1 - Angel fallen
Aveva la punta del naso arrossata e le labbra mangiate dal freddo. Sedeva in un angolo della strada senza dare troppo nell'occhio, con la schiena curva in avanti, di fronte la saracinesca abbassata di un negozio chiuso da più di un anno. Lo sguardo perso sul marciapiede, sull'asfalto pieno di pozzanghere, e le dita incartapecorite, che spuntavano oltre le lunghe maniche del cappotto. Era una zazzera color ruggine, che ondeggiava nel vento, e nient'altro.
Per questo gli era subito saltato all'occhio: diverso, invisibile e solo nell'inverno irlandese.
E, mentre tutte le persone si affannavano alla ricerca del perfetto regalo di Natale, Gabriel pensò di averlo appena trovato; dopotutto le persone erano sempre state la sua più grande passione, un cumulo di atomi e pensieri, un modo per passare il tempo senza avere la certezza di cosa sarebbe successo dopo. Così, lentamente, si avvicinò. La sigaretta stretta tra le labbra e il fumo che saliva verso il cielo scuro della sera.
Poi, quando sentì lo scrosciare dell'acqua grigia sotto la suola delle Dior, decise di fermarsi. Era di fronte a lui, immobile, con l'ombrello che copriva entrambi più per caso che per reale cortesia. Allora vide la testa del ragazzo sollevarsi alla ricerca di una risposta e conobbe i suoi occhi di giada. Trattenne il fiato. Non avrebbe mai immaginato di trovarli tanto belli, così simili a quelli di Lucia, perciò rimase in silenzio e lasciò che fosse lui a parlare per primo:
«Che diavolo vuoi?».
Sbatté le palpebre. Era ovvio che non si aspettasse una reazione simile da qualcuno seduto per terra nel bel mezzo della strada. Scosse appena la testa e accennò un sorriso di circostanza, cercando di risultare il più cordiale possibile. «Ti stavi bagnando, pensavo che ti servisse una mano...» disse, ma non riuscì ad aggiungere altro, perché venne subito interrotto con un'imprecazione:
«Stronzate. Credi che sia la prima volta che una persona come te si avvicina?».
«Che tipo di persona credi che sia?» indagò mentre tratteneva a stento una risata.
«Una persona losca» tagliò corto l'interpellato, prima di guardare altrove e stringersi le ginocchia al petto. «Qualcuno con cui non ho intenzione di parlare oltre.»
«Interessante...» Gabriel allontanò la sigaretta dalle labbra e sputò fuori una nube di fumo grigio. Subito dopo inclinò appena la testa e si chinò sui calcagni, soppesando il braccio a mezz'aria. La mano di fronte alla bocca ancora dischiusa e gli occhi attenti. «Il mio nome è Gabriel Graham e sono un antropologo, non una persona losca.»
«Un antropologo?» chiese, vedendolo annuire. Storse appena il naso e sbuffò irritato. «E cosa vuole un antropologo da me?»
«Te l'ho già detto, mi sembra: aiutarti. Ti ho visto in difficoltà e ho deciso di avvicinarmi per non lasciarti in strada a fare la fine di un pulcino bagnato.» Sorrise.
«Randy» disse soltanto.
Gabriel si portò la sigaretta alle labbra e commentò sottovoce dicendo: «Un lupo con la corazza impenetrabile, accurato».
«Mi stai forse prendendo in giro?»
«Perché dovrei?» ridacchiò e quasi non si strozzò con il fumo appena aspirato. Infine gettò il mozzicone nella pozzanghera ai propri piedi. «È un bel nome, mi piace. Randy, dico...»
«Non deve piacerti, non mi è stato certo dato per fare piacere a te» borbottò lui.
«Hai davvero un caratterino impossibile, sai?» Gabriel scosse la testa e sospirò, facendo nuovamente storcere il naso a Randy e appuntandosi mentalmente quel gesto come deliziosamente ripetitivo.
«Smettila di fumare in faccia alla gente» grugnì questi con una punta d'irritazione. «Anche se mi hai incontrato in strada, non è carino.»
«Hai ragione, scusa» fece agitando la mano libera. Ma dal suo tono era così palese che non fosse serio, tanto che Randy restrinse lo sguardo indispettito per poi dire:
«Un antropologo, eh? Perché non inizi a studiare te stesso, invece di avvicinare gli sconosciuti?».
Gabriel fece una risatina di circostanza, una di quelle che la vita gli aveva insegnato a fare nei momenti di pura finzione, per poi interromperla bruscamente. «Touché.»
Era inquietante, così si disse Randy mentre aggrottava le sopracciglia e lo guardava negli occhi.
«Ti va di prendere un caffè insieme?» chiese.
«Ho l'aria di qualcuno a cui piace il caffè?»
«Perché no? Il caffè piace a tutti.»
«Se anche fosse non è detto che debba aver voglia di prenderlo assieme a te.» Randy arricciò appena le labbra e si strinse nelle spalle.
«Che scortesia!» esclamò Gabriel per poi fingersi offeso. Dopodiché, puntandosi le dita al petto, continuò: «Non mi sembra di aver fatto niente per spingerti a essere tanto astioso nei miei riguardi».
Effettivamente, Randy doveva ammetterlo, il suo atteggiamento non sembrava avere la benché minima ragione; ma, a dirla tutta, c'era qualcosa nello sguardo di Gabriel che lo faceva dubitare, qualcosa che lo portava a chiudersi a riccio e ad allontanarsi dalla sua mano tesa. Deglutì, si mordicchiò l'interno di una guancia con fare pensieroso, infine si alzò in piedi e disse: «Non ti devo alcuna spiegazione, caro il mio antropologo.»
«Sarebbe carino che lo facessi, invece...» Gabriel lo guardò dal basso e mantenne il sorriso come una perfetta statua di cera. «Dopotutto stavo solo cercando di essere gentile.»
«Ma nessuno te lo ha chiesto» obbiettò Randy piccato.
«Che vuoi farci, sono un uomo semplice: vedo una persona in difficoltà e non posso fare a meno di spingermi ad aiutarla.» L'ombrello in bilico sulla spalla destra e le labbra appena rivolte verso l'alto. Era un perfetto tributo a Magritte.
Sentendo quelle parole, Randy aprì e chiuse le labbra senza emettere alcun suono. Serrò i denti, infine li digrignò come un animale in gabbia e grugnì un: «Si può sapere cosa ci fai ancora qui?». E poi: «Sei un pervertito, forse?». Aveva tentato di tutto per scoraggiarlo da quando si era avvicinato, probabilmente molte altre persone avrebbero già abbandonato la presa, se fossero state al suo posto, ma lui no, non voleva saperne, e la cosa non poteva far altro che infastidirlo.
Gabriel scosse la testa e si decise a raggiungerlo in piedi. Lo sormontò in men che non si dica, coprendolo dalla luce giallognola del lampone che aveva dinanzi. «Affatto» iniziò a dire. «Sono solo una persona come un'altra. Ma non giudicarmi; oh, non farlo, non sono io quello che se ne stava seduto in terra in una serata uggiosa come questa...» Nel dirlo, mosse una mano e rivolse il palmo verso l'alto come per presentare la notte a Randy, lo stesso che, irritato, cercò di rimbeccarlo:
«Sei tu che stai giudicando, adesso».
«Credi?»
«Decisamente.»
«Oh, andiamo...» tagliò corto con una risata fievole. «Ti sfugge la sottile differenza tra verità e critica.» Gabriel si umettò appena le labbra, restrinse lo sguardo con una punta di divertimento e allungò la mano libera per posarla sulla spalla di Randy. «Sto solo cercando di portarti via da qui. Puoi farmene una colpa? Sei tutto solo e bagnato, mi fai così tanta tenerezza che non so resistere.»
La bocca socchiusa in una muta richiesta d'aiuto e lo sguardo sconvolto. Se solo avesse potuto, Randy sarebbe fuggito seduta stante anche da se stesso. Ed era forse l'orgoglio a impedirgli di darsela a gambe da quella strada, da Gabriel Graham. «Ti faccio pena?» chiese in un sussurro.
«Faresti pena a chiunque» ammise spicciolo, stupendolo e lasciandolo senza parole. Così si sporse appena in avanti, mentre la pioggia aumentava e batteva contro l'ombrello blu notte. «Che c'è, il gatto ti ha mangiato la lingua?» Dapprima lo provocò, poi lo prese sottobraccio senza neppure attendere una risposta. Lo sentì trasalire e lo vide deglutire a vuoto, con la coda dell'occhio. «Almeno io ho il coraggio di dire la verità, di non passare oltre o ignorarti come farebbero tutti gli altri. Puoi farmene una colpa?» Allora si rivolse a lui con un'occhiata più allusiva, senza nascondersi dietro le ciglia corvine, e attese una risposta.
Randy fece saettare lo sguardo in terra, per poco non avvampò di vergogna e si ritirò nelle spalle come una tartaruga. «Nessun gatto» disse soltanto. Non aveva altre parole, per Gabriel, se non quelle; perciò stette in silenzio e, mollemente, si lasciò trascinare lungo il marciapiede da quello che per lui era solo uno sconosciuto dalla professione sospetta. Un antropologo, in fondo, non sarebbe mai andato in giro per la città a raccogliere ragazzi bagnati di pioggia, così si disse. Qualche passo più avanti, però, si rese conto di essere sotto lo stesso ombrello di Gabriel e rabbrividì. Immaginò che la colpa fosse del freddo, di una folata improvvisa, perché mai nella sua vita aveva provato tanto timore da battere i denti tra loro come un poppante. Così arrestò la traversata e fece stridere le suole sull'asfalto.
Accanto a lui, Gabriel si fermò incuriosito. «Tutto bene?»
«Mi chiedevo dove stessimo andando» disse sottovoce. Aveva ancora freddo, ed era strano dal momento che il suo corpo si era abituato alla gelida temperatura esterna. Sembrava che, improvvisamente, tutto fosse tornato al suo posto. Un chicco di grano scagliato con forza in un lago, sì, ecco cos'era stato quel dannatissimo Gabriel Graham. E quel solo chicco di grano era stato più pesante di un masso.
«Per il momento ci stiamo allontanando» disse. Si guardò attorno circospetto, poi si avvicinò all'orecchio di Randy e, quasi divertito, continuò: «Vorrei evitare che mi scambiassero per un adescatore di minorenni...».
«Chi ti ha detto che sono minorenne?» scattò nella sua direzione. Aveva le sopracciglia aggrottate e gli occhi in fiamme. Per poco non si allontanò completamente dall'ombrello e di certo si guardò bene dal restargli sottobraccio.
Gabriel si portò un indice alle labbra per fargli segno di tacere. «Per favore, non voglio problemi, Randy» biascicò in modo buffo con un occhio chiuso. Sembrava quasi che si stesse rimettendo al suo volere, ma era ovvio che si trattasse solo di una sciocca farsa; per questo l'interpellato schioccò la lingua sul palato e restrinse lo sguardo indispettito.
«Non mi piaci per niente» sentenziò.
Il tono lamentoso e le labbra che volgevano verso l'alto, disse: «Che crudeltà...».
Randy sospirò e incrociò le braccia al petto per impedire a Gabriel di stringersi a lui, tuttavia non si allontanò.
Non aveva alcun interesse nei suoi confronti, ma la sola idea di restare ancora lì, da solo, sotto quella dannatissima pioggia, lo faceva impazzire.
Non aveva un posto in cui andare e nemmeno la benché minima voglia di tornare da dove era venuto, perché farlo sarebbe stata non solo una sconfitta, ma anche una grossa umiliazione.
«Perché hai quello sguardo triste?» gli domandò Gabriel all'improvviso.
Lui batté le palpebre e si rese conto di avere le ciglia piene di lacrime, perciò si trattenne e deglutì.
Detestava quando i pensieri prendevano il sopravvento, quando non riusciva ad avere il pieno controllo di se stesso.
Fece spallucce e tirò su col naso. «Stavo pensando che con tutta quest'acqua devo aver preso il raffreddore...» mentì. «E probabilmente dovrò prendere un antipiretico o qualcosa del genere per tenere a bada i sintomi influenzali.»
«Stavi davvero pensando a una cosa del genere?» Incredulo, Gabriel sollevò un sopracciglio e lo vide annuire. Allora storse appena le labbra e disse: «Non preoccuparti per quello, posso dartelo io».
Randy tornò a guardarlo. «Tu?»
«Certo, se vieni a casa mia ho delle medicine» assentì.
«Frena, pervertito» lo apostrofò. «Era a questo che stavi mirando sin dal principio?» sbottò titubante Randy, spintonandolo e facendolo barcollare lungo il marciapiede; e chissà, forse per la sorpresa o per la vera forza che questi impiegò nel suo gesto, Gabriel finì davvero col perdere l'equilibrio.
Per poco non finì in terra, ma in compenso capitombolò con entrambe le Dior in una pozzanghera più alta delle altre. «Ti ha dato di volta il cervello? Ci sono primati più rispettosi di te!»
Per la prima volta da quando lo aveva incontrato, Gabriel aggrottò le sopracciglia e perse il controllo, sporco com'era di fango fino all'orlo dei pantaloni; così storse il naso e afferrò bruscamente il manico dell'ombrello perduto che aveva urtato una signora di passaggio.
«Mi scusi» borbottò umiliato, a testa china. Le guance appena arrossate e le parole intrecciate in fondo alle corde vocali.
Si voltò fulmineo verso Randy e lo sorprese sulla via della fuga, perciò schioccò la lingua sul palato e, seccato, disse tra sé e sé: «Col cavolo che lo lascio andare così...». Gli fu subito dietro, bastarono una decina di falcate per afferrarlo dal colletto e trascinarlo in un vicolo. «Stai scherzando, vero?» chiese irritato mentre lo sbatteva al muro. «Mi spingi senza motivo, fai cinquecentoventi sterline di danno - più o meno, ma dobbiamo pregare che in tintoria risolvano il problema - e infastidisci una signora di passaggio.»
«Non era mia intenzione» si giustificò automaticamente Randy. Subito dopo, però, si pentì di averlo fatto. Dopotutto quell'uomo non era nessuno e come tale non meritava neppure la sua considerazione. Distolse lo sguardo e sollevò il mento cercando di mostrarsi distante, superiore, quasi menefreghista. «Ma a dirla tutta non è colpa mia se è successo tutto questo» obbiettò.
«No?»
«No» confermò. «Se solo tu non avessi tentato di trascinarmi a casa tua con chissà quali intenzioni non avrei fatto nulla del genere e non si sarebbe instaurato nessun effetto domino. Non ti avrei spinto, non ti saresti sporcato e nessuna signora sarebbe stata importunata; che poi io non so neppure di quale signora tu stia parlando, né di come sia stata importunata. Tutto questo è assurdo!»
Fece per andarsene, quando sentì la presa di Gabriel diventare più forte e opprimente. Restrinse lo sguardo e lo puntò sui suoi occhi di ghiaccio, dopodiché deglutì. Si sentiva come un topo nell'angolo, e la cosa non gli piaceva affatto. «Sei un antropologo o un rapitore?» azzardò.
«Voglio essere ripagato dei danni subiti» disse esplicitamente. «Perciò non m'interessa più il motivo per il quale mi sono avvicinato a te, Randy; le buone intenzioni vengono in un secondo momento.»
«In che modo pensi che io possa ripagarti di cinquecentoventi sterline?» sbottò. «Non lo vedi che non ho niente con me? Vuoi forse che chiami i miei genitori, il mio tutore, qualcuno che legalmente faccia le veci e possa ripagarti del danno da me causato?» chiese scuotendo la testa in modo platealmente ironico. «Sai che non lo farò, Gabriel. Non sarei stato seduto per terra fino a stasera, non puzzerei di cane bagnato e non avrei il raffreddore come un deficiente, se potessi fare una cosa del genere...» Attese qualche istante e lo guardò intensamente negli occhi, sperò addirittura di non sentir dire qualcosa di tanto grottesco come gli era capitato tante altre volte e subito mise le cose in chiaro: «Nessun pagamento in natura».
Gabriel lasciò il suo braccio per portare entrambe le mani in avanti in segno d'innocenza. «Dio, no.» Scosse un poco il capo, immaginando davvero di aver fatto una pessima impressione a Randy, dopodiché sospirò e disse: «Mi basta che tu venga a casa mia».
«Per quale motivo devo fare una cosa del genere?» indagò. «Ho già detto che non ci saranno pagamenti in natura, razza di maniaco, pervertito, che non sei altro...»
«Hai davvero una gran fiducia nell'essere umano!» fece retoricamente.
Randy aggrottò le sopracciglia e rimase in attesa, voleva semplicemente capire dove Gabriel volesse andare a parare con quel discorso. E non voleva interromperlo, non ancora, altrimenti se ne sarebbe pentito, perché più lo faceva più si rendeva conto di non poter comprendere a pieno ciò che questi nascondeva dietro il suo atteggiamento da intellettualoide riccastro.
«Ovviamente, Randy» confermò. «L'ho capito, e non ho intenzione di farti niente, né adesso né quando sarai in casa mia. Il mio interesse nei tuoi confronti è puramente scientifico, sociale se vogliamo usare il termine esatto.»
«Sociale? In che senso?»
«Ti ho già detto che sono un antropologo, no?»
«Dunque?»
«Voglio conoscere la tua vita» disse. «Sapere come sei nato, come hai vissuto, qual è stata la tua tribù di appartenenza e cosa ti ha spinto ad abbandonarla. Una lunga intervista, magari qualcosa di più che una semplice intervista... Possiamo parlare per giorni, dipende da te. Se la tua storia sarà abbastanza interessante dall'intrigarmi potrà diventare il materiale del mio prossimo libro e tu avrai un posto in cui stare per un po'.»
«Questa cosa è assurda» borbottò a mezza bocca. Infilò le mani in tasca e distolse lo sguardo. Deglutì a fatica, perché mandare giù un boccone tanto amaro fu davvero difficile. Immaginare di dover raccontare la propria vita a uno sconosciuto, un qualcuno spuntato fuori dal nulla, lo terrorizzava. «Tu sei senza cuore.»
«Forse. Ma pensaci, Randy, perché dopotutto questo è solo il mio lavoro.» Gabriel tirò fuori il pacchetto di sigarette dalla tasca del cappotto e ne accese una alla svelta. Fece fluttuare una boccata di fumo mentre sorreggeva l'ombrello tra la mandibola e la spalla, infine, guardando Randy, disse: «Tra l'altro, io non so niente di te. Non puoi accusarmi di essere un insensibile».
E lui incassò il colpo. Sotto uno stretto cornicione, con le narici piene di tabacco bruciato e i capelli bagnati, mentre la pioggia impazzava sulle strade di Belfast, Randy dovette chinare la testa sconfitto per ammettere di avere torto di fronte a Gabriel Graham, antropologo e scrittore sperimentale. «Va bene» accettò. «Portami a casa tua e, per quel che vale, ti racconterò la mia storia.»
Note:
Ciao a tutti e benvenuti in quest'avventura.
Quando ho iniziato a scrivere questa storia, mesi fa, non avrei mai pensato che mi sarei mai legata tanto ai suoi personaggi. È stato improvviso, sorprendente, e devo ammettere che la cosa mi piace, perché non succedeva da anni. Al momento avete appena conosciuto Randy Morgan e Gabriel Graham, due dei miei protagonisti che, se volete potete figurarvi meglio entrando nella parte dedicata al cast (o, come piace chiamarli a me, prestavolto).
So che siamo ancora all'inizio, ma posso assicurarvi che nulla è lasciato al caso e che tutte le domande che potreste farvi sin dalla prima riga avranno una risposta nei capitoli a seguire, anche se le più sciocche saranno dilazionate sulla lunga distanza e avranno a che vedere con la macro-trama.
Nella speranza che fin qui vi siate incuriositi, vi chiedo di lasciarmi un commento o una stellina, perché fa sempre piacere.
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