25 - Hunger
Aveva ancora il suo odore addosso, e la cosa non gli piaceva affatto.
Chissà, forse un tempo avrebbe smaniato per essere nei suoi stessi panni, ma non in quel momento, non quando ad ancorarlo al letto non era stata la passione di una bella donna, ma un qualche strano intruglio che questa gli aveva fatto ingoiare con l'inganno e la sua smania di evocare un demone che, di certo nemmeno esisteva.
Non poteva fare a meno di chiedersi come avesse fatto a essere tanto stupido da non accorgersene subito, guardandola; eppure Abeigeal era esattamente come il Sacerdote de Il Grande Drago Rosso: i capelli chiari, gli occhi azzurri e il naso fino e dritto.
Perciò si morse l'interno delle guance in un moto di nervosismo e chiuse gli occhi. La testa posata contro il materasso e la luce giallognola dell'abat-jour che, dietro le palpebre, gli bruciava ancora le retine.
Avrebbe voluto dormire, allontanarsi da Short Strand per un attimo e tornare con la mente a Knock Eden Park, eppure non riusciva a farlo. Il cuore che gli galoppava veloce nel petto e l'aria che mancava nei polmoni.
«Cazzo» imprecò tra sé e sé; detestava sentirsi tanto debole, senza il pieno controllo sulle proprie reazioni. «Non sarei dovuto venire in questo posto di merda» sbuffò.
Arricciò il naso, poi si rotolò sul fianco opposto e schioccò la lingua sul palato, percependo la tensione dei muscoli del collo fin quasi a fargli male. E provò l'impulso di scappare, di contravvenire all'ordine ricevuto.
Osservò la finestra, emise un suono infastidito e, umettandosi le labbra, restrinse lo sguardo. Poi si puntellò su un gomito, pensò a Simon e storse le labbra in una smorfia, soppesando l'idea che Abeigeal avrebbe potuto disfarsi di lui qualora non fosse stato suo complice.
«No, che stronzate stai pensando?» si rimproverò piano.
Scivolò a fatica sul ciglio del letto e posò entrambi i palmi sul materasso per issarsi in piedi. Allora si sforzò di raggiungere i propri vestiti, l'infilò alla svelta e si avvicinò alla finestra per guardare fuori.
«L'ha sposata» borbottò. «Lo ha fatto prima di conoscerti, razza d'idiota. Non può certo essere considerato un intralcio.»
Spostò gli occhi lungo le tegole e serrò la mandibola con fare pensieroso. In un attimo, senza dire una parola, si decise a farlo: si guardò attorno, dopodiché aprì la finestra e si sollevò sul davanzale, laddove si mise a sedere. Spostò le gambe all'esterno e si spinse in bilico sul tetto del portico.
Rimase immobile per qualche secondo, con gli occhi fuori dalle orbite e i denti che grattavano sul labbro inferiore. Infine procedette con passo lento fino alla grondaia e ci si aggrappò come una scimmia, lasciandosi cadere verso il basso.
Sentì il metallo sotto le dita, mentre strideva e tagliava, ma non emise un suono. Le narici larghe e il respiro pesante, indolenzito.
Raggiunto il suolo, sospirò e guardò in alto per un solo istante. Aveva ancora i muscoli intorpiditi, tuttavia non perse tempo e si voltò verso il cancello, camminando a passo spedito lungo il viale pieno di ciottoli lattiginosi.
Era certo che Abeigeal fosse dentro casa, che non si fosse neppure accorta della sua fuga, eppure continuava a provare un terribile senso di oppressione all'altezza dello stomaco.
«Dannazione!» La sua voce arrivò ovattata a quella distanza, non appena Randy posò una mano insanguinata sul cancello.
Mancò un battito, poi inspirò a fondo. La testa che ondeggiava e le fauci secche, deglutì a vuoto. Cercò di mantenere i nervi saldi e serrò la presa sul cancello, scavalcandolo con il cuore in gola.
A distanza, vide la luce giallognola spegnersi dal primo piano e si morse il labbro, imponendosi il silenzio. Non emise un fiato, facendo battere le suole sull'asfalto della curva tra Norwood Park e Norwood Gardens.
E si sbilanciò all'indietro, si guardò attorno spaesato, tornò a puntare gli occhi sulle proprie mani piene di sangue.
Avrebbe potuto andarsene, correre lontano, ricominciare a fare la vita del fuggitivo per tenere tutti lontano dai guai.
«Cazzo, cosa devo fare?» si chiese in un balbettio.
Contrasse le sopracciglia e mugolò, cominciando a mordicchiarsi l'interno di una guancia. Infine, soprappensiero, iniziò a correre verso sud, verso Mountforde Gardens. A perdifiato, senza badare al dolore allo stomaco.
Poi, quando si fermò, quasi gli parve di essere riemerso fuori dall'acqua dopo una lunga nuotata.
Sotto un lampione, a qualche metro di distanza dal cancello dalla villa, posò entrambe le mani sulle ginocchia e iniziò ad annaspare. La fronte sudata e i palmi contratti, doloranti.
Sollevò lo sguardo verso la struttura e cercò di studiarla, pregando che non ci fosse nessuno al suo interno. «Per favore, per favore, per favore...» iniziò a ripetersi come un mantra.
Deglutì a fatica, poi riprese a camminare. Entrò lentamente nel giardino, infine in casa. Non si azzardò neppure a raggiungere l'interruttore della luce, ma si schiacciò contro il muro e scivolò con le dita lungo le pareti per arrivare fino alle scale.
In un attimo, si catapultò in camera alla ricerca del proprio cellulare e, dopo averlo acceso, fece una veloce ricerca su internet per cercare un recapito di Gabriel Graham.
Solo allora, con gli occhi lucidi, si rese conto di non voler restare da solo. «Sei un cazzo di antropologo, ti vanti sempre, lo avrai lasciato da qualche parte il tuo numero...» grugnì. Batté le palpebre, trovandone uno che pareva essere quello del suo studio, e lo cliccò senza quasi pensarci, sperando di avere qualche centesimo nel credito residuo. «Dai, cazzo!»
Al terzo squillo, fu sul punto di cedere. Roteò gli occhi verso il soffitto, contrasse le sopracciglia, si mordicchiò di nuovo l'interno delle guance e si passò una mano dietro la nuca in un moto di nervosismo. Poi, all'improvviso, sentì la sua voce dire:
«Sì, pronto?».
Socchiuse le labbra, sentì le lacrime pungergli gli occhi e riuscì a mormorare solo un: «Gabriel, sono io».
Nelle orecchie, il suono sordo del silenzio e quello più prolungato che segnava il termine della comunicazione. Allora serrò i denti rabbioso e deglutì, inspirò a fondo, allargò perfino le narici. Si trattenne dal lanciare il cellulare dall'altro capo della stanza.
«Oh, perfetto» sussurrò. «È tutto così fortuitamente perfetto» continuò secco, cercando di non imprecare ancora e ancora, mentre una sequela d'insulti verso il proprio, innocente gestore telefonico gli stava salendo alle labbra.
Si lasciò cadere seduto in terra e, a gambe incrociate, chiuse gli occhi per poi posare il mento sui pugni chiusi. Allora si chiese se Gabriel avesse o meno modo di rintracciare il suo numero, se quel telefono dello studio fosse una vecchia carretta come lui o, semplicemente, una bellissima scheggia di ultima generazione.
Guardò il soffitto, fiocamente illuminato dalla luce dei lampioni esterni, e sbuffò. Un brivido gli percorse la schiena.
«Deve essere una vecchia carretta» borbottò. «Tutto ciò che lo riguarda deve essere una vecchia carretta.» Storse le labbra, poi chinò lo sguardo tra le gambe e lasciò cadere il cellulare contro le assi del pavimento. Fu in quel momento che lo sentì vibrare e sgranò gli occhi per la sorpresa. Scattò, afferrandolo, e se lo portò all'orecchio. «Pronto, Gabriel?»
«Stai bene?» chiese lui.
«C'è una domanda di riserva?» scherzò piano, trattenendo una risata nervosa. Si guardò attorno e, stringendosi nelle spalle, mormorò: «Sono a Mountforde Gardens, sono dovuto andare via da quella casa».
«E ti sei rintanato a Mountforde Gardens?» La voce di Gabriel sembrava preoccupata, perlomeno così si disse Randy mentre storceva di poco le labbra in una strana smorfia.
Mugolò, poi si lasciò andare a un sospiro. «Sì, beh, non è che avessi molta scelta» disse. «Dovevo davvero andare via di lì, ma non potevo contattarti in nessun altro modo se non tornando a prendere il mio cellulare.»
«Potevi prenderlo questa mattina» gli fece notare sommessamente.
«Potrebbe essere controllato da qualcuno, perciò ho preferito evitare.»
Gabriel prese una piccola pausa, prima di rispondere con un: «Sei un po' paranoico, lasciatelo dire».
«Sarà, ma non hai idea di cosa siano in grado di fare quelli della setta.»
«Credo di saperlo, invece.»
Randy aggrottò di poco le sopracciglia, poi posò una mano in terra e si guardò attorno con fare circospetto. Spronò il capo nella direzione della porta, infine la chiuse con uno scatto e deglutì, posandovi contro le spalle. «Cos'è successo?»
«Non possiamo parlarne al telefono.»
«Cos'è successo?» insistette, mantenendo il tono serio e la voce ferma. Sentiva il cuore in gola e non riusciva a pensare lucidamente.
«Se ti preoccupi per Darrell, sta bene.»
«Voglio sapere cos'è successo, Gabriel.»
«Anch'io voglio sapere cos'è successo, perché sei dovuto scappare da casa di Simon per rifugiarti a Mountforde Gardens, eppure, come vedi, non ti sto riempiendo di domande» soffiò.
Randy si strinse le ginocchia al petto e abbassò di poco le palpebre. Nella penombra, gli sembrò di essere come stato rimproverato pur non trovandosi di fronte a lui. Così si morse le labbra, tacque, e non aggiunse una sola parola. Lo ascoltò, mentre diceva:
«Sto venendo lì a prenderti, perciò non muoverti».
E si passò una mano sulla fronte, si portò via il sudore, emise un suono basso di assenso. Non ebbe neppure il coraggio di chiudere la comunicazione, spronato a mantenere la linea dallo stesso Gabriel; per sicurezza, così gli disse, indossando gli auricolari e tornando in auto senza neppure avvisare Darrell.
«Mi hanno trovato, era tutta una trappola» mormorò d'un tratto. «Ho paura, Gabriel.»
«Quando è successo?» indagò lui, mettendo in moto la BMW.
Randy sentì il lieve rombo del motore e chiuse gli occhi, posando la guancia contro il ginocchio. «Dopo cena, o forse prima, giorni fa. Non lo so, sinceramente. Sono stato un idiota a non accorgermene.» Inspirò a fondo, sentendo l'odore ferroso del sangue, e guardò il proprio palmo aperto a pochi centimetri dal viso.
«Non riesco a capirti, davvero. Possibile che tu non riesca a spiegarti meglio?»
Si lasciò sfuggire un suono divertito, forse di scherno verso se stesso, e scosse la testa. Allora si chiese se Gabriel avrebbe mai fatto in tempo ad arrivare e provò l'impulso di alzarsi per guardare fuori dalla finestra. Deglutì, poi si umettò le labbra. «Forse non dovresti venire a Short Strand» biascicò. «È pericoloso.»
«Non dire sciocchezze, Randy.»
«In verità non sono mai stato più serio di adesso.» Fece scorrere la mano libera lungo i pantaloni scuri, allargando la chiazza fino agli stinchi. «Sai, ho incontrato la figlia del Sacerdote.»
«Non parliamone adesso» lo ammonì. «Non è il momento.» Si schiarì la voce e sembrò cercare un briciolo di autocontrollo, forse le parole giuste, prima di aggiungere: «Anche io devo dirti delle cose, ma lo farò non appena ci vedremo».
«Già, immagino che tu debba farlo, sì.» Fece spallucce. «Ma credo di sapere ciò che tu abbia scoperto.»
«Per favore, non dire niente» scandì.
Spostò lo sguardo verso la luce del lampione che vibrava fuori dalla finestra. «Certo, non preoccuparti» assentì. «Non dirò niente, non adesso, te lo prometto.» Allora socchiuse gli occhi e strinse il cellulare tra la spalla e l'orecchio, facendo cadere l'altro braccio lungo il fianco. «Solo che non vedo l'ora di vederti.»
Sentendo quelle parole, Gabriel batté le palpebre perplesso. Non rispose, non subito, e, non sapendo come replicare, mormorò un: «Anche tu mi sei mancato». Gli parve di sentirlo sorridere, poi ebbe la conferma che volesse intendere qualcosa di completamente diverso quando se ne uscì con un:
«Non credi sia passato troppo poco tempo per dirlo?».
Non capì subito se lo avesse fatto apposta o se si fosse trattato di un modo come un altro per tagliare corto il discorso, per umiliarlo; eppure si sentì stranamente colpito, colto nel vivo. Prese a stringere il volante e affondò sul pedale, risalendo verso Short Strand. «Sì» sussurrò «Forse hai ragione.» Indurì i muscoli del viso e percepì il suo sospiro dall'altro lato della comunicazione.
«Questo posto è orrendo» biascicò. «Se avessi avuto la patente me ne sarei già andato.»
«Quindi mi hai chiamato solo per convenienza.» Corrugò la fronte e storse di poco le labbra, continuando a tenere lo sguardo fisso in avanti, su Mount Merrion Avenue, e a chiedersi fin dove Randy si sarebbe spinto per tenerlo lontano.
Dal canto suo, questi deglutì e si mordicchiò il labbro inferiore. Reclinò la testa fino a posarla contro la porta, poi borbottò: «Pensavo che volessi scrivere il libro, perciò ti ho chiamato per aiutarmi a rimanere in vita».
«Credevo che lo avessi capito, ormai» lo interruppe laconico. «Non è solo per il libro, Randy. Ma a quanto pare sei più cocciuto di qualsiasi persona io abbia mai incontrato.»
Aveva passato settimane a convincersi del contrario, perciò si strinse nelle spalle e si lasciò andare a un sospiro. «Come vuoi tu» disse. Allungò le dita verso il cellulare, allontanandolo dall'orecchio e osservandolo con fare assorto. Nell'illuminazione del display, per assurdo, cercò d'intravedere una qualche risposta; eppure lo sapeva: quello non era lo sguardo di Gabriel e non poteva certamente studiarlo.
«Rimani dove sei.»
«Dove credi che possa andare?» replicò spicciolo. «Se solo mi muovessi, se uscissi da questa stanza, finirei nella merda.» Arricciò il naso, poi chiuse gli occhi e sentì un brivido attraversarlo da capo a piedi. «O forse è troppo tardi, forse ci sono già.»
Arrivato alla rotatoria, Gabriel svoltò lungo Cregagh Road. Superò il negozio di liquori ancora aperto e s'irrigidì, conscio di essere ancora a metà strada. «Cinque minuti e sono da te» mormorò. «Nel frattempo trova qualcosa con cui difenderti.»
Randy socchiuse gli occhi e si guardò attorno. «Qualcosa con cui difendermi» echeggiò. Sapeva che in quella casa c'era ben più di un oggetto su cui fare affidamento, ma il solo pensiero di usarlo su qualcuno gli riportava alla mente la sera dell'omicidio e gli torceva le budella. Perciò rabbrividì e si strinse nelle spalle. «Dove sei, Gabriel?» domandò in un filo di voce.
«Woodstock Road» rispose sbrigativamente. Il tono asciutto, decisamente nervoso e preoccupato. «Hai trovato qualcosa?»
Lui sospirò, poi si alzò in piedi e, con un debole grugnito, posò la mano destra sulla porta. Vedeva la stanza muoversi, quasi roteare, e la cosa gli faceva venire la nausea. «Forse» biascicò. Girò la chiave nella toppa, infine si avvicinò al comodino e, dopo essersi inginocchiato in terra, aprì l'ultimo cassetto. «Sì, ho trovato qualcosa» confermò, facendo leva sul doppiofondo e tirando fuori il proprio pugnale rituale.
«Perfetto» disse. «Io ho appena svoltato su Albertbridge Road, sono quasi arrivato.»
Randy chiuse gli occhi e serrò la presa attorno all'elsa, lasciandosi cadere steso sul tappeto. Mugolò, ma non disse nulla e sollevò appena un angolo delle labbra, avvicinandosi l'arma al petto.
«Ti senti bene?» chiese, il tono basso, confuso. «Hai smesso di parlare all'improvviso.»
«A cena ho mangiato qualcosa di strano» iniziò. «Non so cosa ci fosse dentro, probabilmente un'erba velenosa o qualcosa a cui sono allergico.» Cercò di deglutire, ma non riuscì a farlo se non dopo un paio di volte. «Poi mi è stata fatta un'iniezione. Sono ancora abbastanza confuso...» Lasciò cadere il cellulare vicino all'orecchio e sentì la voce di Gabriel farsi più ovattata, mentre domandava:
«A cena? Vuoi dirmi che è stato Simon a farti del male?».
«Per quanto sembri assurdo, lui non c'entra niente.»
Svoltando su Mountforde Road, Gabriel sgranò gli occhi e si ricordò di quello che Randy aveva detto all'inizio della loro conversazione. «La figlia del Sacerdote.»
Batté le palpebre un paio di volte, poi serrò i denti e allargò le narici in un moto di agitazione, sentendo il sangue gelarsi nelle vene.
«Randy...» lo chiamò piano e, non sentendo più la sua voce, impallidì.
Svoltò a destra, poi ancora a destra e raggiunse Mountforde Gardens. Accostò in prossimità del cancello con il foro circolare e non si preoccupò neppure d'inserire l'allarme alla BMW, correndo verso l'interno della villa, laddove era certo che lo avrebbe trovato.
«Randy!» iniziò a chiamarlo a gran voce, non appena varcata la porta d'ingresso. Poi, salendo le scale, continuò ad alzare il tono.
E gli parve che il groppo che aveva in gola potesse diventare sempre più grande, più opprimente.
«Randy!»
Quando vide la porta chiusa della sua stanza, capì che doveva essersi chiuso proprio lì dentro. Inspirò a fondo, cercò di aprirla e dovette fare affidamento a tutta la calma che aveva in corpo per chiedere: «Randy, stai bene?».
Vi bussò contro e, non ottenendo risposta, aggrottò le sopracciglia. Si passò una mano sul viso, tra i capelli.
«Cazzo!» si lasciò sfuggire.
Sapeva di non essere mai stato un uomo di azione, di non avere nulla in comune con Darrell, ma in quel momento, tenendo saldamente la maniglia, pregò che lo stipite fosse abbastanza pericolante affinché potesse cedere sotto un paio delle sue spallate, perché, ne era certo, Randy si trovava in pericolo.
«Avanti...» borbottò dopo il primo colpo, cercando di far cedere la porta con un secondo e poi un terzo.
Solo allora, inspirando a fondo e provando per la quarta volta, si rese conto di avere gli occhi lucidi e di essersi fatto terribilmente male; una lussazione, probabilmente.
«Apriti, dannazione!» sbottò, colpendola con un calcio e facendola gracchiare sui suoi stessi cardini. Annaspò, tenendosi la spalla lesa, e avanzò nella penombra. «Oh, Randy, che ti è successo?» gemette senza voce, vedendolo riverso in terra.
Note:
Ciao a tutti!
In questo capitolo mi è un po' mancato Darrell, forse gli è mancato anche a Gabriel, soprattutto nell'ultima parte, ma direi che ha reagito piuttosto d'istinto quando ha ricevuto la telefonata di Randy. Perciò chissà cosa gli dirà quando lo vedrà tornare - io non vorrei essere nei suoi panni...
Se il capitolo vi è piaciuto, mi raccomando, ricordatevi di lasciarmi un commento e una stellina, che a me fa tanto piacere!
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