6. Moto

6. Moto

Oltrepassammo indenni anche quella parete. Mi aspettavo un altro corridoio, invece la pendenza variò bruscamente e ci ritrovammo su una rampa che accelerò oltre ogni mia immaginazione verso il basso, come una scala mobile impazzita.

La sorpresa mi sbilanciò anche perché non c'era alcun corrimano, né protezione e il vuoto incombeva attorno, una rampa mobile nel nulla. Jason lasciò la mia mano e mi afferrò giusto in tempo alla vita, stringendomi a lui prima che precipitassi. Non commentammo.

Era buio, ma poco a poco i miei occhi si abituarono e mi resi conto che attorno a noi qualcosa c'era: soppalchi su soppalchi che contenevano qualcosa, non capivo cosa però.

La discesa terminò all'improvviso, ma ero pronta e piantai per bene i miei piedi a terra per evitare di dover essere nuovamente salvata da Jason.

C'eravamo fermati non so a quale piano e come facemmo un passo una luce fioca illuminò ciò che non ero riuscita a scorgere bene prima.

In un attimo mi si chiuse lo stomaco. Era l'aggeggio di Jason, quello con il quale mi aveva quasi investito alcuni giorni prima. Ci trovavamo in un garage.

Lo guardavo attonita quando Jason parlò. "Questo è 153".

Un altro numero? Non so perché, ma provai compassione per la...moto.

Quasi mi avesse sentita, questa rombò, strappandomi un urlo spaventato.

"Ehi, buono!". Ma Jason non ammoniva me, bensì il suo mezzo, che notai con grande sconcerto si teneva in piedi sulle due enormi ruote senza cavalletto.

Era nera, lucente e davvero enorme; più alta e più lunga di qualsiasi moto avessi mai visto. Appena sotto il manubrio c'era una specie di display pieno di tasti e una semi sfera luminosa che sembrava pulsare di vita propria.

Guardai Jason perplessa. "Scusa, ma hai appena sgridato la tua moto?".

Mi sorrise imbarazzato e la indicò. "Ha un brutto carattere", si scusò come riferendosi a un cagnolino non addestrato. "E' semi senziente, programmato per riconoscermi; sai, mi è molto utile nel mio lavoro, essendo collegato al sistema centrale sa esattamente dove portarmi in caso di guasto non riparabile dal mio alloggio". Mi osservò accigliato in attesa delle mie successive domande.

Io però mi limitai ad avvicinarmi alla moto, era bella... Non capivo perché Jason si riferisse a lei come se fosse un'entità maschile. Sempre che gli oggetti potessero avere un sesso, a me sembrava palesemente femmina, bella e decisamente capricciosa.

Posai la mano sulla lucente carrozzeria e pensai a quanto sarebbe stata ancor più strepitosa se fosse stata di un bel viola cromato.

Come nel peggore dei miei incubi, o nel più fantastico dei sogni – semplici punti di vista- la moto diventò esattamente del colore che avevo immaginato.

"Ah!", ritrassi la mano come se avessi toccato una piastra bollente.

"Ma cosa...", attaccò Jason, l'espressione più esterrefatta della mia.

"Scusa...può tornare come prima... vero?". Ero mortificata.

Gli occhi di Jason, incatenati ai miei, passorono dallo stupore a qualcos'altro. Che per l'ennesima volta non capii.

"Ti riconosce", sussurrò rapito.

"Dici?", bisbigliai con fare cospiratorio.

La moto rombò.

Un ghigno entusiasta spuntò sul mio volto, la toccai nuovamente e la immaginai colorata come l'arcobaleno, come un caleidoscopio luminoso, e lei magicamente obbedì.

Risi di gusto. "Ah! Ci voleva proprio un tocco femminile!".

Jason aveva sul viso l'espressione più comicamente disgustata che avessi mai visto, si rivolse alla moto puntandole il dito. "Ti conviene fare da bravo, se non vuoi che ti smonti il processore".

Era troppo divertente. Risi ancora come una matta, gettando la testa all'indietro. Jason mi osservò intensamente e mi sorrise di rimando come se ciò che vedeva gli piacesse molto, moto a parte.

Accarezzai ancora la lucida carrozzeria, in effetti così era un po' pacchiana. Mi concentrai e la resi rossa, lo restò per pochi attimi perchè sotto i miei occhi, senza che io avessi pensato nulla, cambiò ancora e divenne verde. Sollevai gli occhi stupita e Jason era ancora lì che mi sorrideva, indulgente. Capii che mi aveva lasciata fare per divertirmi.

Mentre lo osservavo mi resi conto che il suo fascino aumentava attimo dopo attimo, controllare l'effetto che scatenava su di me stava diventando pericolosamente difficile.

Tornai a guardare la moto e sospirai rasseganata, facendola tornare nera, splendida e dall'aspetto letale. Durò pochi istanti, perché ridivenne viola, il primo colore che avevo scelto.

Jason mi stava ancora fissando, il suo sguardo luminoso e caldo; non potei fare a meno di ricambarlo.

"Grazie", mormorai imbarazzata e lusingata.

"Prego". La sua espressione da serena divenne arcigna mentre si voltava verso la moto. "Ma solo perché c'è lei", precisò indicandomi con un dito.

Tornò a guardarmi. "Andiamo?". Era evidente che non riuscisse a contenere l'eccitazione, così come io il terrore.

Le moto non facevano per me, avevo avuto un piccolo incidente due anni prima, ma non volevo mostrarmi fifona per l'ennesima volta. Poi sembrava sicura, insomma: una moto senziente è difficile che si ribalti...no?

Mi stavo torcendo le mani, cercando di controllare la mia espressione, quando Jason salì a cavalcioni e mi sorrise. Mi avvicinai titubante e sperai intensamente che lei fosse carina con me.

Jason mi tenne una mano, pazientemente, mentre io mi arrampicavo sul mostro viola.

Era altissima, i miei piedi non toccavano terra. Finalmente riuscii a sedermi e alle mie spalle comparve uno schienale alto e una sbarra che mi bloccò la vita. La sensazione fu la stessa di quando si sale sulle montagne russe e i blocchi di sicurezza ti inchiodano al sedile. In quel momento pensi solo che è troppo tardi per scendere e quanto brutta sia stata l'idea di salirci.

Il cuore martellava senza controllo nel mio petto. Cercai di controllarmi per non entrare in iperventilazione; avrei voluto urlare, ma riuscii solo a pronunciare il suo nome, debolmente.

"Jason".

Si voltò a guardarmi, senza dire una parola, forse percependo il mio panico malgrado tutta la mia attenzione a dissimularlo. Portò indietro entrambe le braccia – lui non aveva lo schienale - e afferrò le mie mani, costringendomi a circondarlo. Non feci a tempo a concentrarmi sulla sensazione del suo corpo sotto le mie dita perché una porta si aprì facendo filatrare la debole luce del tramonto, e il motore riprese vita rumorosamente.

La sensazione di montagna russa si ripresentò prepotente, soprattutto perché la moto procedeva dritto verso lo squarcio e io più in là non vedevo nessuna strada. Capii che doveva esserci solo una spiegazione a tale fenomeno: la discesa era molto ripida.

L'adrenalina mi inondò le vene e per fortuna Jason non poteva vedere la mia faccia, doveva essere un'orribile maschera di paura e sgomento. Chiusi gli occhi, ma solo per il tempo sufficiente a cominciare la discesa.

Percepii distrattamente che il panorama era magnifico. La splendida vista era dovuta al fatto che precipitavamo a un angolo assurdo da una distanza di centinaia di metri, su una superficie larga appena mezzo metro e soprattutto senza alcuna protezione ai lati. Le mie braccia divennero morse attorno a Jason, sentivo che avrei potuto frantumargli le costole, se avessi continuato, ma d'altronde mi aveva messo lui in quella situazione.

Pensai con tutta me stessa: Fermati!

E la moto inchodò, senza scartare, senza tentennare.

Ansimavo per la paura e l'eccitazione. Così era anche peggio, sull'orlo del precipizio, in bilico su due ruote.

La moto ripartì, di sicuro sotto comando di Jason, ma i miei pensieri erano incoerenti, volevo scendere e così la moto partì e riinchiodò almeno quattro volte, andando a singhiozzo. A un osservatore esterno la scena sarebbe potuta apparire comica. All'ennesima fermata Jason sciolse appena le mie mani dal suo busto e si girò a guardarmi. Eravamo neanche a metà discesa.

"June, rilassati".

Rilassarmi? Era pazzo. Tenevo lo sguardo basso verso la sua schiena al che con un dito mi sollevò il mento, costringendomi a guardarlo.

"Guardami, ti sembro preoccupato?", chiese con voce calma.

Deglutii a fatica. "Certo che non lo sei. Tu sei fuori di testa".

Spostò lo sguardo lontano, la vista della baia era straordinaria, da mozzare il fiato, ma era poca cosa di fronte alla sua bellezza.

"Voglio che tu mi conosca", pronunciò lentamente. "Questa è la parte del mio mondo che mi fa stare bene". Riportò lo sguardo su di me, sorridendo. "Adesso la apprezzo anche di più".

Mi accertai che fosse serio, e lo era maledettamente. "Si, si, certo...", tagliai corto. Non era il caso di fare conversazione sullo strapiombo, soprattutto se mi toccava sentire certe assurdità.

Il suo sorriso si accentuò. "Mi prometti che adesso te ne starai tranquilla e mi lascerai fare?".

"Ma io non ho fatto niente!", protestai avvilita.

Si accigliò guardando il display. "Sarà un bel problema, soprattutto perché stiamo dando troppo spettacolo, di sicuro fermi quassù spicchiamo più del dovuto".

La paura mi aggrovigliò qualcosa all'interno, ma stetti zitta. Jason digitò sulla tastiera e la moto ripartì, sicura e veloce. Poggiai la fronte contro la sua schiena cercando di non pensare; mi venne spontaneo e la cosa mi turbò, soprattutto perché in risposta sentii una mano di Jason posarsi sulle mie incrociate attorno alla sua vita. Mi chiesi con sgomento passeggero come facesse a guidare la moto con una mano sola, ma era meglio non porsi certe domande.

Cercai con tutta me stessa di non pensare a niente e di godermi la sensazione di vento nei capelli e, stentavo ad ammetterlo con me stessa, la mano di Jason sulle mie.

Fu più facile del previsto e più piacevole. La paura era passata, aveva ceduto il posto a una folle esaltazione. La velocità era inebriante, così riaprii gli occhi e mi concentrai sulla città, così uguale e così diversa allo stesso tempo dalla mia. La luce stava cedendo il posto all'oscurità, e il silenzio accresceva il senso di irrealtà e di magia. Era tutto straordinario.

Osservai i capelli disordinati di Jason e il suo profilo. Vidi le sue guance sollevarsi: sorrideva.

Di sicuro si stava godendo anche lui il panorama. Era difficile riuscire a credere che fino a qualche giorno prima mi terrorizzasse; eppure sapevo che poteva tornare in qualsiasi momento a essere il demone che avevo conosciuto anche se - e di questo ero sicura - da lui non avrei avuto mai niente da temere.

Sfrecciavamo per la città silenziosa; in giro si vedevano poche persone che camminavano piano e che non si rivolgevano neanche uno sguardo, per fortuna non osservavano neanche noi.

Arrivammo nella parte alta della città dove la baia, il ponte e tutte le bellezze di quella impossibile San Francisco sembravano lì per noi, immerse nel silenzio. Jason si fermò.

Si voltò a guardarmi con lo sguardo acceso, un sorriso appena accennato. Sfiorò la mia protezione e quella si ritirò, liberandomi.

Mi sentivo euforica e scarmigliata, ma non mi importava. Stavo vivendo l'esperienza più unica e irripetibile della mia vita, poco importava che fosse un sogno. Per un attimo, incrociando lo sguardo di Jason, desiderai di non dovermi svegliare mai. Iniziai a sentire il mio battito amplificato e per quanto impossibile, mi pareva di sentire anche il suo cuore che batteva all'unisono con il mio.

I nostri volti erano vicinissimi, i nostri sguardi incatenati. Conoscevo quella sensazione, l'avevo già vissuta. Era un comando che mi imponeva di avvicinarmi a lui, ancora di più, di avvolgerlo con le braccia e di poggiare le mie labbra sulle sue. Era un desiderio pressante e travolgente e dentro di me sapevo che avrei ceduto, soprattutto perché da lui provenivano le stesse ondate di carica elettrica. Senza liberarmi dal suo sguardo bruciante mi mise una mano sulla nuca, intrecciando le dita ai miei capelli e si mosse lentamente verso di me. Sentivo il mio respiro farsi più pesante e a un certo punto, concentrandomi sul suo sguardo, vidi i miei occhi e mi ricordai il perché avevo rifiutato sin dall'inizio di pensare a Jason in quel senso. Lui era me. E quindi la rotta che stavamo per intraprendere era completamente sbagliata, amorale.

Annaspai, chiedendomi perché Jason con tutta la sua sagacia non ci arrivasse e non ci liberasse da quella attrazione impossibile. Il mio sguardo dovette dirgli qualcosa, perché si arrestò a pochi centimetri da me e si allontanò di scatto, facendo scivolare via la sua mano, ma non distogliendo lo sguardo.

Io con uno sforzo immane ci riuscii e mi schiarii la gola, fingendo di osservare il panorama.

"E' proprio bello da qua", mormorai ancora scossa.

"Si, è vero".

"Posso scendere da Tracey?".

"Tracey?".

Cercai di darmi un tono. "Sai, mi stupisce che tu non l'abbia capito, ma la tua moto è una lei, ho deciso di chiamarla così".

Sembrava seccato. "Non ti basta averle cambiato il colore?".

Scossi la testa, finalmente di nuovo padrona di me. "Non credi sia molto meglio di 153?".

Jason non fece in tempo a rispondere, perché Tracey, sotto di noi rombò entusiasta. Non potei fare a meno di ridere.

"Bene, bene", disse Jason alternando occhiate a me e alla moto. "Vi siete coalizzati, anzi coalizzate contro di me?".

Senza aggiungere altro scese dalla moto con grazia e tese le braccia verso di me.

"Ce la faccio", sbottai già dandomi da fare per smontare.

Jason sbuffò e mi tirò giù senza troppi complimenti afferrandomi per la vita.

"Ehi!", mi lamentai di fronte alla sua prevaricazione, schiaffeggiandogli le mani. Avevo bisogno della massima distanza tra noi, per non farmi riattrarre dal buco gravitazionale che scatenava.

Ridacchiò e scosse la testa fra sé.

Oramai era quasi buio, solo la luna mi aiutava a distinguere i contorni della baia, dei palazzi alti e alieni. Proprio in quel momento la città si illuminò lievemente, in un modo talmente bello da lasciarmi a bocca aperta.

Le luci della città non erano tutte uguali, ogni singola luce era di un colore diverso, si adattava perfettamente a ciò che doveva illuminare, creando una scenografia magica e surreale. Tutto appariva in armonia, niente faceva rimpiangere la luce del sole in quel momento, era uno spettacolo che sopraffaceva, come davanti al più bello dei quadri di un famoso pittore del passato.

Man mano che l'oscurità aumentava le luci diventavano più intense, accrescendo l'effetto palcoscenico. Non potei fare a meno di pensare che dovesse essere l'opera di un grande artista. Mi girai di scatto verso Jason, rendendomi conto che era lui l'artista.

"Jason, è splendido", sussurrai meravigliata.

Mi sorrise, con un velo di malinconia dello sguardo. "Vedi? Anche a me piacciono i colori". Sprofondò le mani nelle tasche. "Loro pensano che esageri, spesso mi riprendono per questo", continuò indicando la città splendente.

In un attimo realizzai che Jason cercava di rendere più sopportabile quella sua vita sterile fatta di notti insonni, creando bellezza e luce al posto dell'oscurità. Mi sentii improvvisamente in pena per lui, doveva provare una profonda solitudine, avrei tanto voluto stringergli la mano, ma non era il caso.

Mi consolavo pensando che adesso – anche se in uno strano modo - aveva me, non era più solo. Anzi, non eravamo più soli, dovevamo solo definire in che modo coesistere.

Pensare alla sua solitudine mi fece venire in mente una cosa.

"Jason, dove sono i tuoi genitori?". Parlai a voce bassa, per non spezzare l'incantesimo.

Sollevò appena le spalle. "Non lo so. La nostra coscienza inizia a quindici anni, quando veniamo introdotti al nostro lavoro".

Distolsi lo sguardo dal mare per fissarlo, ogni sua rivelazione era uno shock. "Che intendi dire?".

Guardò verso il basso. "Io non ricordo la mia vita prima del quindicesimo anno di età. Qui è per tutti così". Mi lanciò un'occhiata di sbieco "Da voi non è così vero?".

Scossi la testa. "Io ricordo tutto della mia vita. Certo, i veri ricordi iniziano più o meno dai quattro anni... ma certe cose, forse, sarebbe meglio non ricordarle", cercai di ironizzare, ma Jason non parve apprezzare il mio sforzo, si limitò a fare una smorfia, lo sguardo ancora basso.

Non capivo. "Tu però sai un sacco di cose per avere neanche diciannove anni. Guarda cosa sei capace di fare!", dissi veementemente indicando la città.

Sospirò, guardandomi con concentrazione. "Noi veniamo... programmati. Ci vengono inculcate delle conoscenze. Sono i superiori a decidere cosa inculcarci". Parlò in fretta, come per liberarsi di un peso. "Loro decidono il corso della nostra vita, decidono tutto".

Aveva posto l'accento su quell'ultima parola, quindi cercai di capirne il significato, ma come sempre brancolavo nel buio. "I superiori hanno mandato i guardiani, vero?".

"Sì, è una delle loro mansioni, una delle decisioni che possono prendere".

"Quale altra decisione potrebbero prendere?". Non so perché, ma avevo paura della risposta, sentivo come un presagio di catastrofe.

Jason esitava, sembrava restio a rispondermi. Fissava il mare, con sguardo omicida e labbra strette. Quando rispose non mi guardò. "Al compimento del diciottesimo anno di età ci assegnano una compagna". Pronunciò la frase con rabbia e scherno.

Io trattenni involontariamente il respiro, cercando di dare un senso alle sue parole, gli occhi sbarrati per la sorpresa.

A questo punto mi stava guardando, con lo stesso sguardo nero e furioso di prima. Io sbattei le palpebre mentre cercavo di capire cosa chiedergli.

"Quindi... vi combinano i matrimoni? Hai una compagna?", chiesi cercando di non mostrare il panico che non avrei dovuto provare.

La sua espressione tornò distaccata e parlò con voce piatta. "Ho ricevuto ben tre convocazioni nell'ultimo anno, che ho sempre disertato".

Adesso nei suoi occhi c'era una scintilla fiera, di orgoglio. "Si stanno spazientendo, tenendo conto che sto per compiere diciannove anni. Non capisco perché non mi abbiano ancora eliminato, avrebbero avuto più di un'occasione e di un motivo prima che arrivassi tu".

Intanto mi ero poggiata a Trecey, avevo bisogno di sostegno e quando parlai, fui lieta che la mia voce non tremasse. "Lei non ti piace?". D'altronde nel mio mondo le cose erano andate così per secoli, non dovevo stupirmi.

Lui, che era rimasto di spalle, si voltò a guardarmi e nei suoi occhi vidi dolore e confusione. Mi guardò per un tempo che mi parve interminabile e quando parlò, lo fece con sdegno. "Neanche la conosco, le convocazioni servono a quello".

Pensai al pericolo che correva e non potei fare a meno di dirgli ciò che pensavo anche se il dolore - irrazionalmente- avrebbe potuto spezzarmi il cuore. "Forse dovresti darle una possibilità", sussurrai a testa bassa. "Conosci qualcun altro che si sia ribellato alla convocazione?".

"Non che io sappia...". Si interruppe bruscamente. "June, tu hai già un compagno?".

Sentivo sorpresa e ansia nella sua voce. Probabilmente anche lui provava il mio stesso inspiegabile panico.

Ridacchiai, anche se ero poco divertita. "No, Jason, noi ce li scegliamo i compagni...e io sono troppo giovane per averne uno seriamente. Nel mio mondo nel corso della vita si sta solitamente con più persone prima di trovare il compagno...". Socchiusi gli occhi in cerca del termine adatto. "... Definitivo".

La rabbia che comparve sul suo viso mi sorprese, il suo volto era furioso, invece che ammirato verso la nostra magnanima realtà. Si avvicinò a me a grandi passi e io rimasi immobile a fissarlo, mentre inspirava ed espirava come a volersi calmare. Quando parlò la sua voce tremò di rabbia. "E tu adesso stai con qualcuno?".

I miei pensieri corsero a Matt, alla parentesi rosa più breve della storia. Pensai a quanto poco mi ero sentita coinvolta da lui e al modo in cui mi ero sentita sollevata quando era finita.

Il mio silenzio lo stava incupendo ancora di più, perciò mi affrettai a rispondere. "No, ora non sto con nessuno".

Ci guardammo attenti. La rabbia era scomparsa, ma lo sguardo era accusatorio, lo sentivo arrivare dentro di me, nell'anima, facendomi sentire stupidamente in colpa. Ridicolo! Incrociai le braccia e strinsi le labbra, in quel momento eravamo più simili che mai.

Stavo per continuare con qualche frase velenosa a effetto, ma mi sentii vibrare. Mi stavo svegliando. Forse era un sollievo, forse.

Non cambiai la mia posa, ero troppo irritata dal suo atteggiamento. Cosa sapeva lui di me e perché mai mi giudicava? Per essere il mio alter ego era sin troppo irritante.

"Ciao Jason, ci si vede", dissi freddamente.

Jason tradì un attimo di sorpresa, ma poi la sua espressione tornò severa e fece un passo indietro, guardandosi ansiosamente attorno. Non voleva testimoni, di sicuro.

Riaprii gli occhi in un oceano di dolore, come sempre. I capelli oramai sciolti mi coprivano gli occhi, mentre mi contorcevo e tentavo di soffocare i gemiti. Dovevano essere almeno le otto e mezzo, considerando la luce che filtrava dalla finestra. Era necessario che mi riprendessi in fretta, prima che mio padre mi trascinasse con forza all'ospedale, magari facendomi operare per una presunta appendicite.

Il tatuaggio si fece sentire chiaramente, anche in mezzo all'agonia, tanto forte da sconcertarmi. Sapevo cosa significava. Spalancai gli occhi e in quel momento comparve Jason accanto al mio letto. Ci si sedette sopra con attenzione e mi prese per le spalle, facendomi poggiare la testa sul suo petto.

Cercai di spostarmi. "Ma che fai?!", sibilai con un rantolo.

"Shh, passerà prima, vedrai", sussurrò al mio orecchio, senza smettere di stringermi.

Aveva ragione: i sussulti del mio corpo si placarono in pochi minuti e fui di nuovo in grado di pensare con lucidità; nonostante ciò rimasi immobile ancora un po', godendomi quel momento di pace assoluta, di completezza assoluta.

Soffrii all'idea di staccarmi da lui e soffrii della mia sofferenza.

Quando alzai gli occhi verso di lui, non c'era più traccia di rabbia e  risentimento.

Finalmente riuscii a scostarmi un po'. Ero imbarazzatissima e spaventata. "Jason, ci sono i miei, che diavolo ci fai qui!", bisbigliai terrorizzata.

Mi sorrise. "Vado via tra cinque minuti, volevo solo che non soffrissi al tuo risveglio. Ho notato che se siamo vicini non fa così male".

Restai basita. Affrontava il rischio di dormire all'aperto... per non farmi soffrire. Per non parlare del dolore al suo risveglio. Mi contrariai. "Che idea geniale, adesso starai male tu".

Le sue braccia non mi lasciarono e neanche il suo sorriso. "Ti ho detto di non preoccuparti per me".

"Mi spiace io non posso programmarmi per ricambiare il favore", precisai sarcastica.

Jason rise piano, scuotendomi lievemente contro il suo ampio e caldo torace.

Improvvisamente mi resi conto che volevo dargli qualcosa di mio, insomma... ricambiare la gentilezza. Mi guardai attorno pensosamente.

"Ciao June, se vuoi tornerò stasera".

Quella promessa mi riempì di gioia improvvisa, pura e cristallina. Afferrai al volo il mio minuscolo lettore mp3 dal comodino e glielo misi in mano.

"Cos'è?", chiese stupito, fissando l'oggetto e poi me.

Sorrisi. "Penso che dovrai scoprirlo da te. Ti piacerà".

Jason se lo cacciò in tasca e mi ripoggiò dolcemente sul letto, alzandosi con grazia. Mi guardava senza parlare, con un filo di ansia nei bellissimi occhi.

Mi ricordai di dovergli una risposta. Io pensavo che fosse ovvia: certo che volevo che tornasse.

"A stasera", gli dissi sicura.

L'ansia sparì magicamente dal suo viso, rimpiazzata da un'autentica espressione di gioia e sollievo. Se non fosse stato così bello da cancellare ogni mio altro pensiero coerente, avrei sicuramente riso. E così sparì.




Ciao a tutti! Spero che la storia di June e Jason vi stia piacendo... Se vi va fatemi sapere qui sotto cosa ne pensate!

                                                                                                                                                                           B.


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