3. Veglia

3. Veglia

Trascorsi la notte più delirante della mia vita bevendo coca e ormai, all'alba, ero gonfia come un pallone, sovraeccitata e di pessimo umore.

Una piccola parte dentro di me diceva che mi ero sognata tutto - appunto un sogno - ma il pigiama che mi fissava dall'altra parte della stanza la pensava in tutt'altro modo, sembrava deridermi e prendersi gioco di me, la prova inconfutabile che non ero pazza ma che le cose non andavano comunque meglio.

Cercai di fare delle ipotesi. E se fossi uscita di notte e avessi fatto una passeggiata in spiaggia? Magari ero sonnambula. Ma i miei se ne sarebbero accorti... Certe cose non iniziano a diciannove anni, giusto?

Qualsiasi follia sembrava più ragionevole del mio assurdo sospetto.

L'euforia che aveva accompagnato il mio ultimo risveglio era un lontano ricordo. Una cosa era essere esaltati all'idea di aver sognato il più bel ragazzo che avessi mai visto, un'altra che tale ragazzo volesse davvero uccidermi e non come prodotto onirico.

Mi trascinai in cucina dove sostituii la coca con una bella tazza di caffè caldo. Dovevo assolutamente escogitare un modo per restare sveglia, ma per quanto sarei potuta andare avanti? Prima o poi avrei ceduto... E lui mi avrebbe ucciso. Beh, per il momento era ancora tutto sotto controllo, non volevo pensarci, magari sarebbe successo qualcosa.

"Buongiorno!".

"'Giorno", risposi automaticamente, ancora con gli occhi spalancati sul macabro futuro prossimo che ritenevo inevitabile.

"Siamo mattiniere, eh?".

Mio padre mi lanciò un'occhiata distratta da sopra la sua tazza, mentre si sedeva a tavola.

"Sì... Senti, per quanto tempo un essere umano può non dormire?". Non pensai più di tanto alla domanda, ma mio padre la trovò molto interessante.

"Beh, esistono diversi studi, c'è chi ha resistito undici giorni, comunque si ritiene che non sia salutare andare oltre i quattro giorni pieni... Ma sono casi limite".

A questo punto mi osservava perplesso, forse aveva notato le mie occhiaie. "Ma perché questa domanda? Non vorrai mica fare un qualche tipo di esperimento, eh?", ridacchio divertito. A casa tutti sapevano quanto amassi dormire.

Non risposi, tornai a guardare il tavolo meditando sulle sue parole. Quattro giorni:  ammesso e non concesso di farcela, cosa avrei risolto?

La risposta arrivò chiara: nulla. Ma dovevo procrastinare il più possibile; magari se fossi giunta al sonno sfinita e spossata non avrei sognato, sempre che quello che mi era capitato potesse definirsi sogno. La parola Incubo era a dir poco riduttiva.

Almeno avevo un programma, un obiettivo: non dormire. Non sarebbe stato facile, non per me. Accidenti, cosa potevo fare per non dormire? Avrei iniziato con una doccia, ne avevo proprio bisogno. Andai in bagno e mi avvicinai allo specchio. Finalmente mi decisi a esaminare la noiosa puntura che mi aveva infastidito durante la notte, solo che sotto le dita non avvertivo nessun rigonfiamento, bensì una specie di graffio.

Era sotto la canottiera, a sinistra, poco sotto la clavicola. Erano due linee sottilissime che si intrecciavano. Erano quasi invisibili, più che altro le percepivo al tatto.

Che altra stramberia era questa? Quando mi ero graffiata e a quel modo? Non ricordavo, ma qualcosa si contorse nel mio stomaco e mi convinse a lasciar perdere.

Entrai nella doccia e mi costrinsi a farmi una violenza inaudita: aprii del tutto l'acqua fredda. E dire che c'era chi era capace di infliggersi quella tortura ogni giorno dicendo che giova alla pelle. Non di certo alla mia! Comunque ottenne l'effetto sperato: una vera sferzata di energia, che contribuì a rendere ancora più cupo il mio umore.

Sentii mio padre avviarsi al lavoro, per fortuna non aveva indagato oltre la mia curiosità sul sonno; gli riusciva abbastanza bene farsi i fatti suoi, ma non avrei ottenuto lo stesso trattamento da mia madre. Dovevo prepararmi a sembrare normale, altrimenti sarebbero stati guai seri. Mi vestii con una tuta comoda, lasciai i capelli umidi e cercai di coprire le occhiaie con il correttore; per ora il risultato era accettabile.

Dovevo resistere solo finché anche lei non fosse uscita, poi sarei potuta riemergere con il mio bel corredo di panico, terrore e incredulità.

Per fortuna la trovai già sull'uscio con la valigetta in mano e la sua aria super impegnata.

"June, starai a casa oggi vero? Io ne ho fino alle cinque".

"Sì mamma, no problem", risposi con il tono più sereno che riuscii a simulare.

"Bene, a stasera allora... Dai una sistemata per favore. In frigo c'è il pranzo. Ciao".

Wow, doveva essere davvero molto impegnata. Meglio così, era bello che nessuno mi notasse una volta tanto.

Finalmente potei rilassarmi, ma non più di tanto perché la battaglia contro il sonno aveva inizio.

Passai la mattinata cercando di riordinare casa, sempre attenta a non stancarmi troppo. Pulii per bene il bagno, rifeci il mio letto e sistemai la cucina. Lavorai con calma, alternando ogni fatica a un sorso di coca, ormai ero nauseata.

Verso ora di pranzo chiamai a gran voce mio fratello che scese le scale a razzo e si piazzò a tavola, al suo solito posto, spalle alla finestra. Senza dire una parola gli misi davanti il suo piatto, mamma ci aveva lasciato il polpettone.

Peter ci si buttò con entusiasmo mentre io mi fermai, stordita, a guardare fuori dalla finestra.

"Tu non mangi?", chiese Peter da sopra il suo piatto, con il boccone in bocca.

"Non ho fame", mugugnai in risposta, persa nel bagliore accecante della finestra. Come avrei potuto mantenermi sveglia dopo aver mandato giù quella bomba calorica? Scossi la testa per schiarirmi le idee... Insomma, tanta gente resisteva tranquillamente a una nottata persa di sonno, perché per me doveva essere così maledettamente difficile?

Girai attorno al tavolo, accesi la tv e mi sedetti di fronte a mio fratello.

Mi guardò speranzoso. "Metti i cartoni?".

"No".

"Dai!".

"Non fare il moccioso", e così dicendo fermai su mtv, mi ci voleva un po' di musica forte.

"Ma mamma me li fa sempre vedere!", si lamentò supplicandomi con lo sguardo.

"Ti sembro forse mamma?". Gli lanciai un'occhiata torva, conscia del fatto che la parte peggiore di me veniva a galla in maniera paurosamente semplice.

Per un po' restammo così, era una scena alquanto deprimente.

Mi arresi. "Ok, metti dove ti pare... Me ne vado in camera", borbottai.

"No dai, la musica va bene, resta!".

Era sempre il solito: voleva farmi contenta anche se lo avevo trattato male, anche se lui sapeva che ero a conoscenza di quanto tenesse a quegli stupidi cartoni.

Mi limitai a intimargli: "Metti i piatti in lavastoviglie quando hai finito", e salii le scale.

Il pomeriggio trascorse con me seduta rigida alla scrivania (guai ad avvicinarmi al letto) con le cuffie nelle orecchie e un gruppo metallaro che ci sbraitava dentro a volume altissimo. Mi concentrai sulle parole del testo - poco sensate a mio avviso - e lasciai che ciò mi tenesse impegnata.

Il tempo passò lentamente, ma tutto sommato in maniera sopportabile. Quando sentii mia madre rientrare mi stupii del mio piccolo traguardo e le andai incontro.

"Ciao mamma", salutai cortesemente per prevenire qualsiasi tipo di protesta.

"Ciao June", rispose stancamente.

Ultimamente lavorava troppo, aveva l'aria stanchissima. La vidi guardarsi attorno, in cerca del dettaglio fuori posto e riuscii a vedere la sorpresa nei suoi occhi quando si accorse che era tutto perfettamente in ordine.

Mi sorrise. "Grazie June, ci voleva proprio una sistemata qui...", biascicò con lo stesso tono stanco.

Chinai il capo. "Figurati...". Mi sentivo sempre a disagio quando ottenevo la sua approvazione, non ci ero abituata, non più.

Approfittai del momento per chiederle se potevo uscire a fare una passeggiata nei dintorni.

Non poté rifiutare stavolta, non ce n'era motivo. Per una giornata ero stata la figlia impeccabile, già... Impeccabile nel giorno più brutto della mia vita.

Uscii nel caldo sole pomeridiano, casa nostra si trovava in una via alberata con tante casette tutte simili, tutte carine con un piccolo prato davanti e sul retro. Gli alberi mi garantivano l'ombra necessaria a non far diventare sgradevole la passeggiata, mi ci voleva proprio una boccata d'aria. In giro c'era poca gente, probabilmente erano tutti al mare o chiusi in posti provvisti di aria condizionata.

Sovrappensiero sfiorai da sopra la maglietta il graffio fastidiosissimo, accidenti quanto prudeva...e mi sedetti su una panchina. Avevo una strana sensazione e improvvisamente non mi sentii più così stanca, anzi ero vigile e allo stesso tempo inspiegabilmente tranquilla. Forse avevo superato il limite della stanchezza, forse sarei stata capace di non dormire davvero mai più. Ridacchiai tra me per l'assurdità appena pensata e scossi lievemente la testa.

In quel momento di pace assoluta era facile pensare che le cose potessero andar bene per me, che tutta questa faccenda delirante fosse solo una stupidaggine. Mi sarei lasciata tutto alle spalle, sì ecco la avrei piantata da subito.

Il suono di un clacson e di una macchina che inchiodava mi riportarono alla realtà. Voltai la testa verso il rumore giusto in tempo per vedere la macchina che ripartiva e il guidatore che borbottava furioso. Sì, il mondo era sempre lo stesso. Più tranquilla e con un sorriso sulle labbra me ne tornai a casa.

Ero pronta ad affrontare la seconda notte insonne perché, tranquilla o non tranquilla non mi sentivo ancora pronta a ripetere l'esperimento anche se stavo iniziando a percepire la realtà con un certo distacco e non ricordassi del tutto lucidamente il motivo della mia decisione.

A cena mantenni un "profilo basso" per evitare qualsiasi tipo di discussione e spreco di energie. Guardai un film pieno di sparatorie e improbabili esplosioni con mio padre e Peter al quale, il venerdì sera, era concesso di andare a dormire più tardi. Terminato quello, mi avviai con rassegnazione verso il frigo per iniziare la somministrazione di caffeina, forse avrei dovuto chiedere a mio padre di iniettarmela, il risultato sarebbe stato di certo migliore...

Andati tutti a dormire mi ritrovai da sola nel salotto, stranamente vuoto e silenzioso. Il silenzio era denso, diverso da quello a cui ero abituata e in cui mi rifugiavo. Mi scoprii a guardarmi attorno senza capirne il motivo, preda di un'inspiegabile ansia. Pescai un'altra lattina dal frigo e corsi a chiudermi in camera sentendomi sempre più sciocca.

Badai bene a non indossare il pigiama perché se non avessi resistito al mio malato proposito tutto avrei voluto piuttosto che ritrovarmi nel mio peggior incubo vestita di cotone azzurro a righine. Iniziai la nottata seduta alla mia postazione di combattimento - la scrivania - con la musica spaccatimpani nelle orecchie. Sembrava stranamente facile e mi concessi un cauto ottimismo.

Verso le quattro del mattino ero completamente indolenzita, ma vigile; decisi di sgranchirmi sul mio stepper liberandolo dai vestiti e borse che lo avevano reso molto più simile a un attaccapanni che a un attrezzo ginnico. Storsi la bocca quando non riuscii a ricordare l'ultima volta che lo avevo messo in funzione. D'altronde acquistarlo non era stata una mia idea, mia madre pensava che ultimamente fossi troppo pigra, anche se io preferivo definirmi "meditativa".

Anche quella notte passò e a colazione mi sentivo abbastanza serena da concedermi una fetta di torta e una tazza di caffè. I miei si alzarono verso le nove e mi trovarono ancora al tavolo.

"Buongiorno June. Come mai già in piedi?", chiese mia madre con aria sospettosa. Chissà cosa si aspettava. Evitai accuratamente di sbuffare.

"Buongiorno mamma, ho appuntamento con Angie alle dieci", risposi neutra.

"Ah sì, in spiaggia", rispose continuando a fissarmi con attenzione. Mi mise a disagio.

Aggrottai la fronte, in guardia. "Che c'è?", non potei fare a meno di chiederle.

"Niente, ho parlato con Sylvia", buttò lì da sopra la sua tazza.

Sospirai mentalmente. Perfetto. La madre di Matthew doveva averla messa al corrente delle nostra recente rottura. Strinsi le labbra e dovetti sforzarmi per non ringhiarle contro che al momento avevo problemi ben più seri. Cercai di mantenere la mia espressione distesa, anche se la rabbia improvvisa e bruciante stava prendendo possesso del mio corpo in maniera incontrollabile, peggio del solito.

"Non c'è molto da dire", precisai gelida. "Mi sono resa conto che non andava, tutto qui". Mi sorpresi del mio tono glaciale, così come mi sorprese vedere mia madre aggrottare leggermente le sopracciglia nel momento in cui incrociò il mio sguardo. Sembrava... Preoccupata? No, spaventata. Non feci in tempo a capire il motivo della sua reazione perché si schiarì in fretta la voce e mi mise al corrente dei programmi per il fine settimana.

"Noi andiamo a trovare i nonni, partiamo subito dopo pranzo... Tu non vieni, vero?", chiese con tono noncurante.

Avevano smesso di costringermi a seguirli quando i miei nonni si erano lamentati del fatto che fossi sempre assente con la testa e giù di morale. Capivo che erano sinceramente preoccupati per me e apprezzavo il fatto che, pur di non avermi immusonita tra i piedi, preferissero non vedermi affatto. Adoravo i miei nonni. Ma preferivo adorarli dalla mia camera, dalla mia casa, dalla mia città. Tornai alla realtà quando focalizzai mia madre con un sopracciglio sollevato che si aspettava una risposta, di sicuro solo per cortesia.

"Grazie, ma... Saluta tanto i nonni e abbracciali da parte mia", dissi rivolgendole un sorriso debole.

Discorso chiuso.

Era l'ennesima bella giornata, al mare sarebbe stato gradevole. Mi preparai in fretta riempiendo con il necessario la borsa da mare, salutai rapidamente la mia famiglia per evitare le loro occhiate torve e accusatorie e me la squagliai.

Il traffico era scorrevole e l'utilitaria di mia madre era perfetta per la città. Arrivai ad Aquatic Park in meno di mezz'ora. Come sempre ebbi problemi a parcheggiare, ero davvero una schiappa con la macchina, negata. Scesi e aspettai Angie che sarebbe arrivata in tram.

Arrivò poco dopo e non ebbi problemi a individuarla in mezzo alla gente, con un enorme cappello di paglia e un paio di occhiali da sole spropositati. Mi sentii vagamente a disagio: Angie si curava persino meno di me di apparire bizzarra.

"Ehi che brutta cera!", mi salutò allegramente.

In risposta riuscii solo a mugugnare qualcosa di indefinito e ci avviammo sulla passerella che conduceva alla spiaggia ancora poco affollata. Ci sistemammo proprio a ridosso del mare, lì sarebbe stato più fresco grazie alla brezza e, improvvisamente, la stanchezza mi ripiombò addosso come un pesante macigno.

"Non hai dormito?", si informò la mia amica mentre infilava il naso in un grosso libro.

"Sono due notti che non chiudo occhio".

Non sollevò lo sguardo. "Beh, approfittane ora e fai un sonnellino, si sta benissimo, no?". Sembrava più interessata alla sua lettura che alla sottoscritta.

"Ascoltami un attimo". Qualcosa nella mia voce le fece alzare gli occhi su di me all'istante. Infilò un dito a mo' di segno e la vidi concentrarsi in ascolto.

"Che c'è?", chiese più incuriosita che preoccupata.

La fissai con insistenza. "Devi promettermi una cosa: in nessun caso oggi mi lascerai dormire. Non. Devo. Dormire".

"Mi stai spaventando June, sembri uno zombie".

"Forse lo sono, ma ti prego fai come ti ho detto!". La voce mi uscì con una nota vagamente isterica. Non potevo addormentarmi lì in mezzo agli ignari bagnanti del sabato mattina... Troppo pericoloso, ma per chi? Per me, ovviamente.

Spalancò gli occhi lasciando cadere il libro e mi afferrò la mano.

"Cosa succede?". Avvertii nelle sue parole una sincera preoccupazione. Provai per lei un sentimento che doveva essere molto simile all'affetto e le sorrisi stancamente.

"Niente Angie, non è successo niente... Cioè... ancora non lo so". Il sorriso mi morì sulle labbra che tremarono leggermente.

"Ma insomma, parla!". Iniziava ad arrabbiarsi, frustrata. Detestava non capire, quasi quanto me.

"Per ora accontentati di sapere che sono qui e sto bene, sono solo stanca".

"Sono qui?". Angie, sempre più incredula, aveva stretto la mia mano oltre la soglia del dolore, ma non avevo la forza di liberarla. "Mi spieghi cosa vuol dire sono qui?", continuò imperterrita.

Scossi la testa per dare maggiore enfasi alle mie parole. "No, te l'ho detto. Per ora accontentati, se un po' mi vuoi bene, di tenermi sveglia, è l'unica cosa di cui ho bisogno, anche a costo di rovesciarmi una secchiata d'acqua in testa. Ti spiegherò, non appena capirò qualcosa...". Tentennai. "... Qualcosa di quello che sta capitando nella mia mente".

Il riferimento alla mia mente disturbata la placò, a dimostrazione del fatto che era avvezza a sopportare le mie numerose stramberie. Aguzzò lo sguardo, annuì lievemente e riprese in mano il libro.

"Come vuoi", mi concesse magnanimamente, ma la vidi osservarmi di sottecchi. La conoscevo bene e sapevo che non mi avrebbe tormentata, ma anche che non mi avrebbe perso d'occhio nemmeno per un istante.

Infilai le cuffie, mi concentrai sulla musica e sul calore del sole sulla mia pelle... E mi persi.

Vidi il suo volto, i suoi bellissimi occhi schiudersi e fissarsi nei miei attraverso una coltre, un velo evanescente. Fu solo per un attimo. Immediatamente mi sentii di nuovo catapultata dolorosamente nel mio corpo. Boccheggiai per lo shock. Angie mi aveva presa in parola: continuava imperterrita a versare acqua gelida sulla mia testa, mentre io cercavo di contorcermi con discrezione.

Notai nel bel mezzo della mia agonia che un gruppetto di quattro ragazzi ci fissava e rideva, pensando a uno scherzo divertente, ma non c'era niente da ridere.

"Spero davvero che ci sia un motivo valido per infliggerti questo", borbottò la mia amica china su di me. Da parte mia avevo paura, aprendo la bocca, di far straripare le urla di dolore che minacciavano di dilaniarmi, anche se sapevo oramai che il supplizio sarebbe finito. Prima o poi.

"A-A-An...gie...", lamentai a denti stretti.

Spalancò gli occhi. "Oh mio Dio, June! Ma che hai?! Che devo fare?", urlò senza il minimo ritegno facendo voltare più di una faccia verso di noi.

Le afferrai un polso e la costrinsi a piegarsi ulteriormente su di me.

"Po-port-tami in acqua", farfugliai.

"Neanche per sogno, chiamo il bagnino!". Il panico nella sua voce era evidente.

"Fa' come ti ho detto!", le ruggii contro, facendola ritrarre da me automaticamente. Non mollai la presa.

Presa in contropiede dalla situazione mi aiutò suo malgrado ad alzarmi e mi portò in acqua. Non so come facemmo: io ero piegata in due e lei era un bel po' più bassa di me, forse rotolammo verso la battigia, non so... Fatto sta che quando ritrovai un barlume di me stessa ero in acqua. Che sollievo, quasi avrei pianto se non fosse stato così sconveniente, avevamo dato già abbastanza spettacolo.

Passai l'intera giornata a mollo, spesso completamente immersa per allontanare la nebbia dalla mia testa. Angie andava e veniva con bibite alla caffeina. Stavo perdendo contatto con la realtà, ma non sapevo cosa fare.

La spiaggia era rumorosa, un ronzio continuo e snervante che accresceva la mia necessità di perdermi in esso. Era complicato restare sveglia, presto avrei dovuto fare i conti con tutto ciò che il chiudere gli occhi avrebbe comportato. Decisi di parlare un po' per distrarmi.

"Da quando è che sono così strana?", chiesi con tono piatto ricordando le mie considerazioni di qualche giorno prima.

"Beh... da stamattina", rispose incerta.

"No, dico in linea generale... Sono sempre stata così?".

Rifletté per un istante. "Diciamo che in linea generale sei sempre stata bizzarra, ma sei peggiorata molto nell'ultimo anno, progressivamente, sempre di più. Sembra quasi che da quando hai compiuto diciotto anni non riesci a stare in pace con te stessa, come se qualcosa ti logorasse dall'interno." Esitò, dopodiché proseguì: "Certe volte hai una faccia... Mi costa ammetterlo, ma metti in soggezione".

Aveva perfettamente ragione, anche io avevo notato tutto questo, ma quale era la causa? Non era cambiato niente nella mia vita, mi ero sempre accettata per quello che ero, senza drammi, né crisi adolescenziali. Ma allora cos'era a logorarmi? Angie era molto acuta, non avrebbe potuto esprimere meglio il mio stato d'animo.

Cambiai argomento.

"Senti, perché stasera non andiamo in quel locale carino, balliamo un po', ci divertiamo... I miei non sono a casa, devo approfittarne".

Angie temporeggiava, osservandomi sospettosa. "Sinceramente non mi pare il caso, non ti reggi in piedi!".

"No, dai, mi farà bene. Mi ci vuole proprio, vedere un po' di gente, distrarmi...".

Mi interruppe. "Quello che ti ci vuole è una bella dormita, altroché!", esclamò spazientita.

Mi infastidì, non avevo la forza di insistere, perciò sbuffai e mi limitai a dire: "Ok, lascia perdere".

La vidi mordersi un labbro, indecisa. "D'accordo, però ti passo a prendere io, già non so come farai a guidare fino a casa in queste condizioni".

Ridacchiai. "Vedrai che ce la farò", ma non ne ero molto sicura.

A casa ci arrivai, anche se ci misi molto più dell'andata. Miracolosamente evitai incidenti, probabilmente grazie alla mia guida da lumaca.

Mi sottoposi a un' inevitabile doccia fredda, dopodiché decisi cosa indossare per la serata. Optai per i jeans e una t-shirt nera, aderente. Misi ai piedi scarpe comode e mi dedicai al restauro del viso. Ero orribile: macchie violacee circondavano i miei occhi febbrili, la pelle era grigia, l'abbronzatura sembrava un lontano ricordo sotto lo spesso strato di stanchezza e paura. Utilizzai più trucco del solito per non dare l'impressione di essere in stato di astinenza da qualche sostanza stupefacente. Ringraziai dentro di me che i miei genitori non ci fossero.

Continuai a guardarmi e riflettei che probabilmente questa sarebbe stata l'ultima serata della mia vita. Nonostante tutto mi sentivo troppo spossata per provare il panico che avrei dovuto.

Lunedì i miei mi avrebbero trovata morta stecchita in casa. Sempre di riuscire a tornarci a casa. Ero davvero vicina alla rottura. Un'ultima lisciata ai miei capelli ed ero pronta. Mi sarei divertita. Avrei ballato, avrei riso con la mia amica e mi sarei sforzata di avere un'ultima sera che fosse piacevole; rimpiansi di essere stata incapace nella mia vita di essere davvero felice, ma quel che era fatto era fatto, per cui...

I miei lugubri pensieri furono interrotti dal bussare alla porta, era ora di andare. Presi la borsa, lanciai un'ultima occhiata alla mia camera – il mio rifugio - e uscii.

Il locale era all'aperto, pieno di tavolini e con una grande pista già piena di gente che ballava e si divertiva. Mi sentii più ottimista e stranamente non a disagio in mezzo a quella bolgia. Chiacchierammo per un po'osservando le persone e immaginandoci le loro vite nel nostro classico gioco. Bevemmo qualche bibita e poi iniziammo a ballare. La musica era trascinante, gradevole, tutti erano spensierati e felici, perciò cercai di uniformarmi al contorno e stranamente ci riuscii piuttosto bene. Da tanto non stavo così bene, quasi me ne stupii. L'aria era calda, ma gradevole e inspirai a occhi chiusi mentre le mie mani - le mani di tutti- volavano verso il cielo al ritmo della musica.

A un certo punto mi guardai attorno e non vidi Angie. Ormai era buio, le luci della pista si riflettevano sui volti, sugli abiti, conferendo alla scena un che di surreale, il tutto unito al mio stato di annebbiamento non mi consentiva di percepire con chiarezza i dettagli. Uscii dalla pista, ma al tavolo non c'era traccia di lei. Girai attorno al locale, ma era ancora più buio. Mi appoggiai un attimo al muro, riflettendo. Ma dove si era cacciata? Stavo per ripartire alla ricerca, verso le luci, verso la musica, quando una voce sconosciuta e poco amichevole mi bloccò.

"Ehi ciao! Vuoi compagnia?".

Mi si gelò il sangue nelle vene e tornai vigile all'istante, rendendomi conto di trovarmi in un posto isolato e soprattutto da sola. Mantenni il mio tono piano.

"No grazie, stavo cercando il mio ragazzo".

"E perché mai ti avrebbe lasciato qui da sola?". Suonò canzonatorio ed ebbi paura.

"Non è affar tuo", tagliai corto allontanandomi dal muro.

Con una mano mi riportò contro di esso avvicinandosi a me, sentivo il suo fiato sul collo, odorava di alcool, la voce impastata, ma il buio era fitto, era solo una sagoma nell'oscurità.

Se avessi urlato mi avrebbe sentito qualcuno? Inspiegabilmente decisi che potevo cavarmela da sola. Lo spinsi via, ma se lo aspettava e con entrambe le mani mi bloccò nuovamente contro il muro. Invece di essere ancora più terrorizzata, mi sentii preda di un terribile attacco di ira. L'adrenalina mi inondò le vene e gli sibilai addosso un'unica parola.

"Lasciami".

Lo sentii esitare e scostarsi appena, ma non feci a tempo a fare o a dire altro, perché un'altra sagoma spuntata dal buio, ancora più scura del mio assalitore, me lo tirò via di dosso riportandomi di colpo alla realtà. Capii che era il momento di squagliarmela e corsi verso le luci, registrando appena dei gemiti soffocati alle mie spalle. Il cuore mi batteva furiosamente nel petto, ma non appena rispuntai nello spiazzo affollato del locale vidi Angie che si guardava attorno. La raggiunsi quasi di corsa e le urlai contro.

"Ma dove eri finita?".

Mi guardò perplessa. "In bagno", rispose come se fosse ovvio. Forse mi aveva avvisata e non l'avevo sentita, persa com'ero nella mia nebbia. "E tu dov'eri?", domandò sospettosa fissando l'angolo scuro dal quale ero arrivata.

"Ti stavo cercando", tagliai corto evitando di raccontarle la mia spiacevole ennesima esperienza. "Senti, forse è meglio se rientriamo, sono a pezzi". Volevo solo scappare da lì e farla finita una volta per tutte.

"Ok, finalmente ci sei arrivata. Pensi che stanotte dormirai?".

Sospirai, conscia del destino che mi attendeva. "Sì".

Aggrottò le sopracciglia. "Vuoi che resti con te?", chiese preoccupata.

"No, non c'è problema". Le avrei evitato di scoprire all'alba il mio cadavere, questo glielo dovevo. Le sorrisi e l'abbracciai, lasciandola impietrita e immobile tra le mie braccia.

Con quel gesto l'avevo spaventata ancora di più, perché non era da me e me ne pentii subito. Ridacchiai, per alleggerire la tensione.

"Dai, portami a casa, prima che crolli".

Il viaggio in macchina fu silenzioso, entrambe guardavamo il cielo plumbeo, già si udivano i primi tuoni. Sarebbe venuto giù un bel temporale, forse avrebbe spazzato via la cappa d'afa che ormai da giorni tormentava la città. Poco importava, tanto di lì a poco sarei morta.

Rimasta sola, chiusi la porta con il catenaccio e stavo già salendo i primi gradini quando cambiai idea e raggiunsi la cucina. Sfilai uno dei coltelli dal ceppo sul bancone e me lo infilai nella cintura. Era abbastanza piccolo da non darmi fastidio, ma di sicuro abbastanza grande da farmi del male se non fossi stata attenta nel maneggiarlo. Sì, sarei morta, ma ciò non voleva dire che non avrei combattuto.

Giunta in camera mia, non feci neanche in tempo ad avvicinarmi al letto, perché persi i sensi ancor prima di crollare sul pavimento.


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