15 - Simple Death
Era stata una notte orribile. Il suono del vento lo aveva accompagnato per ore, ululando fino a quando, in preda all'esasperazione, non si era schiacciato il cuscino sulle orecchie per fingersi un sandwich.
Eppure non aveva preso sonno ugualmente a causa dei ricordi di Short Strand, come d'altronde capitava ormai da una settimana.
Continuava a vedere il vetro della stanza di sua nonna andare in pezzi, la balaustra delle scale, l'uomo in fondo alla rampa.
Ed era facile perdere il respiro, annaspare, provare la stessa ansia di quel giorno. Sapeva di essere a casa Graham, ma non riusciva a dimenticare la sensazione di quella mano che premeva sulle labbra e il senso di colpa provato per la ferita di Darrell. Così si alzava dal letto e lo cercava. Bastava un attimo, uno sguardo, e il dolore si alleviava un po'.
Ma la sola idea di chiudere gli occhi lo terrorizzava e non riusciva a farlo per più di qualche istante. Aveva paura, e non voleva restare da solo. Lo sapeva, c'era una flebile voce dentro di lui che gli suggeriva di chiedere aiuto, di dire la verità almeno a Gabriel, eppure le parole gli si bloccavano in gola ogni volta che provava a farle uscire.
Perciò, anche in quel momento, dopo essersi fatto forza per raggiungere la sua stanza, non aveva il coraggio di bussare. Serrava i denti, inspirava ed espirava profondamente, con le palpebre fisse e le ciglia che gli solleticavano la pelle. Il cuore batteva veloce, all'impazzata, e gli occhi, ormai lucidi per la stanchezza, non facevano che osservare un punto nell'oscurità.
«Non fare lo stupido» soffiò per spronarsi. Parole scandite, appena pronunciate dal movimento delle sue labbra tese. Parlò tra sé e sé, ma lo fece talmente a bassa voce che nessuno avrebbe potuto svegliarsi.
Poi trattenne il respiro e, con il sangue che gli rombava nelle orecchie, mise una mano sulla maniglia, certo che Gabriel non potesse svegliarsi altrimenti. Avrebbe dovuto scuoterlo dal vivo, ne era consapevole, soprattutto dopo l'aggressione in casa, perché il suo sonno era davvero troppo pesante; tuttavia, non appena aprì la porta, s'immobilizzò sull'uscio e si pentì di essersi preso una simile libertà.
Lui era sveglio, nascosto dalle coperte fino quasi al collo. Gli occhi chiusi e la mente persa in chissà quale fantasia. Credeva davvero di essere solo e, incoscientemente, si stava masturbando. Ansimava, il battito cardiaco sempre più veloce e l'eccitazione crescente. Non si accorse nemmeno di essere osservato fin quando Randy non balbettò un debole:
«Scusa».
Allora spalancò gli occhi e annaspò. Sentì una scarica di adrenalina percorrergli la colonna vertebrale e scuotergli i lombi, avvampando sulle sue guance in quello stesso istante. Raggiunse l'orgasmo tra le sue dita, all'improvviso.
Sgranò gli occhi e scattò a sedere, non riuscendo a capire se avesse udito davvero la sua voce o se l'avesse solo immaginata. E non appena riconobbe quella sagoma nel buio, rimase immobile. Deglutì imbarazzato, non emise un fiato. Quasi desiderò di essere inghiottito dall'oscurità della notte, dal materasso, da un'asse del parquet.
Dal canto suo, Randy si voltò e chiuse la porta così come l'aveva aperta, ammutolendosi.
Si diede subito dell'idiota per aver chiesto scusa e serrò le palpebre, mordendosi le labbra fin quasi a farle sanguinare. Se solo fosse stato zitto, si disse, Gabriel non si sarebbe nemmeno accorto della sua presenza e non si sarebbe vergognato come un ladro, perché, ne era certo, quella situazione era sembrata strana a entrambi.
«Cazzo, dovevo restare in camera mia!» si rimproverò in un grugnito, colpendosi la testa con un pugno all'altezza della tempia sinistra. Lo fece non una, ma due volte. Trattenne un singhiozzo, certo che Gabriel lo avrebbe cacciato l'indomani mattina stessa.
Chiunque lo avrebbe fatto, perlomeno così si disse, perché nessuno avrebbe voluto in casa una persona pronta a entrare nelle stanze degli altri come un fantasma e, soprattutto, senza il permesso.
Il passo veloce e i talloni che battevano con rabbia. Iniziò a tormentarsi i palmi delle mani, a martoriarli con le unghie fino a riempirli di tante, piccole lunette rosse. E, quando raggiunse la porta ancora aperta della sua stanza, si accorse di avere lo stomaco sottosopra.
Chissà perché, vedere Gabriel fare una cosa del genere lo aveva turbato; eppure si rendeva conto del fatto che provare certi impulsi fosse del tutto normale.
Imprecò sottovoce e si nascose sotto le coperte, imbacuccato fin sopra la testa. Con la fronte premuta sul cuscino, desiderò scomparire. Avrebbe volto tornare indietro nel tempo per non commettere l'errore di violare la privacy di Gabriel.
«Tutto questo non ha senso» mugolò a denti stretti. «Lui non stava facendo niente di male» si rimproverò, chiudendo gli occhi fin quasi a sentire le ciglia battere sulle guance. Il cuore in gola e la speranza di dimenticare al più presto quelle immagini.
Perché non era Gabriel a turbarlo, ma il ricordo del Sacerdote della setta laveyana cui aveva fatto parte per anni, lo stesso che lo aveva introdotto ai riti di magia sessuale e che lui aveva rivisto in quell'atto.
Diede un pugno al cuscino, poi lo afferrò e lo lo lanciò lontano. Uscì fuori dalla montagna di coperte, che fino a poco prima lo aveva avvolto, e accese la nuova abat-jour in un moto di rabbia. Il respiro corto, gli occhi sgranati e le labbra che tremavano. Sentiva l'ansia crescergli nel petto attimo dopo attimo, man mano che la figura del Sacerdote prendeva consistenza nella sua memoria.
«'Fanculo» ringhiò. Detestava essere così debole nei confronti della propria mente. «Inizio a capire perché Darrell sia sempre attaccato alla bottiglia» si disse a mezza bocca. Provò l'impulso di scendere al piano di sotto per versarsi qualcosa, magari un bicchiere del tanto amato Single Malt, ma non ebbe il coraggio di muovere un muscolo e rimase fermò, a braccia incrociate, seduto contro la testata del letto, fino alle prime luci del mattino.
Il sole filtrava debolmente attraverso le nubi, batteva sul parquet in raggi fini, e si rifrangeva contro lo specchio. Non un suono, solo l'eco del silenzio.
Randy si sentiva schiacciato da una pressa invisibile, tormentato da un demone più reale del Diavolo in cui aveva creduto fino al giorno prima. Scivolò fuori dal letto e, lentamente, scese al piano di sotto con ancora addosso il pigiama. Si diresse in cucina per preparare il caffè, ma, non appena vi mise, piede vide Gabriel seduto su una sedia e s'immobilizzò.
Così, con una mano sul montante della porta, serrò i denti e borbottò un: «Buongiorno».
Questi sollevò lo sguardo dal quotidiano del giorno prima e lo puntò su di lui. Accennò un sorriso tirato e rispose al suo saluto con uno stentato: «Buongiorno». Smise definitivamente di leggere il vecchio articolo e appallottolo le pagine spiegazzate, gettandole nella pattumiera con un sospiro. «Devo ancora prendere quello di oggi» spiegò di fronte al suo sguardo confuso. «L'ho letto tutto, ormai lo so a memoria, perciò non guardarmi in quel modo.»
Randy mosse un paio di passi nella sua direzione. «Come ti starei guardando?» chiese.
«Come qualcuno che pensa sia impazzito.»
Spostò una sedia e fece spallucce, mettendosi a sedere. «Non lo penso, tranquillo» lo rassicurò senza il coraggio di alzare lo sguardo. Osservò la sua tazza di caffè e sperò che gliene versasse una uguale, magari stracolma, visto la notte insonne. Quando lo vide alzarsi per raggiungere la macchinetta ancora accesa, allora, osservò le sue spalle con un sorriso fiducioso, quasi dolce, e posò il gomito sul tavolo per sorreggersi il mento.
«Oggi vuoi lo zucchero o il latte?» domandò piano.
La voce bassa, appena arrochita dalla stanchezza, rispose: «Nessuno dei due. Ho passato la notte senza chiudere occhio, Gabriel».
«Mi dispiace» mormorò di getto. Iniziò a parlare come un fiume in piena e, mentre versava il caffè nella tazza, non si accorse neppure dell'espressione di Randy; così triste, quasi assente. «Non avrei voluto che mi vedessi, avrei dovuto chiudere la porta a chiave. Mi rendo conto che certe cose non dovrebbero succedere. È stato sconveniente. E magari ti ha portato alla mente dei brutti ricordi, qualcosa che neppure immagino, di cui non mi hai parlato.» Prese una piccola pausa, voltandosi e vedendo finalmente i suoi occhi di giada. Ma non gli diede neppure il tempo di rispondere, che subito continuò: «È colpa mia se hai gli occhi così rossi, vero? È perché non hai dormito...».
Udendo quelle parole, Randy deglutì e sentì il proprio cuore battere più veloce del normale. Avrebbe voluto frenarlo, far scendere il groppo che si era fermato in gola, placare il dolore che gli attanagliava il petto. Essere tanto vulnerabile lo metteva a disagio. «Sono giorni che non dormo» disse. Il tono sommesso e il respiro mozzato. «Volevo parlartene, volevo chiederti aiuto.» La voce sia affievolì, poi si mozzò. «Ma non ho potuto.» Si bloccò improvvisamente e distolse lo sguardo, posando la mano sul tavolo.
Arrossì, deglutì e, colto nel vivo, biascicò un: «Mi dispiace, davvero.» Si vergognò e chiuse gli occhi, poi li riaprì e tornò a sedere con una tazza fumante in mano. La fece scivolare sul tavolo nella direzione di Randy e gli vide allungare la mano, mentre, con la coda dell'occhio, cercava d'intravederne il profilo. Allora lui trattenne il respiro e spostò le dita fino a raggiungere le sue. Le sfiorò, carezzandole lentamente con i polpastrelli, e lo guardò dritto negli occhi. «Adesso me l'hai detto. Prometto che cercherò di aiutarti, Randy.»
«Come pensi di poterlo fare?» Le sopracciglia aggrottate e un brivido che gli correva lungo la schiena. Spostò lo sguardo sulla propria mano senza però spostarla e si chiese se fosse o meno infastidito da quel contatto senza ben riuscire a capirlo.
Gabriel indugiò, soppesando bene le parole, poi disse: «Ti starò accanto. Non permetterò che tu finisca come Darrell. So che la prima cosa che viene in mente a una persona disperata è l'alcol, ma per te non dovrà essere così». Strinse la presa attorno alle sue dita e giurò di vederlo fremere. «Ci sono molti modi per dormire, magari una tisana o qualcosa che possa rilassarti...» Gli vide sollevare un sopracciglio, così aggiunse: «Ma, se vorrai, potrò semplicemente starti accanto per assicurarti che non ci sia nessuno pronto a farti del male; ammesso che questo ti basti».
Randy distolse lo sguardo e ritirò la mano con titubanza. Non sapeva se l'aiuto di Gabriel sarebbe servito, tuttavia era anche il solo che avrebbe voluto ricevere. «Grazie» mormorò. «Non eri tenuto a dirmi una cosa del genere dopo quello che ho fatto.» Si strinse nelle spalle e, scompostamente, sollevò le gambe per puntellare i talloni sulla seduta della sedia. Allora, aggrappandosi con le mani alle ginocchia, se le strinse al petto in un abbraccio fittizio. «Sono stato un idiota, non so come scusarmi.»
Di fronte a quella scena, Gabriel deglutì e si sentì inerme. Avrebbe voluto alzarsi per abbracciarlo, rassicurarlo e dirgli che le sue preoccupazioni erano davvero futili, ma non lo fece e, immobile, si umettò le labbra. Scosse la testa, poi, e soffiò un: «Non importa». Lo vide sorridere amaramente, poi lo sentì ridacchiare.
«Cazzo, importa eccome!» esclamò. «Sono entrato in camera tua mentre ti stavi facendo una sega. Possibile che tu non riesca a essere un po' incazzato? Mi tratti con i guanti di velluto perché ti faccio tenerezza: si può sapere cos'hai nella testa?» Lo guardò di sbieco, quasi lo rimproverò. «Non avrei dovuto farlo. Mi ero immaginato di tutto, ma non che volessi aiutarmi. Ho continuato a rimanere sveglio, pensando che mi avresti cacciato a calci in culo non appena mi avresti visto. Eppure eccoti qui, di fronte a me, a dirmi che potrai passare le future notti della tua vita a farmi evitare le occhiaie.» Restrinse lo sguardo e schioccò la lingua sul palato.«Scusa se te lo dico, ma non mi sembra normale. Le cose sono due: o se uno smidollato, o se un mero maniaco e questo è solo parte di un piano.» Allora corrugò la fronte e scosse la testa. Non gli diede neppure il tempo di rispondere, che subito lo interruppe con un: «Ma il fatto è che, guardandoti, non riesco a pensare che tu sia così subdolo. Quindi sì: non hai le palle».
«Dovrei trattarti male solo perché hai commesso un errore in buona fede?» chiese confuso. «Un errore per il quale ti sei scusato più volte?» Tirò indietro la testa, guardandolo, e batté le palpebre. «Il fatto che tutte le persone ti abbiano trattato come una pezza da piedi, Randy, non significa che debba farlo anche io.»
Lo prese in contropiede, facendolo arrossire per la vergogna. «Non volevo paragonarti alle persone incontrate finora.»
«Così sembrava.»
Strinse maggiormente la presa attorno alle gambe e si morse le labbra, abbassando di poco le palpebre. «Dico solo che il tuo comportamento non è normale, Gabriel» sussurrò. «C'è troppa cura nei miei riguardi e non capisco perché tu ti comporti così quando il nostro dovrebbe essere solo un rapporto superficiale, un rapporto lavorativo. Dopotutto sei stato tu a dirmi che dovremmo dividere gl'introiti del libro, che i vestiti che indosso sono solo in prestito, e sei stato sempre tu a insistere per andare a Short Strand a vedere la casa di mia nonna sotto la probabile richiesta di Simon Burke.» Si fermo, prese un piccolo respiro e deglutì. Sentiva un groppo in gola e faticava a ingoiarlo, esattamente come quando Gabriel gli aveva sfiorato le dita. «Non c'è nessun legame tra noi e non c'è motivo affinché tu sia così gentile con me. Quindi, capiscimi, non posso non essere così titubante nei tuoi riguardi.»
Sentendo le sue parole, Gabriel rimase in silenzio. Inspirò a fondo e pensò subito al discorso di Darrell, facendosi assalire dal dubbio. Poi scosse la testa e accantonò l'idea. Vide Randy farsi perplesso, la sua fronte corrugarsi appena, tuttavia non disse nulla per spiegare la propria reazione. «Mi affeziono facilmente» minimizzò con un mormorio. «È un crimine?»
«No, non lo è.» Storse appena le labbra e si strinse nelle spalle. «Ma non riesco quasi a crederci, ecco. Io non sono una persona socievole, tantomeno mi faccio voler bene per come mi comporto o per quello che dico. Da quando ti ho incontrato sono stato scostante e scontroso nei tuoi riguardi. Ho creato solo problemi, non ti ho raccontato praticamente niente del mio passato. E tu, pressato da Simon, mi chiedo cosa sia riuscito a formulare per il libro. Probabilmente niente di consistente, ed è solo colpa mia. Come hai fatto a esserti affezionato?» Lo guardò intensamente, inclinando appena la testa da un lato, infine disse: «Ammesso e non concesso che tu non sia masochista, Gabriel... In tal caso non discuto».
«C'è chi pensa che io abbia legato fin troppo» si lasciò sfuggire in un sussurro. Allungò la mano verso la propria tazza di caffè e, dopo averla afferrata, la osservò. Prima di sorseggiare l'ultimo sorso rimasto, sentì Randy mormorare il suo nome:
«Darrell?». Lo vide annuire, così aggrottò le sopracciglia e serrò i denti. Avrebbe voluto che fosse lui a parlare, ma era certo che non avrebbe cavato un ragno dal buco senza una sfilza di domande. Perciò, abbassando le gambe, posò le mani sul tavolo e lo fissò dritto negli occhi. «Cosa ti ha detto?» chiese.
Lui indugiò. Non sapeva se parlare fosse giusto. Farlo avrebbe significato tradire la fiducia di Darrell, ma era pur vero che non ne aveva neppure un po' nei suoi confronti. «Se te lo dicessi, Darrell ne soffrirebbe» mormorò. Un piccolo sorriso amaro gli si dipinse sul viso. «Io potrei anche farlo, ma tu lo sopporteresti? Non mi sembri il tipo.»
E aveva ragione, perché Randy tirò indietro la testa e aderì con la schiena contro lo schienale. Impallidì, sgranando gli occhi. «Non voglio fare del male a nessuno» confermò.
«Darrell è una persona sensibile» iniziò a dire sommessamente. Poi si alzò dalla sedia e posò la tazza nella lavastoviglie, certo che Randy stesse continuando a osservarlo; sentiva il suo sguardo addosso. «Qualunque cosa succeda, ti chiedo soltanto un favore: fai in modo che queste parole siano vere.»
Allora batté le palpebre. Le sopracciglia aggrottate e le labbra appena arricciate. Non riusciva a capire a cosa si stesse riferendo, ma sentiva il proprio cuore battere forte nel petto.
Avrebbe voluto rispondergli in qualche modo, tuttavia non poté farlo, perché questi gli sfuggì sotto gli occhi, uscendo dalla cucina senza neppure alzare lo sguardo. E, non appena si voltò per seguirlo, lo vide passare accanto a Darrell.
S'immobilizzò così, sulla sedia, con un gomito posato sullo schienale e le gambe di lato. Li guardò entrambi, certo che gli stessero nascondendo molto più di quanto immaginasse, e per un attimo li detestò.
Note:
Ciao a tutti!
Okay, in questo capitolo sono stata un po' cattiva con Gabriel, il mio bubino. Ma finora sono stata cattiva solo con Darrell, e questo non è giusto. È bene che si condivida tutto dopo Lucia, no? E l'autrice stronza non è certamente esclusa!
Come vi è sembrato il capitolo? Considerazioni, pomodori, pietre da lanciarmi? Sono pronta a schivare tutto, giuro! Se volete lasciarmi un commento o una stellina, io ne sarei ben felice!
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