4. Intero
4. Intero
Oramai sapevo cosa aspettarmi, eppure ne rimasi comunque sconvolta.
Era il luogo dove tutto era iniziato: il Golden Gate Bridge. Se non fossi stata circondata non da una, bensì da una decina di nere figure minacciose, sarebbero stati il silenzio, il buio e i lampi a terrorizzarmi. Era agghiacciante.
Mi guardai attorno per capire meglio in che guaio mi fossi cacciata e mi ci volle davvero poco a comprendere che non avevo scampo; stavolta non c'era via di fuga.
Gli uomini in nero (non sapevo come altro definirli) sembravano interdetti, anche se era difficile dirlo senza poter vedere i loro volti. Lo si intuiva dall'immobilità dei loro corpi, sembravano esitare.
Qualcosa mi portò a voltarmi e fu in quel momento che mi accorsi che non ero sola all'interno del cerchio formato da quegli strani esseri scuri. Uno di loro era all'interno con me e mi fissava insistentemente con gli occhi sbarrati, gli stessi occhi che da giorni mi perseguitavano nei miei incubi.
Eravamo ad alcuni metri di distanza. Lui fece un passo nella mia direzione e io istintivamente indietreggiai.
La situazione era critica: davanti a me lui. Dietro di me e tutt'intorno tanti altri.
Il silenzio era rumorosissimo, i tuoni rimbombavano e i lampi gettavano su di noi luci bianche e rosse, ma non pioveva ancora.
Uno di loro, del quale potevo notare solo gli occhi nerissimi, iniziò a avvicinarsi a me risoluto, abbandonando la sua posizione senza ombra di incertezza. La mia testa si voltava freneticamente da una parte all'altra, cercando disperatamente una via di fuga. In quel momento ricordai cosa avevo alla cintura e senza pensarci afferrai il coltello tenendolo basso, lungo la gamba.
Non parve preoccuparsene. Quando arrivò di fronte a me non esitai, caricai con forza il braccio e lo colpii all'addome. La lama volò via dolorosamente dalla mia mano, come se avesse colpito roccia e non carne. Alle mie spalle sentii trattenere il respiro.
Il cerchio continuava a chiudersi attorno a me, no, non solo a me, a noi.
Per un attimo distolsi lo sguardo da colui che avevo appena tentato di uccidere e lo portai su di lui. Non capivo perché il mio demone alternasse occhiate furenti ai suoi simili a sguardi evidentemente ansiosi verso di me, non aveva senso. Come se anche lui fosse in pericolo, come se gli altri non fossero lì solo per me, ma anche per lui.
Mentre lo osservavo il tempo sembrò fermarsi. Inaspettatamente, in un battito di ciglia, fui consapevole che lui era l'unico soggetto a fuoco di tutto quel quadro sconvolgente, l'unica cosa importante. Il fatto che potesse essere in pericolo divenne improvvisamente inaccettabile, poco importava che sentissi ancora sfuggire il dettaglio che sapevo avrebbe dato un senso a tutta quella follia.
Il tempo riprese a scorrere mentre correvamo l'uno verso l'altra. Non lo avevo deciso, il mio corpo era scattato come in risposta a un ordine superiore. Sentii alle mie spalle una mano afferrare un lembo della mia maglietta, ma sfuggii miracolosamente alla presa.
Non ero mai stata così veloce.
Forse era destino, forse dovevo morire per mano sua e di nessun altro.
Accadde in fretta. La raggelante calma li abbandonò. Adesso tutti correvamo, cacciatori e prede, ma prima che il cerchio si chiudesse come una morsa attorno a noi, lui tese le braccia, ma stavolta non per colpirmi; mi circondò, e un altro lampo, più forte di tutti gli altri, abbagliò la mia vista e fece cambiare scena.
Non eravamo più sul ponte, precipitavamo in mare da esso.
Vedevo l'acqua avvicinarsi a velocità impressionante e il terrore mi impedì di emettere anche il più flebile urlo. Quanti metri erano? Conoscevo la risposta: più di sessanta. Quanta gente era morta gettandosi dal ponte... Era stata messa una rete anti-suicidi proprio per tale motivo, ma in quello strano mondo neanche l'ombra.
Sapevo che se fossi entrata in acqua di testa mi sarei rotta l'osso del collo, ma non potevo fare niente. Solo serrare bene gli occhi e dire addio alla mia vita.
Il ragazzo che continuava a stringermi forte sembrò pensare la stessa cosa perché allargò un braccio e ci rimise elegantemente in assetto verticale, con i piedi verso l'acqua, dopodiché mi portò il capo tra la sua spalla e il volto, poggiando mano e braccio a protezione dalla mia testa.
Il volo durò pochi secondi, l'aria sfilava veloce su di noi, il silenzio era rotto solo dal boato assordante dei tuoni. Non ebbi tempo per pensare all'oceano che ribolliva oramai a pochi metri, sempre più vicino.
Presi fiato, o per lo meno tentai, perché ansimavo per la paura, dopodiché entrammo in acqua veloci come proiettili. I miei denti tremarono per l'impatto e sentii come una scossa ripercuotersi per tutto il corpo.
Non mollò la presa mentre quasi svenivo per lo shock; quel poco di ossigeno che avevo in corpo mi abbandonò in un rantolo. Bevvi.
Mi sentii sprofondare nel gelo e, subito dopo, trasportare verso l'alto, leggera, veloce, senza peso. Riemergemmo dopo un attimo e l'aria, di nuovo presente nei miei polmoni, mi fece tossire.
Iniziai a dibattermi debolmente, per lo meno le gambe mi funzionavano ancora, era già qualcosa. Tentavo di ribellarmi, anche se non sapevo esattamente che fare.
L'unica soluzione possibile sarebbe stata svegliarmi, ma con tutta la stanchezza arretrata, dubitavo che avrei riaperto gli occhi a breve.
Tentò di bloccarmi, ma io non stavo ferma, annaspavo con le braccia e le gambe, tossendo e urlando per quel che riuscivo, il freddo era quasi insopportabile.
Lui continuava a non parlare – forse era muto- e, improvvisamente, mi tirò uno schiaffo al volto. Più che farmi male mi lasciò basita, lo fissai a bocca aperta e lo vidi alzare gli occhi al cielo, esasperato... Incredibile! Approfittò della mia indignazione per passarmi un braccio attorno alla vita e iniziare a nuotare sul dorso. Era velocissimo, lasciavamo una scia dietro di noi, come un motoscafo, come se avessimo un motore attaccato.
Pochi minuti dopo approdammo su un isolotto sassoso, stranamente familiare. Alcatraz? Senza il carcere era difficile esserne sicuri, ma niente poteva stupirmi a questo punto...
Mi lasciò dopo avermi issato sulle rocce. Iniziai a gattonare tentando di allontanarmi da lui, continuando a tossire, a tremare e ad ansimare.
Adesso diluviava. La pioggia mi scorreva tra i capelli e negli occhi. Lui si chinò di fronte a me e lasciò che la strana pelle lo scoprisse. Registrai che al di sotto era asciutto, anche se non lo sarebbe rimasto per molto. Man mano che si scopriva l'acqua lo inzuppava. I capelli color miele grondavano quanto i miei, le gocce cadevano dal suo naso, dalle labbra perfette e i vestiti gli si attaccarono al corpo. Non sembrava curarsene. Continuava a fissarmi con sguardo contrito - addolorato - e per la prima volta parlò.
"Riconoscimi". Pronunciò quell'unica parola con voce limpida e calda, lasciandomi a bocca aperta per l'ennesima volta. Avevo pensato che non parlasse la mia lingua, anzi, che non parlasse affatto!
Prima ancora che riuscissi a dare un senso a ciò che aveva detto, lo vidi scostarsi la maglietta al di sotto dello scollo. Attraverso le gocce di pioggia notai che aveva una specie di tatuaggio: due linee che si intrecciavano, a spirale. Sbattei le palpebre per schiarirmi la vista e automaticamente la mia mano corse al mio petto.
Adesso il suo sguardo era intenso, cercava di comunicarmi qualcosa, ma io ero allibita: non poteva essere lo stesso segno e poi perché?
Mi alzai di scatto e arretrai, i tremori scacciati dall'improvvisa ondata di adrenalina. Lui mi raggiunse e con esitazione scostò anche la mia t-shirt. Non riuscii a oppormi e vidi il suo sguardo concentrarsi su quello strano segno che era molto simile al suo, solo meno evidente.
Come era accaduto poco prima sul ponte, il tempo si fermò. Sentivo i nostri respiri amplificati, in mezzo al frastuono della tempesta e la sensazione di familiarità verso quello stupendo ragazzo aumentò, crebbe di intensità fino a che la verità mi mozzò il respiro facendomi barcollare.
Le sue mani si strinsero forti alle mie spalle - forse aspettandosi quello che sarebbe successo - trattenendomi ancor prima che la sconvolgente rivelazione assumesse un senso pieno nella mia testa e mi facesse cadere.
Lui era me.
Nel momento stesso in cui compresi un dolore mostruoso si sprigionò nel mio petto, insieme a un fascio di luce bianca e fredda. Continuò a tenermi stretta mentre mi adagiava a terra, ancora stordita dal dolore, ancora incredula; le nostre figure illuminate da quello strano bagliore, il suo volto preoccupato, vicino al mio mi scrutava con angoscia.
"June", disse semplicemente, con voce tenera. Il suono del mio nome, pronunciato da lui, mi scaldò nel profondo e alla fine vibrai.
Aprii gli occhi sul pavimento della mia stanza, fradicia e dolorante. Mi sentivo come se un camion mi avesse investita, i soliti mille aghi mi trafiggevano. Quanto sarebbe durato il dolore stavolta? Mi raggomitolai su me stessa, stringendomi le mani al petto e gemendo senza ritegno, tanto la casa era vuota.
Passarono alcuni minuti - credo - dopodiché mi accorsi che non ero sola. I miei erano tornati prima? Pensiero assurdo, doveva essere l'alba, ma non mi importava in quel momento, potevano fare di me ciò che volevano.
Una mano calda si posò sui miei capelli, scostandomeli dal viso. Di nuovo con gli occhi chiusi, non capivo chi fosse, non volevo capirlo perché non avrei potuto accettarlo.
"Adesso passa", mi sentii sussurrare all'orecchio.
Trasalii senza aprire gli occhi e in un attimo mi sentii sollevare da terra e posare lievemente sul letto.
"Dormi", continuò la voce dolce e calma.
Era pazzo? Anche in mezzo all'agonia sapevo che non era una buona idea.
Riuscii solo a balbettare: "N-no, non v-v-voglio t-to-ornare lì".
"Non andrai da nessuna parte, te lo prometto".
Non so perché, ma gli credetti.
Mi svegliò la luce che filtrava forte dalla finestra. Mugugnai qualcosa, sospirai e mi rigirai nel letto. Era da tanto che non mi sentivo così riposata, tuttavia l'umido che mi sentivo addosso, così come qualche giorno prima, mi riportò di botto alla realtà. La paura mi avvolse e non ebbi il coraggio di aprire gli occhi.
Anche così era impossibile non avvertire la sua presenza nella stanza, che lui fosse lì era una consapevolezza assoluta e pazzesca. Aprii soltanto un occhio, esitando, e lo vidi di spalle che osservava la mia libreria, i capelli disordinati... Sembrava un ragazzo normalissimo, certo molto più bello della media.
A quel punto la curiosità ebbe la meglio sulla paura e lo osservai apertamente, seduta sul letto e ringraziando ardentemente che i miei fossero via. La sua testa scattò e si voltò.
Ci osservammo con attenzione per un lunghi secondi, dopodiché lo vidi sorridere, come per qualcosa di divertente. Perfetto, gli avevo procurato un bel moto di ilarità. La cosa mi infastidì notevolmente, però forse significava che non mi avrebbe uccisa subito.
"Ciao", disse semplicemente, avvicinandosi con circospezione.
Automaticamente arretrai contro il letto, guardinga. Fidarsi è bene, ma non fidarsi è sempre meglio.
Rimase a fissarmi dai piedi del letto, in attesa, al che capii che era giunto il momento di dire qualcosa.
"Ciao". Bene, ora toccava a lui.
Vidi i suoi occhi brillare, furbi, leggermente meno freddi del solito. Che cosa strana, me li ricordavo verde smeraldo. Adesso tendevano al giallo... Come i miei...
Probabilmente intuì cosa stavo pensando perché mi disse: "Forse è meglio se ti dai un'occhiata".
Sollevai un sopracciglio, dimenticando per un attimo la mia paura. Che intendeva dire? Di sicuro non avevo un bell'aspetto, ma che si aspettava?
Saltai giù dal letto e a passo spedito marciai verso il bagno, con lui alle calcagna. Giunta alla porta mi voltai e lo fulminai con lo sguardo. "Mi lasceresti un po' di privacy almeno in bagno?".
Si passò nervosamente una mano tra i capelli, esitando a rispondermi. "Ehm... Tra un attimo".
Ancora una volta non capii, per cui lasciai perdere, aprii la porta e mi specchiai.
"Oh!", esclamai.
I miei lunghi capelli, arruffati dall'acqua e dalle varie peripezie di quella notte, erano striati di biondo oro, come se avessi appena fatto i colpi di sole.
"Oh no!", mi lamentai, passandoci una mano. "Che vuol dire?", urlai con gli occhi spalancati.
"Non lo so", rispose con la calma più assoluta. "Però ti stanno bene".
Continuava a sorridere, come se il fatto che adesso sembrassi davvero la tipica ragazzetta californiana - che deve essere bionda a tutti i costi - non fosse una grandissima tragedia.
"Guarda i miei occhi, anche io ho avuto qualche cambiamento", continuò avvicinandosi allo specchio e fissandosi con aria meditabonda. "Mi piacciono". Si voltò a guardarmi intensamente e proseguì: "Davvero".
Deglutii, inspiegabilmente imbarazzata, e improvvisamente mi tornò in mente il segno che avevo addosso. Abbassai la maglia.
"Oh merda! Merda, merda! Mi uccideranno!".
Il tatuaggio nerissimo e in bella mostra sulla mia pelle era identico al suo. Era troppo, davvero troppo. Mi girai, incrociai le braccia e sbottai.
"Ma si può sapere chi diavolo sei?".
Tornò serio. "Mi chiamo Jason".
Jason? Mi ero aspettata un Kobi, Sik, Astar o qualcosa di simile. Non ci capivo niente.
"Jason e poi? Non ce l'hai un cognome?". Non che la cosa fosse poi così rilevante in mezzo al tutto.
Mi osservò perplesso. "245".
Arricciai il naso, non capendo. "Scusa, ma il tuo cognome è un numero?". La cosa era incomprensibile.
Ghignò, mostrando la sua dentatura perfetta da pubblicità del dentifricio. "Vuol dire semplicemente che sono il duecentoquarantacinquesimo Jason della mia città".
Cosa potevo rispondere? Senza pensarci riosservai la mia figura allo specchio e altri particolari mi saltarono agli occhi, primo fra tutti il mio trucco sbavato che mi dava un'aria decisamente equivoca. Distolsi in fretta lo sguardo.
"E' tutto molto interessante", precisai acida. "Adesso però dovresti lasciarmi sola, sai devo fare una doccia o mi prenderò una polmonite con tutta l'acqua che mi sono buscata... Hai presente no?".
Uscì arretrando, continuando a fissarmi con aria divertita. Ero troppo imbarazzata dal mio aspetto, non riuscivo a guardarlo, perciò mi limitai a osservare il pavimento.
Mi schiarii la voce. "Troverai la porta al piano di sotto. Addio". Detto questo gli voltai le spalle e chiusi a chiave la porta del bagno, sempre più confusa. Non lo sentii muoversi perciò appoggiai l'orecchio alla porta e chissà perché ebbi la sensazione che anche lui stesse facendo lo stesso. Mi ritrassi di scatto e mi immobilizzai per un istante, dopodiché con un certo sforzo - ma non poi quanto mi aspettavo- trascinai il mobile degli asciugamani contro la porta. Decisi che sarebbe stato sufficiente a tenerlo lontano per il tempo della doccia e tentai di rilassarmi sotto il getto dell'acqua calda, sempre tendendo l'orecchio. Situazione surreale.
Dubitavo che se ne sarebbe andato, stava succedendo qualcosa di veramente strano e lui era probabilmente l'unica persona in grado di spiegarmi l'intera questione.
Terminata la doccia mi accorsi con sgomento che non mi ero portata appresso il cambio pulito. Indossai il mio accappatoio di spugna bianca e mi pettinai con disgusto osservando la mia nuova chioma. Speravo fosse qualcosa di transitorio, come dovuta all'improvvisa esposizione a qualche sostanza radioattiva. Le nuove radici sarebbero state scure no? Non mi convinceva... D'altronde i suoi occhi... Dubitavo che sarebbero tornati a essere verde ghiaccio. Non che mi importasse di lui... Mi feci coraggio stringendomi nell'accappatoio, spinsi via il mobile e aprii la porta trattenendo il respiro. Non c'era.
Sarei dovuta essere sollevata e invece mi sentii preda dell'angoscia. Dimenticai la mia goffa mise e mi precipitai in camera. Niente. Neanche in corridoio. Sospirai agitata e mi soffermai davanti alla camera di Peter: era aperta. Sbirciai all'interno e lo vidi che osservava i modellini degli aerei e delle astronavi di mio fratello appesi al soffitto. Era rapito dai suoi poster e da tutta quella paccottiglia per me incomprensibile.
"E' la camera di mio fratello", dissi tanto per fargli capire che lo osservavo.
Si voltò a guardarmi e notando la mia tenuta mi sorrise. Ma non con un sorriso qualsiasi... Sembrava tenero, perché? Mio malgrado avvampai di rossore, di sicuro dovevo essere ridicola, feci dietrofront e mi chiusi in camera. Stimai che la semplice chiusura a chiave potesse bastare e mi vestii velocemente. Optai per short e canotta. Meglio essere pratici. Infilai le infradito e riuscii nell'andito.
Mi aspettava all'inizio delle scale e mi precedette in silenzio di sotto, nel salone deserto.
A differenza della camera di Peter il resto della casa sembrava essergli familiare, la cosa mi sconcertò alquanto. Si sedette sulla poltrona di mio padre e mi fissò senza aprire bocca. Era esasperante, possibile che dovessi estrargli le parole con le pinze?
Presi posto sul divano accanto alla poltrona, ma non riuscivo a gurdarlo bene in faccia, per cui mi allungai e ruotai la poltrona verso di me. Sorrise, ma mi lasciò fare.
"Allora, Jason 245", esordii con fare disinvolto. "Hai ancora intenzione di uccidermi?". Mi sembrava decisamente la domanda fondamentale.
Sbatté le palpebre e la sua faccia divenne un susseguirsi di emozioni: sorpresa, incredulità, rabbia, dolore. Si ricompose in fretta e scosse la testa. "Certo che no, June Roth".
Mi morsi il labbro, sembrava sincero... Potevo accettarlo con riserva. Ma era essenziale che chiarissimo cosa era successo nella notte. In quel momento mi ricordai una cosa che era successa in acqua e spalancai la bocca.
"Tu mi hai colpito!", esclamai puntandogli il dito contro.
Rimase sorpreso. "A parte il fatto che 'colpito' è una parola grossa", esordì con sarcasmo. "Sarebbe stato un vero peccato se alla fine, dopo essere scampata al mio attacco e a quello di otto guardiani, ti fossi uccisa da sola annegandoti stupidamente".
Ci osservavamo con attenzione adesso, valutandoci.
"Ok, mi arrendo", dissi sollevando le mani. "Mi spieghi qualcosa o devo far finta che tutta questa storia sia normale? Mi spiace, ma ti avverto che farò un po' fatica".
Sospirò. "Non penso di saperne molto più di te".
"Ne dubito fortemente", sbottai rapida. "Innanzitutto sapevi come mi chiamavo, sapevi che avrei avuto anch'io questo tatuaggio", proseguii indicando il mio petto "e inoltre sembri cento volte meno stupito di quanto non fossi io di trovarti qui. Dimmi da dove vieni, ossia dove sono stata nei miei ultimi sogni".
Sembrava a disagio, temporeggiava osservando l'arredamento. La tv lo attirava particolarmente.
Non mi arresi. "Pronto? Ci sei?". Mi sentivo un'idiota, continuavo a fissarlo incapace di distogliere l'attenzione da lui e lui neanche mi considerava.
"Scusami, qui è tutto così strano...", blaterò con aria pensosa.
"Vuoi rispondermi o no?", insistetti imperterrita.
Riportò l'attenzione su di me e si fece serio. "June, hai mai sentito parlare di realtà parallele?".
Gemetti interiormente. Fantascienza. Mi avrebbe fatto comodo mio fratello, era molto più pratico di queste faccende. Io a Discovery Science preferivo Discovery Civilization.
Annuii cautamente, cercando di non mostrare troppo palesemente la mia ignoranza in materia. Continuava a fissarmi, ora sorridendo divertito. Non se l'era bevuta.
Capitolai. "Uff. D'accordo, lo ammetto, non ne so un'acca".
Il suo sorriso si allargò. "E' normale che tu non ne sappia niente. Qui siete molto indietro".
"Ah, tante grazie!".
Rise apertamente, incantandomi. Era la prima volta che lo sentivo ridere. Non riuscivo a decidere se fosse più bello arrabbiato o divertito. Mi scossi. C'erano cose più importanti al momento.
"June, credimi, non ne so molto neanche io, ma ti prometto che cercherò di capire cosa ci sta succedendo. La cosa interessa anche me".
"Il fatto è che mi sembra di doverti estrarre a forza ogni singola parola", mi lamentai.
"Dalle mie parti non si parla molto", disse a disagio, ma subito tornò a sorridere. "Tu invece non chiudi un attimo la bocca!".
Quasi a dimostrazione dell'esattezza delle sue parole la mia bocca si spalancò nuovamente per la cocente offesa.
"Io non parlo molto!", protestai veementemente, zittendomi subito dopo con aria colpevole. Ma chi era questo assurdo ragazzo per farmi sentire così? Provai un rassicurante disgusto verso me stessa.
Distolsi lo sguardo da lui e attesi che dicesse qualcosa. Il silenzio non lo turbava affatto, si limitava a squadrarmi come se fosse la cosa più normale di questo mondo. Forse lo era nel suo, pensai.
Sospirò. "Va bene, procediamo con ordine. Cosa vuoi chiedermi?".
Il mio elenco era ancora molto confuso, troppe domande. Cercai di schiarirmi le idee.
"Ok. Perché volevano ucciderci?".
"In realtà volevano me. Ho violato il coprifuoco. Avrai notato che la prima volta sei piombata così all'improvviso in mezzo alla strada da lasciarci tutti allibiti. Ti stavo per investire, sai?", disse con l'espressione comicamente allibita.
"Ah sì, certo. Meno male che hai fenato giusto in tempo per cercare di uccidermi con le tue mani, anziché con le ruote del tuo mezzo", risposi sarcasticamente.
Fece una smorfia al ricordo, ma non disse nulla.
Mi tornarono in mente le sue parole. "Scusa, ma prima hai detto coprifuoco: era pieno giorno!". Ero scettica.
Mi guardò come se la spiegazione dovesse essere ovvia. "Da noi di giorno non si esce, di notte sì invece, se qualche esigenza lo richiede".
Ero sconcertata. "Voi non potete uscire di giorno? E che fate allora?".
"Lavoriamo e dormiamo se ne abbiamo bisogno", rispose con tono piatto.
Ero sempre più confusa. "Da te ora è giorno o notte?".
Sorrise. "Se qui ora sono le undici della mattina, da me sono le undici di sera".
"Quindi il tuo mondo è una specie di... Inverso del mio?". Mi complimentai con me stessa per il mio acume.
Ci pensò su un attimo corrugando le labbra. "Potrebbe essere che sia il tuo un inverso del mio", rispose sollevando sarcasticamente un sopracciglio.
Lo ignorai, non volevo farmi provocare, ci riusciva troppo bene e con troppe poche parole. "Ma tu ora stai dormendo, no? Io sono il tuo sogno, ma se da te è notte non dovresti dormire!".
"Già!", annuì con un sorriso beffardo sul bellissimo volto.
Scossi la testa per fargli intendere che non avevo capito.
Sospirò e si sporse verso di me fissandomi intensamente negli occhi. "Noi possiamo programmare il nostro sonno. Decidiamo quando e quanto dormire. Il punto è che per legge bisognerebbe dormire di giorno e io invece lo faccio quando mi pare", scandì lentamente. "Per questo motivo mi davano la caccia. Io infrango le regole; io dormo molto poco".
C'era un che di minaccioso nel tono della sua voce e nel suo sguardo. Rabbrividii involontariamente quando capii che probabilmente anche io destavo lo stesso tipo di reazione nelle persone che mi circondavano, inclusi i miei familiari.
Mi schiarii la voce per ricompormi. "Noi dormiamo in media otto ore a notte, tutte le notti".
"Sì, ho visto, sprecate un sacco di tempo".
Lo guardai in cagnesco. "Già, tutto tempo da poter dedicare al lavoro e al sonno a comando, giusto?".
Mi restituì lo sguardo, ma non gli lasciai il tempo di rispondere. "E poi quella specie di... tuta? Noi qui non l'abbiamo mica!", esclamai con orrore all'idea di essere a mia volta ricoperta da quella roba.
Scosse la testa incredulo. "Già, è pazzesco!", e accompagnò le sue parole con un'occhiata eloquente alla mia persona.
Repressi la stizza e mi fermai a riflettere un attimo. "Ti funziona anche qui?".
In un attimo si ricoprì come le altre volte e stavolta potei osservare meglio, mettendo comunque l'intero divano a distanziarci per sicurezza.
Non si vedevano giunture, era una superficie unica, liscia, nera e aderente proprio come una seconda pelle. Non vi erano tasti o meccanismi che un'ignorante come me potesse riconoscere. I muscoli erano ben delineati e, come avevo notato in precedenza, i vestiti non si scorgevano. Notai che i suoi occhi non mi lasciavano un attimo, scrutavano ogni mia reazione.
Non riuscii più a trattenermi. "Ma che cosa è? E' molto resistente, al tuo amico non l'ho neanche scalfito!".
Non rispose, al che sollevai le sopracciglia, come a volerlo spronare. Lui ridusse gli occhi a fessura e si limitò a scuotere il capo e a indicarsi la parte di viso al di sotto del naso.
Scoppiai a ridere per la sorpresa, portandomi le mani alle labbra. "Non ci credo! Non vi hanno messo l'apertura per la bocca! Ecco perché non parlate!". Ero perfidamente divertita, ma mi ripresi in fretta perché lui scoprì il volto e potei vedere meglio il suo sguardo. La parola odio non era sufficiente. Arretrai contro il bracciolo stringendomi le braccia attorno alle gambe, deglutendo forsennatamente. L'avevo decisamente offeso.
"Lui non è mio amico", sibilò con voce minacciosa.
"Ok. Scusa". Rilevai con sollievo che il problema non ero io e il mio stupido umorismo fuori luogo, bensì il tipo del ponte che avevo provato - fallendo miseramente - a uccidere.
La tuta lo abbandonò del tutto con la stessa velocità con cui l'aveva coperto, lasciandogli i capelli splendidamente disordinati.
Forse intuì il mio spavento, perché mi sorrise come a volermi rassicurare e mi rispose come se niente fosse. "La nostra pelle è parte di noi, non so che materiale sia: è pelle. La abbiamo da quando possediamo memoria", chiarì sollevando le spalle. "Quel che è certo è che solamente un'altra pelle può scalfirci". Mi osservò inclinando leggermente la testa di lato e poi parve ricordarsi qualcosa.
"A proposito, come mai avevi con te la lama? Come potevi sapere di averne bisogno?". Era sinceramente incuriosito.
Per una volta l'avevo colto in fallo, pensai con soddisfazione. Sollevai il mento, sorridendo obliquamente. "Guarda che il coltello era per te, pensavo di potermi difendere dal tuo ennesimo attacco... Anche se sapevo di non avere molte speranze".
Il silenzio si fece denso. Mi fissava con una strana espressione che non riuscii a interpretare.
"Mi dispiace". I suoi occhi ardevano nei miei; mi accorsi che trattenevo il respiro. Accidenti, non avevo mai avuto a che fare con una persona così, con un essere così. Il disgusto verso me stessa crebbe.
Continuava a guardarmi e a scuotere la testa. "Se penso a quello che avrei potuto fare...". Gli mancarono le parole e non riuscì a proseguire.
"Mi avresti ucciso... E quindi?". Non capivo del tutto la sua angoscia. Certo: l'omicidio del tuo alter ego non è una bella cosa di sicuro, ma in definitiva ammazzare il tuo io alternativo appartenente a un altro mondo, era così grave?
Mi guardò come se fossi matta. "June, questo significa qualcosa", disse scostandosi la maglia e mettendo a nudo lo strano segno che ci accomunava.
In un attimo mi ricordai di come mi ero sentita sul ponte, mentre capivo che volevano fargli del male, ferirlo. La rabbia mi aveva accecato, non avrei mai potuto permettere che gli accadesse qualcosa. Di sicuro era una sorta di istinto di auto conservazione, qualcosa che valeva anche nell'altro mondo. Probabilmente adesso Jason si sentiva in colpa per aver attentato alla mia, alla sua persona quando ancora era inconsapevole. Non so perché, ma la spiegazione non tornava del tutto.
Interruppe improvvisamente i miei ragionamenti. "La prima volta che ti ho vista credevo che fossi una di loro, per quanto molto strana, devo ammetterlo. D'altronde c'erano solo due alternative: o eri con loro o eri contro di loro".
Rimasi perplessa. "Le cose non sono necessariamente così semplici, non credi?".
Mi perforò con lo sguardo. "No, non credo. Sei con loro o contro. Non ci sono vie di mezzo".
"Il mondo non è bianco o nero. Può essere anche grigio, rosa... O blu!".
"Non il mio. Bianco o nero sono le uniche opzioni", rispose freddamente, raggelandomi.
"Ok, lasciamo perdere, vai avanti", lo esortai.
Mi guardò attentamente prima di proseguire. "Quando ci siamo sfiorati e subito dopo siamo... volati via, ho avuto la certezza che fossi un loro strumento, ho pensato che per me fosse finita. E invece eri sparita nel nulla e io ero solo, sulla spiaggia. C'era una gran pace. A quel punto sei ricomparsa, così... Piccola".
Ma perché continuava a guardarmi così? Con lo sguardo caldo e gentile? Sembrava che... No, non era possibile.
"Camminavi spedita verso di me e non capivo perché mi sentissi in quel modo guardandoti. Mi diedi del debole e mi dissi che dovevo agire, perché di sicuro eri una trappola. Così ti ho aggredito per la seconda volta. E tu, senza neanche ricoprirti di pelle, non sei scappata!".
Non ricordava bene. Io ero scappata... Per lo meno ci avevo provato prima di capire che non avevo scampo. A quel punto non sapevo cosa rispondere, mi limitavo a fissarlo sbalordita, rivivendo quel momento attraverso i suoi ricordi. Lo sforzo del parlare sembrava quasi causargli sofferenza, la sua fronte aggrottata, lo sguardo basso.
La necessità di proteggerlo riemerse forte e inaspettata, la ricacciai indietro con un immane sforzo di volontà. Risollevò lo sguardo e continuò. "Per la prima volta ho guardato a fondo nei tuoi occhi, ed ero certo di conoscerti, in un certo senso di averti sempre conosciuta. La tua voce, quando mi hai parlato prima di svegliarti è stata la scintilla, e lì - su quella spiaggia - ho compreso". Abbassò la voce fino a ridurla a un sussurro. "Il dolore che hai provato tu è stato il mio dolore, la luce che si è sprigionata da te, è fuoriuscita anche da me. Per un attimo ho creduto di morire, per questo volevo che quando fosse toccato a te ci fossi anch'io...". Esitò. "Non... volevo che fossi sola".
Ora mi guardava negli occhi con un filo di imbarazzo, io di sicuro ero imbarazzata. Scacciai veloce i miei assurdi sospetti e mi ripetei come un mantra: "Auto- conservazione".
Vedendo che non aprivo bocca inspirò e proseguì con decisione.
"Ti ho aspettato, ma non ricomparivi, allora ho deciso di tornare al mio alloggio, ho lavorato per tutto il giorno, senza riuscire a toglierti dalla testa, ma ero esausto, non dormivo da giorni e giorni, così ho programmato quindici ore di sonno per ricaricarmi completamente", ammiccò. "Ho dormito più di te!".
Finalmente riuscii a parlare di nuovo. "Quindi quando ti sei addormentato sei arrivato qui!", esclamai.
Annuì. "Mi sono ritrovato nella parte orientale della città, ma era strana, rumorosa, e eccoti su quella panca, esposta alla luce, con il sorriso sulle labbra. Circolavano strani mezzi, credevo che volessero prenderti a causa del coprifuoco e...".
Lo interruppi, ricordandomi improvvisamente. "La macchina che ha inchiodato! Ti stavi facendo investire!".
Ridacchiò. "Lo vedi, le nostre avventure sono molto simili".
Non potevo crederci, ci stava accadendo una cosa pazzesca, ma lui sembrava molto più a suo agio di quanto non fossi io; sembrava accettare la cosa senza riserve.
"Ma scusa, non ti sembra tutto impossibile?", sottolineai per bene l'ultima parola.
Fece spallucce. "Perché? Accade, quindi è".
Non riuscivo a capire il suo modo di ragionare, una linea retta al posto della mia spirale contorta e ricurva, piena di incroci e snodi. Lo ammiravo.
"E poi cos'hai fatto? Dove sei andato?", chiesi curiosa.
"Ti ho seguita, non me la sentivo di lasciarti, non dopo quello che avevo capito. Sei rientrata qui e ti ho vista dalla finestra con altre due persone e un... Non so...Beh, eri a tavola e poi davanti a quella", disse indicando la tv. "Dopo alcune ore sei rimasta sola, avevi l'aria stanca e spaventata, era colpa mia e ancora adesso non sai quanto mi dispiace di essere stato un... Come mi hai chiamato? Ah si, demone." Sorrise incerto, guardandomi.
Abbassai lo sguardo verso uno dei bottoni del divano, vergognandomi, e mormorai roca: "Non importa... Non potevi fare altro". Le mie parole mi stupirono: avevo già accettato qualcosa di inaccettabile, ossia che l'uccidermi potesse essere stata una delle due opzioni di Jason. La spirale contorta aveva già un giro in meno così come Jason sembrava parlare più a lungo e più facilmente attimo dopo attimo.
"Mi sono arrampicato sull'albero di fronte alla tua finestra e ti ho osservata per tutta la notte, non c'erano cabine per il sonno e avevo l'impressione che ti sforzassi di non dormire facendo delle cose un po' assurde... A proposito, cos'è quell'apparecchiatura sulla quale hai finto di camminare?", chiese con sguardo limpido.
Non potei fare a meno di ridacchiare ripensando a me sullo stepper con la coca in mano.
"Niente, niente", minimizzai, sperando di poter cambiare argomento.
Si stizzì un poco, ma proseguì. "Comunque poi di mattina sei uscita su quello strano mezzo a quattro ruote e dopo un po' mi stavo svegliando, ma è successa una cosa stranissima. Per una frazione di secondo non ero più qui, dormivo normalmente e quando ho aperto gli occhi tu eri lì, di fronte a me e mi guardavi attraverso il vetro. Sei sparita subito". Era scosso, lo si capiva dal tono sommesso della voce.
"Ecco cos'era quel velo evanescente...", mormorai sovrappensiero.
"Sì, è stato così che ho capito che, se siamo vicini e uno dei due dorme, non abbandona il proprio mondo".
Quante deduzioni era stato capace di fare in una frazione di secondo di pura follia? Ma come faceva? Io ancora non ero del tutto sicura di essere sveglia e di trovarmi nel mio salotto con lui.
Cercai di concentrarmi. "Quindi è per questo che stanotte ho dormito come sempre? Perché tu eri qui?", domandai attenta.
Mi guardò con circospezione. "Credo di sì".
Il che in due parole significava che ogni volta che mi fossi addormentata sarei piombata nel suo strano mondo... E lo stesso valeva per lui! Doveva sembrargli terribile...
"A cosa stai pensando?", chiese interrompendo il cupo scenario che si delineava nella mia mente.
Alzai gli occhi spaventati verso di lui. "Come facciamo adesso?". La mia voce si ruppe sull'ultima parola.
Scosse il capo lentamente, senza staccare gli occhi da me. "Tra un'ora mi sveglierò e vedrò di cercare qualche risposta".
L'accenno al suo imminente risveglio mi agitò. Sentii il mio cuore contrarsi dolorosamente nel petto, meravigliandomi non poco. O avevo bisogno di un cardiologo - oltre che di uno psichiatra ovviamente - oppure stavano capitando cose assai strane.
Avevo bisogno di muovermi, per cui mi alzai dal divano e mi diressi in cucina, dove iniziai a armeggiare con la macchina del caffè. Ero in piena crisi di astinenza da caffeina. Jason mi osservava curioso dalla soglia mentre iniziavo a sorseggiare il caffè fumante. Abbassai lo sguardo, ma poi mi diedi uno scossone mentale e mi costrinsi a guardarlo negli occhi, così come stava facendo lui.
"Assumi liquidi a quest'ora?".
La domanda mi lasciò basita.
"Perché, c'è forse un orario per bere?", chiesi sarcasticamente. Lui non rispose. L'interpretai come un sì.
"Ma in che razza di posto vivi?", chiesi esasperata. "E magari mangi pure a orario...", continuai malignamente.
Annuì continuando a fissare la tazza. "Ha un buon odore", sentenziò.
Forse ero maleducata, per cui mi voltai, presi un'altra tazza, la riempii e gliela porsi esitante.
Si sedette sulla sedia che in genere occupava mia madre a tavola, di fronte a me, osservò ancora una volta la tazza con aria palesemente perplessa - ma curiosa- e la avvicinò alle labbra.
Mi sentii in dovere di metterlo in guardia. "Attento che è bollente", dissi scontrosa.
Mandò giù il primo sorso e i suoi occhi si spalancarono leggermente prima di incrociare i miei.
Il sorriso mi scaturì spontaneo: avevo appena portato sulla cattiva strada del vizio un alieno.
" E'...". Non terminò la frase, in difficoltà.
Corsi magnanimamente in suo soccorso. "Buono?".
Ci pensò su un attimo. "Sì, buono". E mi sorrise ancora una volta illuminandosi e illuminando l'intera cucina. Mi resi conto di non aver io stessa ancora smesso di sorridere e me ne stupii.
Quell'ultima ora volò, così come era volata l'intera giornata.
A un certo punto inspirò profondamente e mi disse con la sua voce bassa e limpida: "Ci vediamo quando da me è giorno?".
Avevo forse altra scelta? Mi morsi un labbro. "E se piombo di nuovo in mezzo a loro?".
"Non credo. Se tutto va come le altre volte arriverai vicino a me. Quindi farò in modo di non farti trovare sorprese". Il suo sorriso era beffardo e davvero perfetto. Mi guardò in modo strano, probabilmente aspettava una mia risposta.
Mi riscossi per l'ennesima volta dallo stato di trance che la sua vista mi procurava, poggiai un gomito al tavolo e lo guardai sghignazzando.
"Adesso a casa tua ti aspetta un bel po' di dolore, lo sai?".
Fece una smorfia. "Sì lo so, ma non è niente rispetto al dolore che provi tu, mi spiace deluderti, ma io sono molto più resistente". I suoi occhi brillavano di una luce ironica e intelligente, ma non mi lasciai imbambolare.
"Già, sono decisamente un essere inferiore", risposi sarcasticamente, anche se sotto sotto, con mio grande sconcerto, stavo iniziando a pensarlo sul serio.
Senza preavviso si sporse sul tavolo e poggiò con foga una mano sul mio viso, lasciandomi di stucco e facendo correre nuovamente il mio pensiero al cardiologo. I suoi occhi bruciavano nei miei, incatenandomi a lui.
"Non potrebbe mai essere definito inferiore l'essere capace di aprire la porta tra due mondi e salvarmi più volte la vita". Pronunciò le parole ardentemente e svanì, lasciandomi ansante e sbigottita, la traccia del suo tocco sulla mia guancia ancora bollente.
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