12. Zuccheri

12. Zuccheri

Mi svegliò il profumo del caffè, rassicurante e insolito perché vicinissimo al mio naso. Aprii gli occhi e Jason, seduto sul bordo del letto, mi porse una delle due tazze.

"Wow", mormorai con la voce ancora roca per il sonno, mentre mi tiravo a sedere contro la testata.

Jason sorrise. "Ho pensato che ti ci volesse un incentivo per iniziare meglio la giornata".

"Ottima idea", dissi, stringendo soddisfatta la mia tazza tra le mani.

Ci osservammo per un lungo istante. Nessuno dei due fece il minimo accenno a ciò che era successo la notte. Mi ero comportata in maniera imbarazzante – sicuramente- ma il pericolo mi era sembrato così reale... anche a dispetto dell'evidenza, ossia che fosse stato soltanto un sogno, non riuscivo comunque a scacciare il senso di paura.

Tirai via le coperte e poggiai la tazza sul comodino. "I miei rientreranno tra poco", annunciai dirigendomi verso il bagno. Mi lavai e vestii in fretta. Quando rientrai in camera il letto era rifatto e il mio caffè sparito. Non avevo finito...

Andai di sotto e Jason era di nuovo sul divano in paziente attesa. Lo osservai dall'arco. "Si può sapere cosa ti prende oggi?".

"Che intendi dire?", chiese calmo.

La mia espressione divenne scettica. "Intendo dire il caffè, mi rifai il letto...Hai forse perso qualche scommessa?".

Rise di gusto, facendomi segno di sedermi accanto a lui. Lo raggiunsi volentieri. "E' che stamattina mi sembri stanca. Volevo solo darti una mano".

"O beh... Sai, sono spesso stanca... quindi...".

Rise ancora e mi fece una smorfia. Una macchina entrò nel vialetto. Sospirai, guardando Jason.

"Sei pronto?".

Scosse la testa indulgente. "Solo tu non lo sei".

Controvoglia andai a aprire la porta. "Ciao", salutai.

"Tesoro come ti senti?", chiese mio padre chiudendo la portiera.

"E' passata...Te l'avevo detto che non era niente".

"Ciao June", mi sorrise mia madre prendendo una borsa dal bagagliaio.

Le sorrisi di rimando. Peter mi venne in contro di corsa con lo sguardo ansioso, così lo aggiornai, allo stesso tempo annunciando il mio... ospite.

"Peter, dentro c'è Jason". Alzai gli occhi verso i miei. "Ha saputo che non stavo bene ed è passato a trovarmi".

Gli occhi di Peter brillarono e si fiondò in salotto urlando: "Jason!". Risi a disagio, riportando l'attenzione su mia madre.

"Oh", disse lei, lievemente sorpresa, ma non tradendo altra emozione. "Che gentile".

Precedetti i miei in salotto, Peter sorrideva a Jason come un ebete e Jason cercava di non ridere.

"Jason, come stai?", chiese mio padre cordiale andandogli incontro.

"Bene grazie, e lei Al?". Si interruppe per guardare mia madre, le fece un cenno gentile col capo. "Susan è un piacere rivederla".

Mia madre sorrise educata. Mi schiarii la voce. "Jason stava giusto andando via".

Stranamente intervenne mia madre. "Non c'è fretta, Jason, resta pure. Io devo chiudermi in studio, domani ho un'udienza".

"E io un mare di cartelle da controllare", gemette mio padre seguendo la mamma e fermandosi a metà del corridoio. "Jason non so se June ti ha detto che domenica prossima diamo una festa. Ovviamente sei invitato".

Rimasi di sasso. Jason invece non parve neanche lontanamente sfiorato dallo sconcerto. "Grazie Al, ci sarò con piacere".

"Bene! Ah... ma pensi di venire con quel bolide parcheggiato di fuori?".

Calò il silenzio. Jason valutava serio cosa rispondere, fissando mio padre con intensità; poi sorrise. "Non si deve preoccupare Al, sono molto prudente, soprattutto se con me c'è June".

Avrei preferito che non mi nominasse in una frase il cui contesto principale era una motocicletta. Era stato mio padre a ricucirmi anni prima.

Mio padre corrugò le labbra mentre decideva se fidarsi o meno. Alla fine annuì pensieroso, scoccandomi un'occhiata concentrata e se ne andò.

"Al?".

Mio padre si voltò con aria curiosa. "Sì?".

"Se vuole può farci un giro. Non c'è neanche bisogno di chiedere".

Lo guardai allibita. Mio padre scoppiò a ridere - ma solo dopo averci pensato per un paio di secondi. "Sono troppo vecchio", rispose sollevando le mani e continuando a ridere mentre si chiudeva nello studio.

"Secondo me gli va", disse rivolto a Peter.

"Porta me!", propose lui entusiasta.

"Non se ne parla", sbottai tra i denti.

"June ha ragione per ora", rispose guardando Peter con affetto. "Magari sarà lei stessa a portarti quando sarai un po' più grande".

Qualcosa punse il mio subconscio, ma non afferrai cosa.

Mio fratello sospirò, buttandosi sul divano. "Cosa regaliamo a mamma e papà?".

"Già", esclamò Jason spalancando gli occhi. "Ci vuole un bel regalo. Idee June?".

La domanda mi fece riemergere all'improvviso dalla ricerca frenetica del dettaglio inquietante. Irritata e momentaneamente sconfitta sprofondai nella poltrona. "Che ne dite di una cornice d'argento?".

Peter e Jason fecero simultaneamente un'apprezzabile smorfia di disgusto.

"Sembra banale persino a me che ho scoperto solo pochi giorni fa cosa sia, una cornice".

Sbuffai. "Di più non so fare".

Ora Jason mi fissava senza vedermi. Quando faceva così c'era solo da armarsi di pazienza e attendere, e io per natura non ero affatto incline alla pazienza. Incrociai le braccia con fastidio, al che Jason mi sorrise e una scintilla animò il suo sguardo. "Tutto sommato hai avuto una buona intuizione".

"Ah sì?", chiesi con tono incolore.

Mi ignorò, rivolgendosi a Peter. "Mi servono le foto della vostra famiglia. Realizzeremo una specie di...collage".

"Sì!", Peter si avvicinò allo scaffale e iniziò a tirare giù gli album passandoli a Jason.

Iniziò a sfogliarli sorridendo. Avevo come l'impressione che in realtà li avesse già visti tutti. Ad un tratto si arrestò, sollevando gli occhi su di me. "E questa?", chiese indicando una foto in particolare.

Non riuscivo a vedere dalla poltrona, però notai Peter allungare il collo verso l'album e sorridermi. "E' bella vero?", chiese a Jason indicandomi. Lui annuì.

"Di che diavolo parlate?", sbuffai spazientita avvicinandomi a loro e lanciando un'occhiata alla foto. Ah. La conoscevo bene. Era stata scattata circa un anno prima, durante il mio ultimo saggio di danza; avevo ottenuto - come gli ultimi due anni- l'assolo finale.

Nella foto ero sola sul palco buio, una luce chiara su di me. Indossavo un abito bianco in voile, leggerissimo. I capelli acconciati in un semi raccolto ondulato. Lo sguardo rivolto verso l'alto e la gamba all'indietro a un angolo perfetto, in una posa leggiadra. Mi sembrava impossibile che io riuscissi a fare una cosa del genere.

"June balla benissimo, è bravissima".

"Ma di che parli? Eri solo un marmocchio".

"E invece mi ricordo benissimo, sembravi un angelo!", precisò con veemenza.

"Sì sì, certo", tagliai corto. Sentivo su di me lo sguardo di Jason.

Peter continuò imperterrito. "Il pubblico ha applaudito per quasi un minuto e mamma si è imbestialita quando le hai detto che non avresti più ballato".

Non c'è che dire: ricordava molto bene.

"Perché hai smesso?", mi chiese Jason con uno sguardo sin troppo serio.

Sollevai le spalle. "Non mi andava più, tutto qui". Il che era vero.

L'ultimo anno era stato difficile, solo ora potevo capire il perché... Tuttavia all'epoca il distacco dalla danza, da tutto ciò che amavo mi era sembrato incomprensibile, ma necessario. Potevo solo immaginare come fosse dovuta apparire la cosa ai miei, a mia madre che era sempre stata la mia più grande sostenitrice.

"Mi piacerebbe vederti danzare".

Divenni rossa. "Non esiste".

"Dai June! Ti metto la musica!".

"No", replicai decisa.

Jason mi osservava con tenacia, in attesa. La verità è che sotto sotto mi andava e lui di sicuro se ne accorgeva...Però era passato così tanto tempo, ovviamente sarei stata completamente rigida. Scacciai il pensiero, un' incomprensibile fiducia nelle mie capacità offuscava il mio pensiero razionale.

Mi alzai con fare altezzoso e mi misi al centro del salone, in posizione. Peter fece partire la musica dolce e familiare e i movimenti fluirono da me come se li avessi provati fino al giorno prima, anzi anche meglio.

All'epoca ci avevo messo settimane a preparare la coreografia. Era complicata, lenta e piena di accenti. Dovevo mantenere le posizioni per molti secondi in equilibrio, sospesa.

Mentre volteggiavo per il salone riuscivo anche a chiedermi dove mi fosse apparsa la difficoltà. Sembrava così semplice. Sorrisi e chiusi gli occhi, abbandonandomi alla musica. Le mie gambe andavano in alto, senza sforzo, l'equilibrio non cedeva. Incontrai per un attimo lo sguardo sbalordito di Peter e quello rapito di Jason e con un battito di ciglia tornai alla realtà, bloccandomi in mezzo alla sala.

"Poi non ricordo più", mentii burbera.

Nessuno parlava.

"Peter chiudi la bocca".

Mio fratello obbedì con uno scatto udibile.

Mi lasciai andare sulla poltrona, pentendomi amaramente della mia vanità.

Jason si voltò lentamente verso mio fratello. "Sai, credo che queste", disse indicando gli album, "i tuoi le abbiano viste spesso. Non ne avete altre? Magari quelle scartate".

Peter si illuminò. "In soffitta ne abbiamo uno scatolone pieno!".

Jason si chinò verso di lui con aria cospiratoria. "Ce la fai a prenderlo senza farti scoprire dai tuoi? O hai bisogno di aiuto?".

"No, vado e torno in un attimo...Tu aspetta qui!". E scomparve per le scale.

Jason si voltò di nuovo verso di me senza smettere di sorridere. "Adesso potresti riprendere a danzare. Non dovresti sprecare un simile talento".

"Il passato è passato, Jason. Preferisco non sprecare il mio presente, ha delle enormi potenzialità, sai?", dissi guardandolo negli occhi.

Il suo sorriso si appiattì e mi fissò di rimando. "Lo so".

Come un turbine Peter riapparve sul divano con la famigerata scatola degli orrori. Jason diede un'occhiata distratta all'interno. "Perfetto".

Si alzò e ci guardò. "Ora devo andare".

Peter si imbronciò. "Non puoi restare?".

"No, tra meno di un'ora mi sveglierò... E voglio iniziare a lavorare su queste", disse sorridendo, scuotendo la scatola e avviandosi verso la porta. Lo seguimmo in cortile.

Lo guardammo mente agganciava alla moto il suo bagaglio e si infilava il casco. Sollevò la visiera per salutarci.

"Ci vediamo stasera. Promettimi che mi aspetterai per addormentarti".

"Come vuoi", mormorai con lo sguardo basso.

Mi sollevò il mento con un dito, per costringermi a fissarlo. "Verrò presto", mi rassicurò a bassa voce.

Annuii. "Tu promettimi che farai attenzione".

Sorrise furbo. "Come vuoi".

Lasciò il mio viso e partì.

Riempire la mattina e il pomeriggio fu difficile, tutta la mia vita oramai ruotava attorno a Jason, al nostro sonno... Ero sicura che se avessi chiuso gli occhi mi sarei subito riaddormentata, tanta era la voglia di stare con lui, era sempre più forte, come una calamita. Come l'avrei contrastata? Visto e considerato che non volevo contrastarla... Però avevo promesso. Jason poteva evitare l'argomento quanto voleva, ovviamente era solo questione di tempo, poi avremmo dovuto mettere le carte in tavola e uno dei due avrebbe sofferto, forse entrambi... Di sicuro non poteva andare bene, quello era ovvio.

Nel tardo pomeriggio mio padre riemerse dallo studio proponendo a me e Peter di accompagnarlo a fare una commissione. Accettai, avevo bisogno di distrarmi e mio padre parve sollevato; solo in macchina capii il perché.

"Devi aiutarmi a scegliere un gioiello per tua madre", ammise imbarazzato.

Sorrisi in silenzio. Dopo venticinque anni ancora non conosceva i gusti di mia madre.

"Che cosa avevi in mente?", chiesi per tastare il terreno.

"Un paio di orecchini?".

Meno male che c'ero io a salvarlo. "Il mese scorso mamma si è fermata davanti la vetrina di Brand's e ha guardato per ben due minuti un bracciale".

Mio padre mi guardò sorpreso. "Per due minuti?".

Risi e annuii. A casa sapevamo tutti che mamma degnava di poca attenzione le cose materiali, quindi due minuti erano un'eternità, palesavano uno strabiliante interessamento.

Giunti nei pressi del negozio, mio padre si precipitò davanti alla vetrina con fare ansioso.

"June...C'è ancora?".

Si che c'era. Era piatto, sottile e d'oro bianco, con tre brillanti ravvicinati, di una semplicità e un'eleganza ricercata, esattamente come mia madre. "Si, eccolo là", dissi indicandolo.

Mio padre, sempre più ansioso di compiere la sua missione e forse temendo che il bracciale potesse smaterializzarsi sotto i nostri occhi, spinse me e Peter all'interno e con tutta sicurezza chiese il bracciale al commesso che, visto il prezzo, fu ben felice di accontentare mio padre alla velocità della luce.

Creò una confezione regalo enorme, davvero spropositata e con fare pomposo la consegnò a mio padre che la passò a me. Si era evidentemente rasserenato, chissà da quanto tempo si stava arrovellando. Ridacchiai e anche Peter, dopo avermi osservato, percepì cosa pensavo e si unì a me. Corse verso la macchina urlando: "Adesso mi siedo io davanti!".

Sbuffai, ma lasciai perdere e mi accomodai dietro. Si era fatto buio ormai. Mi sporsi tra i due sedili per cambiare stazione alla radio e Peter cercò di impedirmelo, quindi iniziammo a litigare rumorosamente.

"Piantatela subito!", ci intimò mio padre esasperato.

Mi ammutolii all'istante con la mano ancora sporta in avanti; ma non era stato l'effetto del rimprovero di mio padre. Il mio tatuaggio prudeva.

Afferrai la spalla di mio fratello, stringendola forte. Peter si voltò guardingo verso di me, ma quando captò la mia espressione terrorizzata, sbiancò e spalancò la bocca. Aveva capito. Si riprese più in fretta di me, voltandosi prontamente verso mio padre.

"Papà che modello di Mercedes è quello?", chiese a voce altissima indicando una macchina .

"Non saprei...", borbottò mio padre iniziando a snocciolare le varie possibilità a voce alta.

Mi tirai indietro e rimasi in mezzo per occupare la visuale dello specchietto, magari sarebbe comparso all'esterno e l'avrebbero falciato... Oh mio Dio! Dentro o fuori andava comunque malissimo...

Intanto Peter sproloquiava senza senso, interrogando mio padre senza sosta, non lasciandogli un attimo di tregua.

Con la coda dell'occhio captai un'ombra alla mia sinistra. Non era ancora del tutto comparso. Afferrai Jason alla nuca e lo spinsi verso il basso. Cozzò contro il sedile di mio padre, facendolo sobbalzare.

"Ehi, cos'è stato?", trasalì mio padre.

Intanto Jason si era ricoperto di pelle, e per lo meno non c'erano ciuffi di capelli biondi in giro.

"Scusa papà ho sbattuto...", dissi poggiando le gambe sulle spalle di Jason e sorridendo con rammarico verso lo specchietto.

"Mmm... Non sporcare i sedili con le scarpe, June".

"No, no...faccio attenzione", risposi con urgenza.

"Papà, ma che differenza c'è tra cambio manuale e automatico?".

Mio padre si distrasse nuovamente grazie a Peter e io portai in via casuale una mano sulla spalla di Jason e la strinsi con delicatezza, di sicuro non gli avevo fatto male... Jason posò una mano nera sulla mia e strinse piano a sua volta, probabilmente così piano per evitare di far lui del male a me.

Mantenni gli occhi dritti di fronte a me. Se mio padre avesse guardato dietro con più attenzione avrebbe di sicuro notato lo strano ingombro scuro sotto le mie gambe, non c'era molto spazio dietro il sedile del guidatore e Jason era altissimo...

Il viaggio verso casa mi sembrò lunghissimo, ma per fortuna Peter non smise un attimo di blaterare e a volte sentivo le spalle di Jason sobbalzare sotto di me.

Se avesse avuto la bocca avrebbe riso come un matto. Gli ultimi chilometri furono una tragedia: Peter si era lanciato in un'analisi approfondita delle varie teorie sull'estinzione dei dinosauri, chiedendo a mio padre pareri dettagliati e pressanti e Jason continuava a tremare - contagiando il mio umore, ovviamente.

Avevo un irrefrenabile bisogno di ridere. Mi coprii il volto con le mani e mi piegai in avanti per concentrarmi, cercando di ignorare i sussulti sotto di me.

Non appena parcheggiammo in garage mi precipitai fuori dal lato opposto a quello in cui si era malamente nascosto Jason e scoppiai a ridere tenendomi la pancia, letteralmente piegata in due e con le lacrime agli occhi. Mio padre e Peter mi squadrarono come se fossi matta e la cosa mi fece ridere ancora più forte.

"June ti senti bene?", chiese mio padre perplesso.

Ma io non riuscivo a smettere di ridere.

"Sì, sì sta bene, lo sai com'è June...". Mio fratello continuava a salvare la situazione mentre tirava mio padre per la manica e io ridevo...

Decisi che potevo sbellicarmi anche mentre mi allontanavo dal punto nevralgico e così continuai a sogghignare mentre entravo nell'andito seguita da mio padre e mio fratello. Mia madre era in cucina, stava sfornando qualcosa che aveva un ottimo odore. La vidi bloccarsi a bocca aperta e fissarmi meravigliata.

"Che c'è?", chiesi con l'umore ancora alle stelle.

"Niente. Credevo che avessi dimenticato come si fa a ridere", rispose con un lieve sorriso incredulo sulle labbra.

Mi sentii mortificata. Dovevo essere stata davvero insopportabile nell'ultimo anno e in effetti stupiva persino me stessa il riuscire a essere di nuovo così felice. Sentivo la presenza di Jason vicino a me e sorrisi al pensiero che per lui era lo stesso. Forse le cose stavano di nuovo migliorando tra noi, forse aveva riflettuto e alla fine aveva deciso che la sua prima scelta fosse quella giusta, oppure aveva trovato una soluzione ai nostri problemi, così anch'io finalmente avrei potuto abbassare la guardia e essere completamente felice.

Sospirai elettrizzata e mi sedetti a tavola. A tutti gli altri problemi (guardiani, Christopher, sonno a comando) avremmo pensato in seguito. Ovviamente al pensiero dei nostri cacciatori il mio umore vacillò, ma mi costrinsi a sorridere e a mostrarmi gradevole almeno per la durata della cena, che come sempre andò avanti per le lunghe, mentre io fremevo per tornare in garage.

Aiutai a sparecchiare e a riordinare la cucina sempre più su di giri e grazie al cielo Peter iniziò a fare i capricci per poter rimanere sveglio, concedendomi così la possibilità di sgattaiolare furtiva in garage. In qualche modo avrei dovuto premiare mio fratello.

In garage non accesi la luce, non ne avevo bisogno per capire che non c'era. Guardai attraverso i finestrini, ma era ovvio che non era neanche in macchina, niente avrebbe potuto tenere Jason intrappolato così a lungo. Senza più badare alla cautela corsi fuori dal garage e mi precipitai per le scale, interrompendo l'animata conversazione tra i miei e Peter.

"June?".

Non risposi a mia madre, entrai senza fiato in camera, ma lui non c'era. Si era risvegliato senza avvisarmi? Era successo qualcosa? Eppure ero convinta che fosse ancora nel mio mondo, ne ero quasi certa.

Mia madre interruppe i miei ragionamenti.

"June, tutto bene?".

Mi voltai piano verso di lei. "Sì...", risposi esitante.

Fece un passo verso di me con la sua solita aria preoccupata.

Sorrisi in modo spontaneo. "Credevo di aver perso le chiavi e invece erano qui", dissi agitando il portachiavi .

"Ah...Ok, scusa".

"E di che?".

Mi osservò per un istante e sapevo per esperienza che era il momento di non tentennare. Aveva un ottimo detector per le balle, ma io ero da Oscar, per cui tutto stava a non cedere nei pochi istanti in cui il suo sguardo ostinato effettuava la scansione.

In quel momento squillò il mio cellulare, evento più unico che raro.

I nostri occhi corsero al telefono poggiato sulla scrivania, dentro una scatola piena di cianfrusaglie. Mi avvicinai e iniziai a rovistare per disseppellirlo, con una curiosità che era più simile al panico. Sentivo che gli occhi di mia madre mi scrutavano, aumentando la mia ansia.

Guardai il display: numero sconosciuto. Sollevai lo sguardo su mia madre. "Ti spiace?", chiesi mostrandole il cellulare.

Si riscosse. "Ehm... Ti lascio sola". E si chiuse la porta alle spalle. Aspettai di sentire i passi nel corridoio dopodiché risposi.

"Pronto".

"Per poco ci facevi scoprire", rispose Jason con il sorriso nella voce.

"Dove sei?".

"A casa".

Mi guardai ansiosamente attorno. "Ma dove ti sei nascosto?", chiesi incredula.

Seguì un attimo di silenzio. "Sono a casa mia June".

Forte delusione. "Ah". Quindi ancora una volta avevo sperato invano. Decisi che l'ottimismo era il peggior nemico di un'esistenza rassegnata. Sospirai.

"Volevo augurarti la buonanotte".

"Ok Jason, buonanotte", risposi stizzita. Aveva così paura che gli saltassi addosso da dover mettere l'intera città tra noi?

Mi sembrò di sentire il fantasma di una risata dall'altra parte del telefono, ma per fortuna sua niente confermò la mia teoria, altrimenti credo che avrei fatto una scenata degna di me.

"Ti richiamo domattina, prima di andar via", annunciò sereno.

"Sì, sì certo, fa come vuoi... Immagino che adesso tu abbia di meglio da fare, con tutta la notte a disposizione, quindi scusa ma anche io ora andrei. Sai, devo contare le pecore visto che il mio tempo per il sonno è limitato".

Chissà perché, ma ancora una volta lo immaginai sorridere. "Non sarà per molto, June".

"Cioè?".

Stavolta fu lui a sospirare. "Niente, dormi bene". E chiuse.

Invece non dormii affatto bene. Ero nervosa e agitata e mi svegliai spesso; solo all'alba dormii più serenamente e profondamente, senza sognare.

Fu una carezza sul viso a svegliarmi. Aprii di scatto gli occhi con il cuore in gola, sapevo che era lui. Era chino su di me, la luce debole del mattino non nascondeva il tormento nei suoi occhi che quando incontrarono i miei si fecero dolci. Un sorriso incurvò leggermente le sue labbra perfette. I capelli, striati con sfumature d'argento, si muovevano lentamente, a causa del vento che entrava fresco dalla finestra aperta, dalla quale sicuramente era entrato.

Inspirai profondamente cercando di percepire di lui quanto più potevo: il suo dolcissimo profumo, il suo sguardo, il tocco della sua mano sulla mia pelle, il suo sorriso così caldo.

La parola mi sfuggì prima ancora che potessi formulare razionalmente il pensiero.

"Perché?", chiesi in un sussurro.

Il suo volto per un istante tradì un'angoscia profonda. Chiuse gli occhi, poi si avvicinò di più a me. "Shh", sussurrò tornando a guardarmi con intensità e sfiorando di nuovo il mio viso. Sollevai a mia volta la mano e la avvicinai al suo volto, ma prima che potessi raggiungerlo davvero, Jason divenne evanescente e mi lasciò di nuovo.

La settimana passò più o meno nello stesso modo. Riusciva sempre a comparire abbastanza lontano da non incontrarmi, allora la sera lui mi telefonava - una volta al sicuro lontano da me - e la mattina prestissimo mi svegliava con una carezza. Aspettava a svegliarmi fino alla fine e non appena aprivo gli occhi lo vedevo svanire, nel suo sguardo il tormento sempre più evidente.

Avevo pensato di mettere la sveglia e di aspettarlo, ma mi ero imposta di non angosciarlo, me lo ero ripromessa con fermezza.

Certo, la sofferenza era acuta e sfaccettata, ma dovevo rispettare la sua scelta. In fondo lo amavo abbastanza da potermi infliggere il supplizio, per quanto sentirmi rifiutata era una sensazione indescrivibile.

Perché mai non si limitava a svegliarmi con un'altra telefonata, invece di scombussolarmi ancora di più? Si sarebbe risparmiato un inutile tormento, lo avrebbe risparmiato anche a me, considerato come stavano le cose. Ma forse temeva di svegliare i miei con la suoneria del cellulare; pensare che avesse voglia di vedermi era una speranza che non potevo permettermi.

D'altronde sapevo che la nostra attrazione era qualcosa di difficilmente combattibile, quindi semplicemente cedeva per un momento, non era niente di più. Come quando rinunci agli zuccheri ma non ti privi di una caramella. In un certo senso ti fa star meglio, ma non placa del tutto la necessità, lasciandoti un senso di insoddisfazione e di vago disgusto verso te stesso per la debolezza appena commessa.

Sì, ero una schifosissima caramella. Prima o poi si sarebbe completamente abituato all'assenza di zuccheri e io gli sarei diventata completamente indifferente. La differenza tra me e Jason era che lui aveva scelto volontariamente di mettersi a dieta di glucosio, mentre io ero improvvisamente e dolorosamente diventata diabetica.

Dannazione, era tutta colpa sua, se quel giorno non mi avesse detto che ero la sua metà, si, la parte migliore di lui e tutte quelle altre cazzate non avrei mai permesso alla mia mente di arrivare a questo punto. Mi aveva ingannata, mi aveva manipolato e io - come una stupida- ci ero cascata...

Ecco, stavo virando verso la direzione giusta: finché l'amore era offuscato dal risentimento andava benissimo. In fondo nella vita ci si abitua a tutto.

In fondo.



Stiamo per giungere alla conclusione di Inverso,  come pensate che si concluderà? Se vi va fatemelo sapere qui sotto! :)

B.


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