4 - Heart Beat
Da quando aveva smesso di parlare con Darrell, lo studio sembrava essersi rimpicciolito e quelle quattro mura, inizialmente distanti, si erano come liquefatte fino ad annodarsi attorno alla sua gola con l'intento di strangolarlo.
Il ticchettio dell'orologio gli riportava alla mente quello della stanza di sua nonna, lo stesso che aveva ascoltato per ore in totale silenzio davanti alla sua salma fredda, che veniva lentamente circondata da uomini e donne incappucciati.
E lui detestava quel suono, così leggero eppure così profondo, perché era in grado di farlo andare in trance, di farlo sprofondare in un abisso di sentimenti e ricordi, che non potevano essere pronunciati ad alta voce; per pudore, forse, o almeno così avrebbe detto suo padre prima di prenderlo a cinghiate sulla schiena.
Strinse gli occhi e cercò di allontanare quei pensieri, di scappare ancora una volta dal suo incubo più grande, ma non ci riuscì. Le mani tra i capelli e i polpastrelli freddi, convulsamente schiacciati sulla cute, contro le tempie, sulla pelle pallida della faccia. Di tanto in tanto, i denti stridevano fra loro, battevano, rischiavano di mordere la lingua in un moto di delirio.
«Calmati» biascicò. La punta dei piedi poggiata sul parquet e il nervosismo che attraversava le gambe in veloci tic. «Non ancora, non adesso, non a me» mormorò a se stesso. Parole sconnesse, prive di senso. «Andava tutto bene. Posso farcela, devo farcela.»
Fu in quel momento che, senza il minimo preavviso, la porta dello studio venne aperta da un Gabriel vestito di tutto punto: il viso appena rasato, i guanti in mano e il cappotto posato sull'avambraccio.
Lo sguardo stravolto di Randy si spostò su di lui in modo automatico e il silenzio regnò sovrano per qualche istante. Avrebbe potuto dire qualcosa, magari schernirlo con una battuta sul suo essere sempre così perfetto, ciononostante non lo fece.
«Ti senti bene?» domandò scioccamente, tentando di rompere il ghiaccio.
Un brivido percorse la schiena di Randy mentre scuoteva la testa. Era chiaro che non stesse bene, tuttavia le sue labbra si mossero per prendere la forma di un sorrisetto sfrontato, per proteggerlo dietro una dannatissima maschera che non serviva a niente. «Certo che sto bene» disse.
«Non sembra affatto.»
Allora le storse e, in tutta risposta, si lasciò andare a una debole risatina. «Sei un acuto osservatore» schioccò ironico. «Non sei solo uno stupido antropologo da quattro soldi...»
«Stupido antropologo da quattro soldi» citò Gabriel. «Vedo che hai ricominciato con le offese, bene. Forse è vero che non stai poi così male come sembra.» Prese una piccola pausa, ciononostante non mancò di guardarlo con quella che Randy definì un'occhiata severa. «Lasciamo stare» borbottò tra sé e sé quando, osservandolo, lo scoprì fiero e privo di qualsivoglia vergogna. «Sono qui per portarti a pranzo fuori.»
Lui aggrottò di poco le sopracciglia: era confuso, e forse anche un po' agitato. Per un attimo pensò di aver udito male, perciò chiese: «Come? Dov'è che vorresti portarmi?»
«A pranzo fuori.» Il candore di Gabriel era disarmante; così Randy l'osservò in silenzio, mentre questi si avvicinava per porgergli il cappotto fino a quel momento trattenuto sul suo avambraccio. «È piovuto tutta la notte, perciò la temperatura è fastidiosamente bassa» disse. «Ho cercato qualcosa che potesse andarti bene...»
«Cos'ha il mio cappotto che non va?» chiese piccato. Si guardò subito attorno alla ricerca dei propri vestiti e, non trovandoli laddove li aveva lasciati la sera prima, tornò a fissare Gabriel con fare spaesato.
«Ho messo a lavare le tue cose» lo frenò subito. «Erano tutte bagnate e, detto tra noi, puzzavano troppo.»
Randy schioccò la lingua con una punta d'irritazione. «Delicatissimo.»
«Sincero» lo corresse. «Non ti piacciono le persone sincere?»
Neppure gli rispose, si limitò a guardarlo in modo truce e a detestare il suo sorrisetto soddisfatto. Le braccia incrociate al petto e i denti che, nervosamente, mangiucchiavano l'interno delle guance. Si sentiva un ragazzino, nuovamente soggiogato al potere di qualcuno più grande di lui. Avrebbe voluto gridargli in faccia quanto l'odiasse, che non era poi tanto diverso dalla gente che lo aveva strappato a forza dal letto di morte di sua nonna, ma non fece assolutamente nulla.
«Provalo, avanti» lo spronò con fare amichevole.
«Non posso accettarlo, ha l'aria di essere troppo costoso.»
«Anche i vestiti che hai addosso sono costosi» gli fece notare senza il minimo tatto, volendo, anzi, portarlo ad accettare la realtà in cui era stato trascinato da meno di dodici ore. «E ieri sera non hai fatto storie, li hai indossati senza battere ciglio.»
«Per necessità.»
«Anche questa è una necessità» ridacchiò. «Non vorrai uscire in camicia, spero.»
«Perché, hai paura che possa ammalarmi?» lo provocò Randy con il mento sollevato. «Sai, sto ancora aspettando l'antipiretico che mi avevi promesso quand'eravamo in strada, quello per cui ti ho seguito in questa casa, in questo studio...»
Gabriel si lasciò andare a un sospiro di esasperazione e si portò una mano al viso. Era la seconda volta che gli capitava di fare un'azione simile di fronte a Randy, ma non riusciva davvero a calmare i nervi quando lui s'impegnava per farglieli saltare. «Non hai bisogno di quell'antipiretico» borbottò a mezza bocca.
«Chi può dirlo. In verità ho preso molto freddo sotto quella pioggia.»
Rassegnato, questi assentì. «Bene, ti darò l'antipiretico, ma prima devi mandare giù qualcosa; e con questo non intendo un semplice caffè per colazione. Non vuoi pranzare?»
«Non voglio che mi venga offerto il pranzo in chissà quale costoso ristorante. Perché sì, so che andrà così se usciremo da questo studio del cazzo: mi porterai in un fottuto posto dove avrò paura anche solo a respirare, dove mi sentirò a disagio, dove mi guarderanno come fossi un maledetto alieno o un toy boy.»
«Com'è che ti guarderebbero?» Gabriel strabuzzò gli occhi. «Diamine, sei un ragazzino! Al massimo penseranno che tu sia mio cugino.»
«Due uomini soli, in un ristorante costoso, che mangiano cibi costosi e bevono vini costosi.» Storse le labbra e si strinse di più tra di esse, accavallando una gamba in modo scomposto. «Non puoi essere tanto idiota, Gabriel. O sei un gay represso o un palese pervertito.»
«Devi smetterla di darmi del pervertito in modo tanto gratuito» grugnì.
«Ci sono state diverse persone che mi hanno invitato fuori per pranzi e cene, ma ciascuna di esse aveva motivi o ragioni diverse. Perciò sì, non nego di sapermi comportare di fronte a un tavolo con più di una forchetta, ma non mi piace uscire senza mettere le cose in chiaro.»
«Non c'è nulla da chiarire» sospirò, massaggiandosi la sommità del naso tra indice e pollice. «Vuoi restare a casa?»
Randy l'osservò con la coda dell'occhio e restò in silenzio, mentre questi prendeva posto sul divano al suo fianco. Si umettò le labbra e chinò lo sguardo con evidente imbarazzo.
«Sì, decisamente. C'è qualcosa fuori di qui che ti turba» constatò. «E quel qualcosa non sono io, altrimenti mi avresti già allontanato come ieri sera; ah, le mie povere Dior possono confermarlo.»
«Solo le tue scarpe? E io che pensavo di averti fatto un danno da lavanderia!» ironizzò. Poi sentì un peso sulle proprie cosce e spostò lo sguardo su di esse, notando come Gabriel vi avesse appena posato sopra cappotto e guanti.
«Dimmi cosa ti turba.»
«Vuoi davvero saperlo?» chiese in un soffio. Carezzò la lana scura, poi afferrò un guanto e se lo rigirò tra le dita. «Non c'è nessun registratore acceso, Gabriel, non vorrei che ti perdessi qualche dichiarazione importante.»
«Non te lo sto chiedendo per il libro» precisò. «Lo faccio per fare conversazione, Randy. Possibile che tu sia così prevenuto nei miei confronti? Eppure non mi sembra di aver fatto granché per farti dubitare delle mie intenzioni.»
«Mi hai forse dato motivo per non dubitare di te?» Un leggero brivido gli percorse le braccia fino a perdersi dietro la nuca, e le sue dita si strinsero automaticamente in due pugni all'altezza delle cosce. Dopotutto, per quanto poteva saperne, anche Gabriel poteva essere uno di loro.
E non fu difficile, per lui, leggere il timore nel suo sguardo fuggente. Un nodo gli si formò in gola, mentre la voce, incontrollata, obbiettava con un: «Non mi sembra di essere una persona così orribile».
«No, non lo credo» si lasciò sfuggire Randy, prima ancora di poter frenare la lingua. «Ma ci sono delle persone che...» All'improvviso, però, si bloccò. I denti stretti tra loro e gli occhi sgranati. Sapeva cosa stava per dire e si rifiutava di farlo. Chiuse gli occhi, inspirò a fondo, dopodiché manipolò il resto della frase per renderla adattabile a un contesto diverso senza fare la figura del ragazzino titubante, e disse: «Ci sono delle persone che si comportano bene solo per il proprio tornaconto. Ne ho incontrate tante nella vita, forse anche troppe, e non riesco a fidarmi facilmente del prossimo». Lanciò verso Gabriel una profonda occhiata di giada, poi continuò con tono neutro, distante, calcolato: «Magari tu sei una di queste persone, magari hai intenzione di tenermi buono con queste cazzate dei vestiti e dei pranzi solo per la storia del libro. Hai fiutato una storia interessante e hai bisogno di metabolizzare, di fare in modo che sia io ad aprirmi lentamente, a raccontarti una cosa alla volta per l'epocale stesura del best seller targato Gabriel Graham».
«Ti sbagli.»
Fu tutto ciò che udì in risposta e si vergognò per aver azzardato un'argomentazione simile; eppure non poté fare altro che mantenere la sua linea di bugie: «È per questo motivo che non riesco a starti accanto».
Gabriel picchiettò un indice sulla guancia e posò un gomito sul bracciolo attiguo. «Così sarebbe questo il motivo che ti ha spinto a restare chiuso in questo studio per tutto il tempo» ipotizzò.
«Perché, vorresti forse dirmi che avevo il permesso per uscire?»
«Non sei un prigioniero, bensì un ospite, in questa casa. È bene che tu lo tenga a mente, Randy.» Allungò una mano per toccare una delle sue, quella che stringeva convulsamente il guanto in pelle, e lo sentì sussultare. «Quindi sì, voglio portarti a pranzo fuori.»
«Voglio» citò Randy, con una punta d'ironia. Lo guardò dritto negli occhi, poi ghignò e, ironico, fece: «Di' la verità, Gabriel, non sai cucinare».
Questi si trovò spiazzato dall'improvviso cambio di atteggiamento cui aveva appena assistito e batté le palpebre confuso. Scosse la testa e trattenne una risatina divertita. Fece spallucce, ammettendo la sua colpa: «Hai colto nel segno, non so cucinare, perciò pranzo fuori tutti i giorni».
«Non è divertente» lo rimproverò Randy mentre arricciava il naso. «Che razza di scemo...»
«E poi sarei io quello delicato» gli fece notare. «Non fai che offendermi gratuitamente.»
Randy fece spallucce e, dopo aver spostato cappotto e guanti accanto a sé, si alzò in piedi per esordire con una frase stranamente pacata: «Se il problema è questo, magari posso insegnarti a cucinare qualcosa. Quando abitavo con mia nonna ho imparato a destreggiarmi decentemente con i fornelli; e dico così solo perché sono modesto, ovviamente.»
«Ovviamente» ripeté Gabriel grattandosi la nuca. L'osservò per un istante, poi tornò a guardare i vestiti abbandonati sul divano. La verità era che non voleva insistere per non sembrare troppo opprimente, ma desiderava scoprire cosa lo terrorizzava del mondo esterno. «Tuttavia c'è un problema, Randy: se anche volessi accontentarti e diventare un cuoco provetto, in cucina non c'è niente da mangiare» mentì. «Quindi, se proprio insisti nel darmi lezioni di proletariato, direi che il primo passo sia quello di entrare in un discount.» Sorrise provocatorio senza quasi accorgersene e, incrociando le braccia al petto, si mostrò chiuso a qualsivoglia forma di dialogo.
Non avrebbe accettato un "no" come risposta, era fin troppo evidente; e perfino Randy, guardandolo, dovette ammettere che non c'era altra via se non quella di assecondarlo.
«Giurami che non conosci Il Grande Drago Rosso» mormorò. Lo fissò dall'alto, provando l'incredibile voglia di esplodere come un fiume in piena fino a tampinarlo di domande e scuoterlo, interrogarlo. Lo sguardo serio, concentrato, e la mente fissa sul suo viso spaesato.
«Parli degli acquerelli di William Blake?»
Quella risposta, a detta di Randy, era abbastanza sospetta. Ma anche un semplice "no" lo sarebbe stato. In effetti, si disse, qualsiasi cosa avesse udito non gli sarebbe andata bene. Si mordicchiò il labbro inferiore con nervosismo e, chiusi gli occhi, sollevò la testa. Un respiro pesante gli scivolò fuori dalle narici. Era conscio che, se solo avesse parlato, tutto sarebbe stato molto più semplice. «Gli acquerelli, sì.»
La fronte appena corrugata, disse: «Ho come l'impressione che tu non stessi parlando di opere d'arte».
«E cosa te lo fa credere?»
«Il modo in cui mi guardi di continuo.» Si alzò in piedi, ma solo per sentirsi sospingere dal palmo di Randy e tornare seduto sul divano con un tonfo. Sgranò gli occhi e lo fissò allibito dal basso.
«Numero nove, mancanza di estetica» esordì a gran voce. «L'estetica è importante nella Bassa Magia e va coltivata. La maggior parte delle volte, nessuno può raccogliere soldi dai classici standard di bellezza e forma, cosicché essi vengono scoraggiati da una società consumistica...» Lo sguardo freddo, distante, e il tono incolore. «Ma un occhio alla bellezza, all'armonia, è un essenziale strumento satanico e deve essere applicato per la più grande efficacia magica.» Vide Gabriel aprire bocca come per dire qualcosa, perciò sollevò un indice per zittirlo e continuò: «Non è quello che è ritenuto piacente, è quello che è. L'estetica è un fatto personale, è la propria natura, ma ci sono delle configurazioni naturalmente considerate piacevoli e armoniose e non dovrebbero essere negate.»
«Cosa diavolo stai dicendo?» sbottò.
«LaVey, nono peccato satanico. Pensavo lo conoscessi.»
«Perché mai pensavi che conoscessi una cosa simile?» Gabriel si alzò nuovamente in piedi e afferrò Randy per le spalle. Lo guardò negli occhi e cercò di essere il più convincente possibile. «Pensi che a causa dei miei soldi io possa far parte di quella gente? Lo credi davvero?»
Improvvisamente paonazzo, si sentì morire la voce in gola e riuscì a stento a dire uno: «Scusa».
«Certo che, per essere qualcuno che è vissuto in strada fino a poco fa, ne hai di preconcetti.»
«Il fatto che vivessi in strada non significa che lo facessi volentieri» rispose con voce strozzata. «Non voglio giustificarmi, non ho alcun diritto di comportarmi male in modo tanto gratuito.» Guardò ancora una volta gli occhi di Gabriel e si sentì sprofondare nel parquet tant'era la vergogna che stava provando. «Non ho scusanti, lo so, sono stato uno stupido.»
Udendo quelle parole, Gabriel storse le labbra. Si disse che non voleva metterlo in difficoltà con delle scuse forzate e che, se anche fosse stata solo pena, si sarebbe spinto verso di lui con buon cuore. Così tornò a sorridere e carezzò le sue spalle, frizionandogli le braccia con fare quasi fraterno.
Allora gli vide strabuzzare gli occhi e si fermò all'istante, chiedendo a se stesso dove avesse sbagliato, se avesse esagerato. Infine sbottò: «Ci sono cose che ancora non so, cose che non mi hai detto». Ma non riuscì a dire altro, perché venne subito interrotto da Randy, il quale, senza mezzi termini, sputò:
«Sei stato tu a fermarmi, a dirmi "Basta". Ti avrei detto tutto, ma non hai voluto sentire niente. Forse sei troppo delicato per certi racconti; un fiorellino».
Gabriel sollevò istintivamente un sopracciglio, poi lo guardò seccato. «Come puoi dire che io non tolleri i tuoi racconti se non ne conosco nessuno? Mi stai mettendo alla prova?» Vide Randy mordersi il labbro inferiore, poi gli sentì dire a mezza bocca:
«Questa non è una fottuta gara».
Era chiaro che volesse imporsi il silenzio, perlomeno così si disse Gabriel nel guardarlo. Fece scivolare le mani dalle sue braccia e, infine, lo lasciò stare. Allora lo vide retrocedere di un passo, allontanarsi, stringersi nelle spalle. «Pensaci» sospirò nel magro tentativo di cambiare discorso. «Non hai fame?» Guardò il cappotto e i guanti abbandonati sul divano, dopodiché si rivolse a lui: «Non morirà nessuno se uscirai di qui per un paio d'ore».
Randy soppesò l'idea, chinò perfino lo sguardo sulla punta dei propri piedi e si disse che, forse, aveva ragione; nessuno lo aveva trovato per settimane, quindi perché mai sarebbe dovuto succedere proprio in quel momento? Era chiaro: la paranoia lo stava divorando.
«Sì» assentì lentamente. Tornò sui propri passi e afferrò controvoglia il cappotto di Gabriel. Era morbido, così si disse, di calda lana nera, e lui non vedeva l'ora d'indossarlo nonostante gli risultasse difficile ammetterlo. «Beninteso, non è un regalo» disse serio in volto.
«Nulla di ciò che indossi è un regalo» rise Gabriel. «Pensavi davvero che potessi regalarti qualcosa del genere? Seta, cashmere, pura lana, pelle...» Scosse la testa, poi aggiunse: «Accontentati dei soldi che dividerò con te dopo la pubblicazione del libro».
«Hai intenzione di pagarmi per la mia storia?» domandò incredulo. Era la prima volta che gliene parlava e lui, di certo, non lo aveva dato per scontato quando si era apprestato a seguirlo fino a casa sua. «Grande» disse tra sé e sé, vedendolo annuire con la coda dell'occhio.
E, chissà perché, riuscì a dimenticare per un attimo le sue più grandi paure: la testa completamente altrove, quasi divertita e stralunata. Non era più Randy Morgan, ma solo Randy, un ragazzo che aveva accettato un cappotto super costoso per andare a pranzo fuori con uno strano antropologo.
Note:
Ciao, ragazzi!
Sì, beh, in questo capitolo si parla di cose un po' più specifiche. Ho già detto che saremmo presto scesi nel dettaglio, no? Non voglio dilungarmi molto, anche perché penso di essermi già confusa da sola a causa dei peccati satanici che ho dovuto cercare/studiare a causa di Randy.
Se pensate che io abbia degli strani passatempi, vi sbagliate; cosa non si farebbe per le proprie storie!
Lasciate una stellina o un commento, ve ne sarò grata!
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