10. Nebbia
10. Nebbia
Non tardai molto ad addormentarmi, tuttavia non mi trovai dove mi immaginavo, ossia nella stanza di Jason. Ero all'aperto, in un posto che stentavo a riconoscere e immersa nella nebbia mattutina, fitta e densa. Era una cortina umida che mi avvolgeva da capo a piedi e che limitava la mia visibilità a un metro scarso.
Mi sentii invadere dall'inquietudine. Captai un movimento di fronte a me, un lieve rumore di passi. Il mio corpo si preparò automaticamente a scappare, per fotuna avevo sostituito la gonna e i sandali con i jeans e le scarpe da tennis.
Proprio mentre arretravo di alcuni passi, dalla cortina spuntò Jason, il solo capo scoperto e l'espressione cupa. Non feci in tempo a provare il benché minimo sollievo, qualcosa non andava. In mia presenza si ricopriva raramente di pelle, credo immaginasse che mi facesse paura.
"Perché sei fuori Jason?".
Mi raggiunse in fretta, piazzandosi di fronte a me e guardandosi attorno.
"Mi hanno ordinato di venire qui per una riparazione", spiegò nervosamente.
Affilai lo sguardo, cercando di captare il perciolo come faceva lui. "E il guasto c'era?".
Riportò lo sguardo su di me. "Si, ma è irrilevante. Non mi piace".
"Allora andiamo via di qui".
Jason strinse le labbra. "Troppo tardi".
Mi voltai automaticamente verso la porzione di nebbia puntata da Jason. Una figura solitaria, totalmente coperta di pelle fece la sua apparizione a pochi metri da noi. Vidi Jason stringere i pugni e trasformare il suo splendido viso in una terribile maschera di odio e furia. Con tre passi si frappose tra me e lui, mettendo distanza.
Sentii un nodo formarsi nel mio stomaco. Gli avrebbero dato la caccia per sempre. Era terribile. Non c'era scampo.
"Christopher", disse Jason con sdegno.
La nera figura minacciosa scoprì il viso controvoglia, mettendo in evidenza il volto scarno e i penetranti occhi neri come carbone sul viso pallido, i capelli ricciuti e disordinati. Era più grande di Jason, sui quaranta. "Jason 245, puoi tornare al tuo alloggio", disse con voce roca e profonda.
Avrei dovuto essere lieta di sentire quelle parole, ma il mio umore e i miei stati d'animo erano legati a doppio filo con quelli di Jason e lui non si era rilassato, anzi, aveva istantaneamente coperto il viso di pelle e aperto le braccia come a farmi scudo e proteggermi dietro di sé. Proteggeva me? In un istante capii: aveva detto: puoi tornare al tuo alloggio, non potete.
Voleva me, il motivo della ribellione di Jason. Eliminatami tutto si sarebbe risolto. La sorpresa era tale da impedirmi di muovermi. Perché non ci ero arrivata prima? Stavo per lanciarmi verso Jason e afferrarlo in modo da sparire da lì, ma Christopher parlò di nuovo, facendomi immobilizzare.
"Mi tocca fare quello che tu non sei stato in grado di compiere. E dire che ci sei andato così vicino...Sia sul ponte che alla scogliera. Ci siamo fatti da parte perché sembrava che l'avresti eliminata con le tue stesse mani", disse lanciandomi un'occhiata intrisa di disgusto. "E invece non ti smentisci mai, sei il solito sovvertitore, ma credo che rientri nella tua natura". Fece due passi nella nostra direzione. "Sai, non capisco la sua ostinazione a volerti tenere in vita. Il problema non è lei", sussurrò indicandomi con la testa. "il problema sei tu, lo sei dalla nascita. Avrebbe dovuto darmi retta ed eliminarti".
Fu il massimo che potei ascoltare. Nella mia testa esplosero scintille di luce bianca accecante; scattai verso Jason. Ciò che non potei prevedere fu che invece di voltarsi e venirmi in contro, si lanciò a sua volta verso Christopher al quale sferrò due potenti pugni in pieno petto, facendolo volare nella nebbia fitta prima ancora che avesse il tempo di coprire il volto.
Rimasi a bocca aperta. Lo stava affrontando.
Dopo pochi attimi Christopher rispuntò - sano come un pesce e a passo di marcia- con sguardo spiritato. Con il taglio della mano puntò la gola di Jason, ma lui si abbassò di scatto e gli sferrò una gomitata al petto e un pugno al volto.
Lottavano come in uno di quei film cinesi di arti marziali, solo che mentre Christopher era leggero e aggraziato - i suoi movimenti quasi impercettibili- Jason era potente e devastante. La sua lotta era fisica e cruenta e spesso coglieva Christopher alla sprovvista, lo si capiva dal modo in cui barcollava e da parte sua Jason non gli dava tregua, lo tartassava letteralmente di colpi. Era un balletto affascinante a suo modo, e nonostante fossero entrambi neri come la notte sapevo sempre quale dei due fosse il mio demone.
La loro battaglia sembrava senza fine, nessuno dei due soccombeva, andavano avanti e avanti in assoluto silenzio, mentre io mi torcevo le mani senza sosta, cercando di capire quale fosse il momento più adatto per inserirmi e portarlo via di lì, prima che si facesse ammazzare.
Christopher era letale e molto esperto, lo intuivo chiaramente, così come intuivo che la forza di Jason era fuori dal comune persino per loro...In fondo se Christopher era un guardiano doveva essere addestrato, mentre Jason era solo un elettricista...
Distolsi lo sguardo, ma solo perché una strana sensazione catturò la mia attenzione. Avevo la strana consapevolezza che non fossimo soli. Non riuscivo a vedere niente, nonostante girassi su me stessa. Nel silenzio più assoluto sentii il rombo stranamente familiare di Tracey, sarebbe potuta essere qualsiasi altra moto, ma io sapevo che era lei. Difatti emerse dalla nebbia e si fermò di fianco a me a motore acceso.
Jason l'aveva chiamata per me. Rombò più forte invitandomi a salire attirando l'attenzione di Christopher, che socchiuse gli occhi e affondò il piede nella tibia di Jason. Non c'era più tempo. In un lampo fui a cavallo e senza che io potessi farci niente la moto si lanciò a folle corsa nella direzione opposta a quella dei due combattenti.
"No Tracey!", urlai.
Non mi ascoltò, proseguì al massimo della velocità verso una direzione preordinata, che io non le avevo dato. Con il vento che mi schiacciava i capelli sul viso, mi raccolsi in me e pensai con tutta l'intensità di cui fui capace: Torna indietro!
Tracey rallentò impercettibilmente e io approfittai della sua esitazione. Dobbiamo aiutare Jason! Il mio era un ordine perentorio, se non mi avesse obbedito sarei saltata giù e me la sarei fatta di corsa. Probabilmente intuì anche i miei ultimi pensieri perché stridendo sull'asfalto invertì direzione lasciando dietro di sé una scia scura di gomme. Mi piegai sul manubrio come avevo visto fare a Jason, fu istintivo e il mio assetto migliorò, così come la sintonia con la moto, ne avevo il pieno controllo.
Continuavo a non vedere niente, solo nebbia, ma sapevo che Tracey mi avrebbe riportato dove volevo, dove dovevo essere. Rallenta, le chiesi, immaginando di trovarci in prossimità del duello.
Infatti sbucammo di fronte a loro e l'unica cosa che notai fu l'occhiata scura che Jason ci riservò una volta lì. Lo vidi afferrare Christopher al collo con un braccio e agganciare l'altro alla gamba. Lo tirò su, in alto, sopra la sua testa e lo cappottò con violenza al suolo, di schiena.
Vai! Le ordinai a tutta voce mentale. Lo avevo deciso in un istante. Tracey non se lo fece ripetere e a tutto gas schiacciò il corpo disteso di Christopher sotto le ruote. Era impossibile, ma avvertivo in lei uno strano compiacimento, lo stesso che provavo io.
Si sentì uno strano rumore, come di cocci rotti. Jason mi guardò stupito per un attimo, dopodiché mi fece segno di spostarmi sul retro e si mise alla guida. Credevo che saremmo fuggiti di lì in tutta fretta e invece fece alcuni metri, girò la moto e investì nuovamente Christopher. Stavolta il crac fu ancora più forte. Era un rumore rivoltante. Mi strinsi forte alla vita di Jason, grata che fosse ancora tutto intero e che quell'orribile rottura non fosse pervenuta da lui.
"E' morto?", gridai al di sopra del frastuono.
Scosse la testa e fui lieta in quel momento di non riuscire a vedere i suoi occhi: dovevano essere di fuoco. Non si scoprì. Lo schienale e la barra di sicurezza comparvero all'improvviso e mi fecero capire che andavamo incontro a qualcosa di ancora più spericolato.
La sensazione di non essere soli mi riassalì e solo quando all'improvviso riemergemmo nella luce intensa del mattino, lasciandoci indietro la foschia, vidi che eravamo in una specie di acquedotto scoperto. Sollevai lo sguardo e un gemito mi sfuggì dalle labbra. Su entrambi gli argini, a circa sei metri sopra di noi c'erano almeno quindici guardiani sulle moto che partirono simultaneamente, alcuni precedendoci, altri scendendo lungo le pareti della cisterna con il chiaro intento di tagliarci la strada. Accelerammo, scartando di pochi centimetri le prime due. Cercai di non pensare, per non ostacolare Jason e le sue manovre, ma era difficile.
Il fatto che lui si mettesse in pericolo per salvare me era ancora più doloroso. Non aveva senso morire entrambi. Lui avrebbe potuto avere una vita, forse non perfetta, ma sarebbe sopravvissuto. Dovevo solo trovare il modo di parlargliene anche se sapevo già come avrebbe reagito.
L'irrigidimento improvviso del corpo di Jason mi riportò alla realtà. Sbirciai oltre la sua spalla e una fila di moto e centauri era lì a sbarrarci la strada. Jason chinò ancora di più il capo e anche se non potevo vederlo, intuivo la determinazione nel suo sguardo. Mi strinsi ancora di più a lui, avendo capito cosa intendeva fare. Chiusi gli occhi con forza e mi preparai all'impatto. Nel momento in cui la ruota anteriore cozzava contro lo sbarramento, Jason si voltò rapido verso di me e mi strinse forte nella morsa delle sue braccia nere. Il familiare flash di luce chiara ci abbagliò e istantaneamente ci ritrovammo in un altro luogo, immersi nel verde, tra gli alberi fitti.
Non mi ero ancora ripresa dallo stordimento che Jason mi aveva rimessa in piedi e mi guardava ansiosamente.
"Stai bene?".
Annuii, incapace di parlare. Mi prese per il polso. "Andiamo".
Feci resistenza e Jason mi guardò turbato.
"Lasciami qui", dissi con convinzione.
Vidi lo sgomento nei suoi occhi e poi una luce fredda. "Non osare mai più dire una cosa del genere. Non ti lascerò mai nelle loro mani".
Cominciai a fare segno di no con la testa, a occhi sbarrati, ma Jason me la bloccò tra le mani, impedendomi di muovermi. "Mai!", ripeté con un sibilo. "E adesso corri!".
Mi strattonò il polso e iniziò a correre, trascinandomi dietro di sé. Si era completamente scoperto, probabilmente per far si che potessi stare al suo passo, quindi eravamo molto lenti, anche se più veloci di quanto pensassi.
Correvo in salita, a testa bassa, senza perdere terreno. Sentivo il rombo delle moto alle nostre spalle, alla base del pendio. Ci avrebbero seguito a piedi e a quel punto per quanto veloci fossimo, ci sarebbe stato ben poco da fare.
Jason non si voltava mai, ma sapevo che avvertiva la loro presenza quanto me, il silenzio accompagnava sempre i nostri cacciatori, zittivano persino il bosco; al contrario io non ero affatto silenziosa: i miei passi, i miei respiri erano perfettamente udibili e individuabili nel fitto della vegetazione. Mi concentrai su di essi per mettere un piede dopo l'altro e non rallentare Jason. I rami mi graffiavano le braccia, ma non potevo permettermi di farci caso. Era un bene che fossimo capitati in un posto così impervio, forse trovarci sarebbe stato più difficile.
Giungemmo in cima senza preavviso, la pendenza variò e mi si aprì davanti agli occhi lo spettacolo della baia. Jason mi spinse dietro a un basso cespuglio. Gliene fui grata, visto che il cuore sembrava volermi esplodere nel petto. Mi prese la mano guardandomi con determinazione; con l'altra invece sfiorò la mia guancia, leggermente, non abbandonando mai i miei occhi. I battiti furiosi del mio cuore si placarono quasi istantaneamente e ricominciai a respirare regolarmente.
"Sei pronta per la discesa?", chiese scrutandomi con apprensione.
"Si". D'altronde non avevo scelta, non avevamo scelta.
Mi sorrise, negli occhi una luce fiera e brillante e senza bisogno di altre parole ci precipitammo sull'altro versante della collina. Avevamo ancora del vantaggio sui nostri inseguitori - non molto - e sinceramente non sapevo cosa aspettarmi. Potevo solo fidarmi ciecamente di Jason e continuare a correre.
Era difficile mantenere l'equilibrio in discesa, ma le volte in cui credevo che sarei rotolata giù per il fianco, Jason mi stringeva alla vita, aiutandomi a riprendere il passo.
Dopo un tempo che mi parve allo stesso tempo breve e lunghissimo, vidi l'acqua, la scogliera era vicina.
A quel punto mi voltai e li vidi, lì a pochi metri da noi, silenziosi come i cobra. Jason accelerò e slittò in acqua coprendo il suo corpo. Si voltò e tese le braccia verso di me. Mi lasciai afferrare, scivolando anch'io nell'acqua ghiacciata che mi arrivava alla vita; inzuppò i miei jeans e mi fece rabbrividire. Strinsi i denti per non mostrare timore, ero pronta a tutto: avrei nuotato, avrei fatto qualsiasi cosa pur di salvarlo. Ciò che non mi aspettavo fu il mio imminente risveglio.
"No", rantolai girandomi a guardare la costa, verso coloro ai quali avrei abbandonato il mio Jason.
Jason mi prese per le spalle. "Cosa?".
"Sto per svegliarmi", dissi inorridita aggrappandomi a lui.
Jason sospirò sollevato, ma un attimo dopo stava di nuovo guardando la riva con sguardo omicida. "Non azzardarti a riaddormentarti. Intesi?".
"Ma che dici? Non posso lasciarti qui. Ti faranno a pezzi!".
"Fa come ti ho detto June", rispose categorico. "E... Scusami per quello che sto per fare".
Non feci in tempo a capire. Con una gamba sott'acqua mi fece lo sgambetto e finii sotto.
Sbattei le palpebre e trovai a pochi centimetri dal mio viso i suoi bellissimi occhi che mi scrutavano e le sue braccia che mi circondavano. Vedevo i miei capelli fluttuare attorno a noi; sembrava un sogno e in fondo lo era.
Il suo sguardo era dolce e tormentato e io mi sentii morire all'idea che di lì a poco mi sarei trovata nel mio letto e lui in mezzo alla battaglia. Gli sfiorai la guancia e lui prese la mia mano e se la portò alle labbra. Qualcosa nel mio sguardo lo mise in guardia perché mi fissò e parlò senza ovviamente emettere suono. "Non dormire".
Mi svegliai ansimando nel mio letto, completamente fradicia e gelata. Nemmeno gli aghi che mi trafiggevano potevano distogliermi dal pensiero che fosse in pericolo e l'angoscia mi travolse.
Non c'era tempo da perdere. Mi buttai giù dal letto, atterrando sulle ginocchia e gattonai con sforzo fino all'armadio, dal quale estrassi i primi abiti asciutti che mi capitarono a tiro. Dovevo essere veloce e pronta a un improvviso ritorno; ritrovarmi nuda in Inverso non sarebbe stato il massimo.
Era notte fonda, e per fortuna la casa totalmente addormentata. Una volta rivestita, mi ributtai sul letto umido per far placare del tutto i tremori. Ero completamente sveglia, ma Jason poteva aver bisogno di me... Di sicuro però aveva un piano. E se avessi peggiorato la sua situazione tornando da lui? In fondo il suo pericolo ero io, quindi per quanto mi costasse doverlo ammettere dovevo dargli retta e starmene lì dov'ero a aspettare il suo ritorno.
Fu una notte lunga - di veglia- e l'alba che annunciò il nuovo giorno non portò speranza, solo panico. Perché non tornava da me? Poteva essergli successo di tutto. Ricordavo una per una le parole di Christopher: non tutte avevano senso per me, ma non importava, perché il fatto che ci volesse entrambi morti era più che evidente.
Bussarono alla porta e mia madre fece capolino. "Scendi a fare colazione?".
"Non ho fame".
"Ti senti male?".
Mi sentivo male? Beh, peggio che male. In effetti avevo la testa pesante e i brividi, ma forse era la mancanza di sonno. Mia madre si avvicinò e si sedette sul letto, poggiandomi una guancia sulla fronte, come faceva quando ero piccola. Chiusi gli occhi, grata per un attimo per il conforto di quel contatto. Stavo per scoppiare in lacrime, ma mi trattenni, non so come.
"Mi sembri calda...", disse in tono apprensivo.
Non risposi, la mia influenza era l'ultima delle mie preoccupazioni.
Mi spinse giù, sul letto."Forse è meglio se resti a letto, dormi ancora un po'".
Dormire? Balzai giù dal letto, facendo cadere le coperte.
Mia madre mi prese un braccio, osservandomi. "E questi come te li sei fatti?".
Non capii cosa intendeva finché non seguii il suo sguardo. Il mio braccio destro era ricoperto di sottilissimi graffi, già in via di guarigione. Distolsi lo sguardo, facendo spallucce.
"June".
"Mi sa che è meglio se mangio qualcosa, così poi mi rimetto a letto". Per lo meno era ciò che volevo farle credere, così poi se ne sarebbe andata a lavoro e mi avrebbe lasciata in pace.
Una volta in cucina trovammo Peter e mio padre che mangiavano pigramente.
"Al, tua figlia non si sente bene".
Mio padre abbassò il giornale e mi osservò con un sopracciglio alzato.
Sospirai. "Non è niente papà, devo aver preso un'infreddatura".
Peter interruppe la sua tazza di cereali e mi guardò con curiosità; gli feci cenno di voltarsi.
Mio padre a quel punto era diventato il dottor Roth. Si alzò e mi venne vicino.
"Apri la bocca".
"Papà..." , attaccai esasperata.
"Niente storie, June".
Mi rassegnai e aprii la bocca.
"Mmm... E' un po' rossa, ma niente di che". Dopodiché mi tastò la fronte. "Nah, poca roba Susan. June ha ragione: basterà una giornata a riposo... E poi tanto non è che abbia molto da fare eh eh".
Nessuno rise, men che meno io, che mi affrettai a buttare giù un po' di caffè. Sollievo immediato.
"Forse dovremmo disdire", buttò lì mia madre, catturando istantaneamente la mia attenzione.
"Credo tu abbia ragione", rifletté mio padre.
Li osservai entrambi. "Disdire cosa?".
Mia madre sospirò, infilando dei fascicoli nella sua cartella. "Gli Hamilton ci hanno invitato per due giorni in campagna... Ricordi, George ha l'età di Peter e il padre aveva promesso a entrambi di portarli a fare un giro in mongolfiera... Non che sia molto d'accordo".
Peter alzò gli occhi al cielo e anche se non diceva niente capivo che era deluso.
"Ma mamma, se lo hai promesso devi andare! E' tardi per disdire non trovi?".
"E secondo te una mongolfiera è più importante di mia figlia?", chiese acida.
"Non usarmi come scusa, io sto benissimo".
Ovviamente intervenne mio padre. "Signorina non usare quel tono con tua madre".
Dovevano andarsene, io ero fuori di me e sapevo che poteva accadere di tutto. Non li volevo nei paraggi una volta che fossi svenuta improvvisamente sul pavimento della cucina, mentre il mio corpo cambiava inspiegabilmente e si ricopriva di graffi, ferite... O mutilazioni. Abbassai lo sguardo e cercai di calmarmi, per non peggiorare la situazione.
"Susan, direi che sta piuttosto bene e ti preoccupi inutilmente. Qualche giorno fuori ci farà bene e June starà qui a riposo e avrà tempo per riflettere sul suo atteggiamento".
Annuii senza alzare gli occhi, in fin dei conti avevo ottenuto ciò che volevo. I miei uscirono in silenzio e Peter mi si avvicinò piano. "Cos'è successo?".
Cosa potevo rispondergli? Che rischiavo di perdere la mia unica ragione di vita? Mi morsi un labbro e corsi di sopra per non mettermi a piangere davanti a lui, lo avrei inutilmente spaventato.
Più tardi mi portò in camera un vassoio con un panino e una tazza di thè caldo. Mi trovò seduta per terra, sotto la finestra, con la testa sulle ginocchia. "Non vuoi dormire, vero?".
"Non posso. Lo metterei in pericolo", risposi affranta.
"Perché?", chiese Peter sedendosi a terra vicino a me.
Sollevai la testa e lo guardai mesta. "Nel suo mondo non sono entusiasti della nostra... tresca. Hanno progetti diversi per lui, che non includono me". Non aggiunsi che volevano ucciderci entrambi, perché turbarlo in fin dei conti? Meno sapeva meglio era.
Peter rimase in silenzio, fissando il pavimento. "Ma tornerà?", chiese titubante.
Era tutta la notte e tutto il giorno che mi ponevo la stessa domanda; dalle labbra mi sfuggì un singhiozzo strozzato e ricacciai la testa tra le ginocchia. Sentii un braccio di Peter sulle spalle e la sua testa poggiarsi nell'incavo del mio collo.
Restammo così per ore.
Il pomeriggio mi scivolò addosso, ero in uno stato di trance autoimposta, non volevo pensare, non volevo immaginare tutte le orribili cose che potevano capitargli. Una vocina nella mia mente mi diceva che se fosse stato davvero in pericolo sarei tornata io da lui, ma dentro di me ero convinta che qualcosa di terribile stesse comunque accadendo. Sentii la macchina di mio padre nel viale e risollevai piano la testa, dovevo recitare la mia parte. Peter mi tese la mano e mi aiutò a rialzarmi, eravamo entrambi silenziosi e intorpiditi. Ci scambiammo un'occhiata e scendemmo di sotto.
I miei stavano già caricando la macchina e mia madre, diretta di sopra, mi vide in soggiorno e si fermò.
"Oh! Stavo venendo a vedere come stavi".
Sorrisi. "Mi sento già meglio mamma".
"Sei sicura?", chiese preoccupata.
"Andate e divertitevi, mi basta un po' di riposo", le assicurai con convinzione.
Mi osservò attentamente, con un velo di apprensione. "Tanto è meglio se non guidi...", borbottò tra sé.
"Cosa?"
Scosse la testa. "Stavo riflettendo che resterai senza macchina. Ho portato la mia dal meccanico".
Non dovevo andare da nessuna parte, naturalmente, non nel nostro mondo per lo meno. "Non importa, resto a casa, sta pure diluviando".
Mia madre annuì. "Ti chiamo stasera".
Le sorrisi per rassicurarla.
"Ciao tesoro, stai al caldo eh?", disse mio padre dalla porta.
"Certo".
Peter venne verso di me e senza preavviso mi abbracciò forte alla vita. Mi irrigidii, immaginando la sorpresa dei miei. Sollevò il viso verso di me, lo sguardo intensamente preoccupato. "Tornerà", disse piano.
Sciolsi le sue mani dalla mia schiena e lo scansai. "Vai. C'è il tempo adatto per un bel giro in mongolfiera", sogghignai per restare nel personaggio. Mi guardò un'ultima volta dalla porta e mi salutò con la mano. Rimasi impalata nell'andito finché non sentii più il rumore della macchina, dopodiché ci fu solo la pioggia e il mio respiro affannato.
L'idea mi venne improvvisa. Andai in cucina. Sollevai la cornetta e composi il numero del radio taxi appuntato sul frigorifero. Diedi il mio indirizzo e attesi. Sarei andata a casa di Jason ad aspettarlo, almeno avrei tenuto la mente impegnata.
Dopo un quarto d'ora sentii suonare un clacson. Presi il cellulare e le chiavi di casa - di entrambe le case - e uscii nella pioggia, correndo verso il taxi. Diedi l'indirizzo al conducente e in una ventina di minuti ero arrivata. Era una bella palazzina nel quartiere dei pescatori, una delle zone più pittoresche di San Francisco. Nel tempo che impiegai a raggiungere l'atrio mi inzuppai da capo a piedi, ma non ci badai. Per qualche minuto l'angoscia era stata sostituita dalla curiosità.
Non sapevo a che piano fosse per cui iniziai a salire le scale, fermandomi a ogni porta. Scott? No. Maslow? No. Secondo piano: Adams? No... Green? Mmm... Green mi suonava bene, estrassi la chiave dalla mia tasca e per precauzione suonai il campanello. Attesi qualche secondo e senza esitare infilai la chiave.
Si aprì subito e non potei trattenere un sorriso. Green, come i nostri occhi, come la Kawasaki. Mi trovai in un salone arredato con colori caldi, ciliegio e arancio, un bel divano angolare, un angolo cottura attrezzatissimo e un enorme televisore collegato all'impianto audio e dvd. Una porta finestra dava su di un balcone che non aprii a causa della pioggia. Già ero fradicia, i brividi mi assalirono. Tolsi le scarpe per non sporcare il pavimento chiaro e esplorai il resto dell'appartamento.
Tramite un piccolo disimpegno si accedeva alla zona notte: sulla destra una camera con un letto enorme ricoperto di un copriletto rosso. Mi soffermai a guardare il letto per un istante. Sospirai nervosamente e aprii esitando l'armadio. Il lato destro era vuoto, mentre nel sinistro c'erano due paia di pantaloni sportivi - chiaramente della taglia di Jason- e alcune magliette. Mi osservai nel lungo specchio che ricopriva l'anta centrale: sembravo un gatto bagnato; decisi che a Jason non sarebbe dispiaciuto, perciò mi sfilai veloce i miei abiti fradici e misi una delle sue magliette. Mi arrivava alle ginocchia, però mi piaceva l'idea di indossare qualcosa di suo, anche se probabilmente la maglietta era nuova di zecca. Varcai scalza un'altra porta: era il bagno. Le piastrelle rosa, una grande vasca smaltata bianca. Afferrai il phon poggiato su una mensola e mi asciugai i capelli. Stavo già abbastanza male, meglio evitare una bronchite. Il caldo era piacevole, mi sentivo completamente a mio agio.
C'era solo un'altra stanza. Era piccola, con un lettino e un tavolino con il pc e il collegamento a internet. Probabilmente in passato vi aveva abitato una famiglia con un bambino perché le pareti erano dipinte di azzurro, sul soffitto sbuffi di nuvole e stelle luminescenti. Afferrai un plaid dai piedi del letto e tornai in cucina accomodandomi sul divano e coprendomi con la calda coperta, in attesa che i miei vestiti si asciugassero. Era sera inoltrata ormai, la pioggia ridotta a un gocciolio accompagnava i miei pensieri a stento sotto controllo.
Dopo un'oretta chiamò mia madre per avvertirmi che erano arrivati dagli Hamilton e per sapere come stessi. Mentii ovviamente, le dissi che ero a letto e dormicchiavo. Mi augurò la buonanotte promettendomi che avrebbe richiamato l'indomani mattina.
Non c'era altro da fare. Accesi la tv per sentirmi meno sola, ma non seguii nessun programma. Mi sentivo avvampare e i brividi diventarono sempre più forti. Avevo la febbre, non c'erano dubbi. Mi avvolsi stretta nella coperta e senza volerlo chiusi gli occhi. Mi chiesi di sfuggita e con tono vagamente delirante come sarebbe stato trovarmi in Inverso febbricitante e con addosso solo una maglietta. Fu questo il particolare che mi fece resistere dall'addormentarmi all'istante, resistenza che durò ben poco. Gli occhi si richiusero e riuscii solo a provare un briciolo di speranza perché lo avrei ritrovato e finalmente avrei ammesso anche con lui l'innegabile verità: lo amavo e lo avrei amato per sempre. Sorrisi e portai la mano al mio petto. Solo più tardi capii che dietro quel gesto vi era il ritorno di Jason: il segnale si era perso nei fumi della febbre, nel delirio della mia mente.
Siamo arrivati al capitolo 10! Vi ringrazio per star dedicando del tempo ad Inverso!
B.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top