un granello di polvere fuori posto. Casa sua sembrava sempre uscita da una rivista di arredamento. Quel giorno c'erano persino dei tulipani fucsia sul tavolino accanto all'ingresso e degli altri fiori di campo al centro dell'enorme tavolo in legno della cucina.

Daphne se ne stava seduta su quest'ultimo: teneva una tazza di caffè con su scritto 'I'm the best' – cosa che fece sorridere Noah – nella mano destra, e il cellulare nella sinistra.

Con i capelli raccolti in uno chignon e la schiena tesa e diritta, Daphne Greene sembrava una lady d'altri tempi, intenta a revisionare con cura ed eleganza, la lista degli impegni del giorno.

"Non ti ho dato una copia delle chiavi per entrare quando cazzo ti pare." Disse, in tono rigido e perdendo tutta l'eleganza della suddetta lady già menzionata.

"E buongiorno a Voi, Baronessa."

Daphne rispose senza sollevare gli occhi dall'iPhone. "Contessa, grazie."

Daphne stava controllando l'agenda della giornata: con ogni probabilità non avrebbe avuto nemmeno il tempo di fare pipì. Aveva chiesto ad Haylee un milione di volte di andare a lavorare per lei e glielo chiedeva periodicamente senza ottenere mai risposte positive.

Haylee non voleva lasciare i bambini. Daphne alzò gli occhi al cielo a quel pensiero: come se i bambini non l'avrebbero facilmente dimenticata. Ma quello Haylee non lo capiva perché, sempre secondo lei, quei moccolosi, avevano dei 'sentimenti'.

Daphne sospirò rassegnata: lei aveva bisogno di Haylee, non loro!

Alla fine, la biondissima Contessa sollevò finalmente lo sguardo in quello di Noah: indossava un completo monopetto grigio, cravatta grigia, camicia bianca e...

"Hai davvero messo un paio di sneakers bianche per andare a lavoro?" Chiese, inorridita.

Noah rimase impassibile di fronte al suo tono accusatorio. Si limitò invece ad una scrollata di spalle.

"Sono Lacoste." Disse, pensando che se avesse sottolineato il marchio, l'espressione di Daphne sarebbe passata dal disgustato all'apprezzante.

Non lo fece.

"Sei un avvocato." Continuò, lapidaria.

"Così dice la mia targhetta."

Ancora una volta, sua maestà Daphne Greene scosse la testa in un gesto di estrema rassegnazione: era inutile sprecare il suo prezioso fiato per una persona che evidentemente non sapeva cosa significasse la parola stile ed eleganza.

"Caffè?" Domandò Noah, interrompendo il flusso dei suoi pensieri.

"Me lo stai offrendo o lo stai cercando?"

"Secondo te?"

Daphne avrebbe voluto rispondergli il classico 'non rispondere alla mia domanda con un'altra domanda' ma decise di lasciar perdere.

"Ce n'è un po' nella macchinetta." Schioccò, indicando la sua costosissima macchinetta del caffè appena comprata che macinava alla perfezione i fragranti grani importati direttamente – forse un po' illegalmente, ma dettagli – da uno dei suoi dipendenti colombiani.

"Non me la rompere." Ringhiò, facendolo quasi sobbalzare.

"Dimmi: hai seguito un corso sulla simpatia mentre io ero ad Harvard?"

"Sì, ho anche l'attestato."

Noah la guardò, vagamente divertito. Le diede poi le spalle e si diresse alla macchinetta. Aprì un paio di sportelli a caso alla ricerca di una tazza che non fosse rosa o con sopra una scritta motivazionale. Rassegnato, decise di optare per una tazza che aveva il manico a forma di coda di unicorno, tutta colorata.

"Indovina chi lavora da mio padre."

"Tu?" Chiese lei, decidendo, rassegnata, di mettere via il cellulare una volta per tutte quando si rese conto che Noah era in vena di fare conversazione... cosa che accadeva di rado.

La sua amicizia con Noah era sempre andata a gonfie vele proprio perché adoravano passare insieme lunghi momenti in cui nessuno dei due diceva una parola, si facevano anzi scivolare la vita addosso ed era sempre andata bene ad entrambi.

Peccato che ormai non erano più né al liceo, né tantomeno al college e la suddetta vita continuava ad investirli, costringendoli dunque a scambiare più di tre parole consecutive.

"A parte me, Duff." Disse, poggiandosi contro il piano della cucina.

"Oh. Non saprei. Ally Mcbeal?"

"Aaron."

Daphne non si mosse dalla sua posizione e cercò di mantenere la sua espressione il più neutra possibile, per quanto quel nome avesse fatto sprofondare il suo cuore nello stomaco.

"Mi stai prendendo in giro," disse poi, dopo una lunga causa, "Aaron non è un avvocato penalista."

Noah si portò la tazza alle labbra, urtando la testa dell'unicorno – color arcobaleno – con la punta del naso.

"Lo è adesso, a quanto pare" allontanò con stizza la tazza, "chi cavolo si compra una tazza del genere?"

Daphne ignorò la seconda parte della domanda. "Ma è impossibile! L'ultima volta che l'ho sentito..." Daphne ci pensò su: era un bel po' che non lo sentiva; quindi, era possibile che le cose fossero per come le stava descrivendo Noah. "E perché diavolo lavora lì?"

"Perché..." Noah levò gli occhi dubbiosi in direzione dell'entrata della cucina quando udì un traffichio di rumori indistinti provenire dal piano di sopra "perché mio padre voleva una persona fidata. Ha questa cosa che non vuole... estranei. Poi, mio padre ha detto che è bravo."

Daphne prese ad agitare nervosamente le braccia lunghe e magre. "Ah! Bravo! Questa è bella. È bravo a... lasciare le persone."

Un altro paio di rumori non bene identificati lo distrassero prima che potesse riprendere a parlare.

"Non sei stata tu a lasciarlo?"

Daphne distolse lo sguardo, improvvisamente interessato alla punta delle sue unghie rotonde: aveva bisogno di una manicure, avrebbe dovuto chiamare per prendere un appuntamento...

"L'ho lasciato perché... aveva un'altra."

Noah aprì la bocca per rispondere ma si bloccò lì, con la bocca mezza aperta quando un tizio in mutande, entrò in cucina superandolo per dirigersi immediatamente verso la macchinetta del caffè.

Era un ragazzo piuttosto alto, castano, ben piazzato, con gli occhi piccoli e la faccia anonima.

Noah inarcò un sopracciglio e chiese silenziosamente spiegazioni a Daphne, la quale si limitò a rispondere stringendosi nelle spalle.

"Ehi Steve." Lo salutò la bionda, senza perdere tempo a guardarlo.

Detestava quel tizio: era ottuso e ignorante, non riusciva a capire perché Haylee avesse deciso di mettersi con lui. In realtà, sulla natura della relazione tra Haylee e Steven c'era da interrogarsi visto che a quanto ne sapeva lei, i due a malapena parlavano e passavano il tempo solo a fare sesso.

"Daphne."

Daphne guardò l'orologio. "Haylee dorme?"

"Si sta vestendo."

Steven si sedette accanto a Daphne, rendendosi conto solo in quel momento dell'imponente figura di Noah che, in giacca e cravatta e con addosso quel cappotto costoso, gli dava l'aria di un giocatore di borsa.

Lo salutò con un cenno del capo. Noah lo ignorò. Diede invece una seconda chance alla tazza con l'unicorno perché necessitava di una buona dose di caffeina per cominciare la giornata e in casa sua a malapena c'era un frigorifero.

Quell'appartamento lo usava quando andava al college e non aveva mai avuto bisogno di metterci altro oltre a un letto gigante, una tv e una doccia funzionante. L'unico acquisto che stava valutando di fare era quello di un divano e forse di una libreria. Quest'ultima necessaria a sistemare tutti i libri di legge che al momento erano impilati dentro un paio di scatoloni a prendere polvere.

"Non è che hai delle ciambelle, vero?" Chiese Steve, guardandosi attorno.

"Hai letto per caso visto un'insegna con su Dunkin' Donuts sulla mia porta a scrigno quando sei entrato in cucina, Steve?" Sibilò Daphne, in un sorriso gelido.

Noah Washington appoggiò la tazza nel lavandino e buttò un'occhiata impaziente alla porta della cucina. Era la terza volta – Daphne le aveva contate – che guardava la porta della cucina.

"Sarà meglio che vada..."

Daphne inclinò la testa di lato e rise sotto i baffi: Noah stava temporeggiando.

Le sneakers di Haylee Darling sgommarono sulle scale di marmo – a Daphne venne la pelle d'oca all'udire quel suono – fino raggiungere rumorosamente gli altri.

Haylee entrò in cucina pettinandosi ancora i capelli fittissimi che ricaddero, lisci e lucenti, sulla sua felpa color lavanda abbinata ad un semplice paio di jeans e un paio di Air bianche, della Nike.

Imbronciò le labbra di fronte alla macchinetta del caffè vuota "ma lo avete finito..."

"Sapete che esistono altri colori oltre al bianco, vero?"

Haylee rivolse a Daphne un'occhiata confusa.

"Le scarpe, Haylee," disse la bionda, "sembra che il bianco vada per la maggiore tra i presenti, hm..."

Haylee non colse l'invito di Daphne a domandare chi altro, oltre lei, avesse evidentemente delle scarpe bianche: doveva andare a lavoro e di certo parlare di scarpe non era nella top five (in realtà nemmeno nella top ten) degli argomenti che avrebbe voluto affrontare.

"Puoi prendere il mio, babe."

Haylee si ricordò in quel momento che, oltre a Daphne, c'era anche Steve. In mutande. Haylee fece una smorfia e ricacciò quella vocetta nella sua testa che le chiedeva quando esattamente fosse caduta così in basso dal mettersi con uno... Steven solo per evitare la solitudine.

Steven aveva i capelli schiacciati sul lato in cui aveva dormito e gli occhi gonfi dal sonno.

"Non fa niente. Lo prenderò al chiosco vicino all'asilo."

Steven la guardò per un lungo istante prima di partorire quello che sicuramente sarebbe stato un pensiero molto intelligente.

"Perché ti vesti sempre come se dovessi andare a scuola?"

"Perché è dove va, idiota." Rispose inacidita Daphne, senza preoccuparsi di sollevare gli occhi, ormai tornati indisturbati sul suo cellulare: se avesse spostato il dentista alle cinque, forse avrebbe potuto prendere appuntamento per le unghie alle tre...

"Dovresti indossare qualcosa di più elegante." Continuò, ignorando l'affermazione di Daphne.

"Lo terrò a mente," disse, liquidando l'affermazione con un gesto della mano "io devo andare. Resti qui?"

"Hm?"

Haylee si ravvivò i capelli sulle spalle. "Niente. Vado a lavoro. Ciao Daphne, buona giornata."

"E a te buona fortuna con i bambini."

Haylee rimase zitta un secondo per poi mormorare un 'ciao a tutti' davvero poco sentito e poco udito nel vero senso della parola.

Haylee uscì infine dalla cucina superando Noah, che a quel punto si chiese se fosse diventato un fantasma, visto che lei non gli aveva rivolto nemmeno uno sguardo. Lui invece l'aveva guardata più di una volta: dai capelli che le sfioravano la schiena, al naso piccolo e infine agli occhi verde smeraldo che, per quanto fossero assonnati e annoiati, pregò si posassero su di lui almeno una volta.

Haylee Darling cercò il suo cappotto oversize tra quelli appesi e lo indossò frettolosamente; a quello seguì un cappello di lana bianco che le coprì metà fronte.

Guardò poi distrattamente l'orologio e imprecò sottovoce prima di premere il pulsante dell'ascensore, sperando che potesse teletrasportarla direttamente a lavoro.

"Non ho capito, alla fine: hai detto di non avere ciambelle, giusto?"

Noah Washington fissò il punto in cui Haylee era sparita – che poi era la porta d'ingresso – e si disse che, nei centinaia di scenari che aveva proiettato nella sua testa del momento in cui le avrebbe finalmente rivolto la parola, l'essere ignorato non era in nessuno di quelli.

Lui, poi, che con le donne non era mai stato invisibile, la prese come una sconfitta personale. Era evidente che Harvard gli avesse tolto tutto il suo storico fascino... il che era strano, considerando che lo aveva esercitato persino nel bagno del treno sulla strada di ritorno e, la ragazza che era con lui, si era letteralmente inginocchiata ai suoi piedi.

Noah tornò con la mente al giorno in cui vide Haylee per la prima volta, nel campus della Columbia University ma dovette interrompersi per decidersi a rimandare la sua passeggiata nel viale dei ricordi ad un altro momento, magari uno in cui non era in ritardo di quarantacinque minuti al suo primo giorno di lavoro.

Imprecò sottovoce: erano davvero lì da quarantacinque minuti?

Steven si alzò dalla sedia e salutando i due con un gesto della mano, se ne tornò al piano di sopra.

"Rimani sola con lui?"

"È davvero tante, tantissime cose, ma non un tipo pericoloso."

"Se lo dici tu."

Noah sospirò. "Vado, allora."

"Lo stai ripetendo da almeno una mezz'oretta... e non te ne vai mai."

"Scusa, eh. Magari volevo passare un po' di tempo con la mia migliore amica."

Daphne poggiò il cellulare sul tavolo, si voltò verso Noah e si mise poeticamente la mano a sorreggere la guancia magra. "Sì, è proprio per me che sei rimasto qui."

"Certo."

Daphne alzò gli occhi al cielo. "Ero davvero curiosa di sapere che cosa avresti fatto quando finalmente avessi avuto la possibilità di parlarle..." sorrise, sadica, "devo dirti, che il pesce lesso era davvero l'ultima cosa che mi aspettavo."

Noah Washington si asserì, ferito nell'orgoglio. "Ignorare è una tattica."

"Ah," Daphne scoppiò a ridere, "tu ignori lei?"

Noah guardò il Rolex sistemato sul suo polso "si è fatto tardi."

Daphne ondeggiò la mano in un gesto degno di una regina "bye, bye."

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